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Autore: milla_m    11/02/2013    1 recensioni
Mi stavano stretti. I pantaloni, i corridoi. Non potevo tenere le mani in tasca senza che mi si arrossassero ed incominciassero a pulsare dolorosamente.
Non riuscivo a camminare, senza costringere il mio viso a voltarsi verso le pareti, lasciandomi soffocare dal poco ossigeno.
Non riuscivo a vedere la fine, non riuscivo a fermarmi dall'andarci incontro.
Era buio, buio pesto. All'improvviso si aprì una finestra, spalancandosi e investendomi d'aria e luce.
Capii che il buio aveva i suoi buoni motivi per essere lì.
La luce mi accarezzò il viso come dita calde che non mi avevano mai toccata.
Accettai il buio, amai la luce.
Genere: Fantasy, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio, Carlisle Cullen, Quileute, Seth Clearwater | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Jacob/Renesmee
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga, Contesto generale/vago
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Salve! Premetto che è il mio primo tentativo su efp, ma dico anche che sto lavorando su questa ff da un bel po'. 

Hope u like it! (:

1.

Mi toccai velocemente la gola. Non c'era nulla che mi trattenesse il respiro, ma non riuscivo ad inspirare; riprovai, mentre il mondo sembrava girare all'improvviso nel verso opposto. Il buio mi incombeva intorno.

Una pietra gelida mi sfiorò le labbra. Inspirai. Ossigeno, poi luce.

 

Il mio mondo era immerso nel buio; lo era sempre stato ed ero convinta che lo sarebbe stato per un bel po'. Sapevo che il fato non aveva predisposto per me nulla di abbastanza buono, fortunato o felice. Mi sentivo destinata a vivere fra egocentrismo, crudeltà e mancanza di scrupoli; erano le cose che mi avevano circondata maggiormente per molti anni: ci avevo fatto l'abitudine e mi ero adattata tanto da assumere io stessa questi stessi comportamenti.

Era una cosa su cui ormai riflettevo spesso: come ero diventata, migliorando o peggiorando secondo la situazione in cui mi trovavo. Qualche volta mi chiedevo se stavo cercando di decidere qual era il modo migliore di essere, quale fosse la difesa giusta al dolore di ogni tipo.

«Mh. Scusa.», strinsi le sopracciglia e sbuffai. Ero seduta su un muretto di pietra rossa, con le gambe penzoloni all'infuori ed i capelli che mi solleticavano il viso; non volevo essere disturbata ed effettivamente era anche troppo presto per incominciare a lavorare, così mi ero messa lì, scappando da tutti. La voce che avevo sentito mi sembrava...irreale.

Troppo perfetta e musicale perfino durante una breve tosse. Strinsi ancora di più le palpebre. Quella mattina in Canada quasi brillava il sole; era tanto strano quanto il venticello caldo di fine estate. Non mi sarei distratta, aprendo gli occhi per finire accecata dalla luce, anche se fioca.

«Qual è la casa famiglia 'Cottrin'?», l'uomo che sentivo essere a destra porse la domanda con gentilezza, come se la mia mancanza di educazione lo divertisse soltanto. Mi sprecai ad alzare una mano e indicare col pollice dietro di me. Normalmente non avrei risposto, ma quell'uomo sembrava troppo insistente per lasciarmi perdere.

«Grazie.», prego. Lo mandai al diavolo con il pensiero e rimasi lì.

Dopo quelli che mi parvero cinque secondi, ma che furono in realtà mezz'ora, sentii la musica. Il vecchio era ancora lì; solo lui sembrò convincermi ad aprire gli occhi e mettermi a sedere. Rimasi cieca finché i miei occhi non si abituarono alla luce, in parte ovattata dalle nuvole poco scure. Fred era un mio vicino di casa: un vecchietto alto e magro, con folti capelli bianchi ed un sorriso a mostrare la dentiera, affacciato alla sua finestra. La musica che aveva messo ad alto volume era forse un concerto di solo piano; era una melodia lenta, coinvolgente, però.

Fred mi fissava, mentre io fissavo lui. Sorrise. Non ricambiai ed andai via, poggiando la suola delle converse consumate sull'asfalto. Non avevo voglia di rientrare, né tanto meno volevo restare lì, però sapevo che avrei dovuto dare una mano dentro.

Appena misi piede nella casa famiglia me ne pentii; non era più lo sguardo di Fred che avrei dovuto sopportare, ma quello di qualcun altro: Olivie. Dal fondo della stanza mi guardava una donna alta un metro ed ottanta, il cui collo partecipava a darle l'aspetto di una giraffa; aveva, come ogni singola volta che l'avevo incontrata in vita mia, i capelli neri attaccati in uno chignon sulla nuca. Indossava una gonna nera che le arrivava a metà polpaccio ed una camicia bianca ben stirata, abbottonata fino al collo. Le labbra erano aperte in un ghigno rivolto a me, mentre gli occhi neri cercavano di capire cosa avrei potuto fare per lei quel giorno, magari che scatenasse la mia ira tanto da spingermi ad urlarle contro e farmi punire per qualche parola troppo cattiva alle orecchie dei bambini.
Mi sfuggì un'imprecazione a bassa voce, mentre mi chiamava; mi impalai al centro della stanza e la guardai male; era in contrasto in quell'ambiente così sterile: le pareti e le mattonelle del pavimento bianche, non facevano che incentrare l'attenzione su di lei. Non trovavo nulla di diverso su cui concentrarmi per evitare di sprigionare il mio odio così improvvisamente. Se mi fossi applicata sulla sua scrivania spoglia, forse mi sarei ritrovata con una mano sanguinante ed un'inutile scheggiatura nel legno duro.

«Isabelle.», mi richiamò, con più rabbia. Gli occhiali piccoli le scivolarono dal naso stretto, rimbalzando sul petto, ancorati alla cordicella che le passava intorno al collo. Avevo capito che uno dei suoi intenti era farmi arrabbiare e Olivie sapeva benissimo che chiamarmi 'Isabelle' era solo il modo più semplice e meno divertente che ci fosse.

Presi un respiro e mossi velocemente i piedi verso di lei; pensai che andarmene al più presto sarebbe stato un ottimo modo di far finire la tortura. «Aiuta con i neonati, di sopra. Cerca di essere gentile con Rosalie ed Emmett Cullen.», mentre parlava, sistemava dei fogli sulla scrivania, poi si sedette, ignorando lo scricchiolare della sedia.

Non lo sarò., mi ripetei. Perché essere gentili con degli sconosciuti se non lo sono con nessuno?; con questi pensieri distorti dalla rabbia, incominciai a salire le scale.

Conoscevo quell'edificio a memoria, forse grazie agli anni vissuti nel tentativo di nascondermi; aveva una pianta semplice, ed era organizzato in modo piuttosto efficace.

Al primo piano c'erano il largo ingresso, la mensa e la cucina; in quello superiore stanze di utilità ai bambini ed alcuni uffici importanti; subito dopo, due piani di stanze ed un buco nella mansarda, che chiamavo stanza, tutto mio.

Era un privilegio per qualcuno che aveva passato dai sette ai diciassette anni a rincorrere la libertà in quella casa famiglia, lottando contro le adozioni e i cambiamenti.

Volevo solo uscire di lì: era diventata la mia priorità, certamente l'unica.

La polvere che copriva di uno strato leggero le scale le rendeva quasi letali, per me che le stavo salendo distrattamente; scivolai all'ultimo gradino e, posizionando il ginocchio per terra riuscii a non cadere. Una scarica di dolore mi confuse per un attimo, così quando una mano fredda mi strinse il braccio, scattai con lo sguardo verso l'alto e arretrai, rischiando di cadere per tutta la rampa di scale ma finendo solo con il sedere per terra.

Definire quella stretta 'fredda', o 'gelata' o qualsiasi aggettivo che spinga una persona a rabbrividire, non raggiunge le sensazioni del contatto. Le sminuisce soltanto.

Per un attimo la temperatura della stanza scese sottozero, almeno per me; poi alzai lo sguardo: stavo guardando diritto in un paio di grandi occhi azzurri. Le pupille erano strette, quindi potetti fissare il colore delle iridi senza nemmeno sforzarmi. Subito dopo stavo guardando un ghigno perfetto e due labbra pallide, poco più scure rispetto alla pelle circostante; di un pallore triste, ma di una perfezione tale da lasciarmi senza fiato. Tutto, dai ricci corti e neri, alle mani curate dell'uomo che avevo davanti, mi lasciarono pensare che non fosse...normale. Quando si alzò in piedi notai la buona altezza e quanto fosse robusto; mi guardava, ridendo forse perché me ne ero rimasta lì ferma, con il sedere sulla scala. Mi alzai con lentezza studiata e mi avviai a sinistra senza guardarlo più; alla fine del corridoio me lo ritrovai affianco, quindi immaginai mi avesse seguita. Entrai nell'unica stanza davanti a me: la porta era aperta, mostrando alcune delle culle dei bambini; dentro regnava ciò che di più simile esisteva alla mia pace.

Le luci al neon rendevano l'ambiente ospedaliero; la luce che entrava dalle poche finestre era soffusa per le tende chiare che coprivano i vetri. C'erano meno di dieci bambini addormentati nella stanza; non riuscivo a capire come tutti fossero così calmi.

In un angolo della stanza, verso cui mi diressi, sedeva su una sediolina di plastica una ragazza bionda; sembrava stesse per cadere in avanti, per come era seduta sul bordo: ginocchia strette tra di loro, mani sulle cosce e sguardo attento verso i neonati.

Quando gli occhi chiari scattarono nella mia direzione si alzò e abbassò subito lo sguardo; ero orgogliosa della paura che aveva verso di me quella bambina di dieci anni.
Se ne andò lasciando dietro di sé una scia di svolazzanti capelli biondo platino.

Mi sedetti, appoggiandomi lentamente allo schienale; il ginocchio su cui ero caduta pulsava dolorosamente. Un paio di braccia si alzarono dall'ultima culla a sinistra, quando l'uomo, che era rimasto fuori, entrò nella stanza. Lui fece un sorriso e si avvicinò, tendendo un dito ad una delle manine; sentii una risatina, di quelle che sciolgono i cuori di pietra.

«Come si chiama?», chiese. La voce mi colpì: l'avevo già sentita quasi tre quarti d'ora prima, all'esterno dell'edificio.

Così anche la sua voce è perfetta, pensai prima di rispondere, senza nemmeno guardare il bambino che gli stringeva il dito. Non avevo bisogno di leggere il cartello per riconoscere quella manina. «Joanne.»

Ripeté tra sé il nome, poi rimase a coccolare il batuffolo di lenzuola, ridendo come un ebete.

Joanne era stata posata, circa una settimana prima, direttamente tra le mia braccia; avevo appena finito di lavare i piatti dopo essere stata punita, e passando per l'ingresso stavo per salire le scale. Fuori diluviava. Sentendo dei colpi alla porta, mi fermai a metà della rampa di scale, aspettando che si ripetessero; quando successe, d'istinto, mi diressi alla scrivania di Olivie e presi le chiavi dal secondo cassetto a sinistra. Fu facile precipitarmi alla porta ed aprirla, dopo altri tre colpi. La spalancai vedendo sui gradini del cortile una ragazza con la testa coperta da uno scialle; tremava, ma riuscì a mettermi delle calde e morbide coperte tra le braccia. Le ripetei di entrare più volte, ma quello che fece fu ringraziarmi e correre via.

Quando rimasi sulla soglia, con il vento freddo a sferzarmi le guance, le coperte incominciarono a piagnucolare. 

  
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