Rea indaga
La mattina
dopo l’aria in casa Simon era pressoché irrespirabile. Entrambi i componenti
della famiglia erano ansiosi, tesi e nervosi dopo la discussione della sera
prima e nessuno dei due sapeva cosa dire. E quella sensazione di ansia e nervosismo
andò avanti anche il lunedì, facendoli sentire come due estranei nella stessa
casa.
Rea in
primis, dopo aver ricevuto la telefonata di Bearne.
Come si
doveva comportare adesso che sapeva che suo padre, in realtà, non era mai
andato a una cena di lavoro? Aveva bisogno di una strategia e anche
velocemente.
Prese la sua
decisione in fretta e chiuse gli occhi per farsi coraggio.
“Papà?” lo chiamò, andando nella sua camera.
Tremava.
Jason si
affacciò in corridoio e la vide arrivare, sentendo il nervosismo prenderlo
tutto insieme.
“Sì?” rispose.
La ragazza
prese un bel respiro, si odiò un paio di volte per quello che stava per dire e
poi guardò suo padre.
“Mi dispiace” esclamò infine. Lui rimase basito.
“Come scusa?”
“Scusami per quello che ti ho detto ieri sera; scusami se
ho continuato ad uscire con Fabio nonostante il tuo divieto e scusami anche
perché l’ho portato qui; scusami se me la sono presa in quel modo quando mi hai
detto che non sono costante, in fondo avevi ragione tu, è vero; scusami se non
ti ho parlato dell’indagine; scusami se non ti ho detto che stavo male perché
tu mi avevi ferita; infine, scusami per essere sempre così orgogliosa”
gli disse. Jason aveva spalancato gli occhi: non era mai successo che sua
figlia gli chiedesse scusa, era sempre lui a fare la prima mossa.
Si avvicinò
a lei, tendendo le braccia, e la strinse a sé.
“No, scusami tu tesoro. Tutta questa situazione ci è
sfuggita di mano e dovevo capire subito che ti stavo ferendo con il mio
comportamento distaccato, sono stato un idiota. Puoi perdonarmi?” le
chiese. Rea gli passò le braccia intorno alla vita e affondò la testa nel suo
petto, sentendosi al sicuro.
“Ti ho già perdonato” gli assicurò. Lui sorrise e
si impose di non piangere, poi si allontanò un po’.
“Ti va di venire con me in ufficio, stamani? Fai rapporto
su ciò che hai scoperto e poi andiamo a pranzo insieme” le propose.
“Ma la scuola?”
“Non sei obbligata a frequentarla, tu non devi sostenere
nessun esame, quindi puoi saltare per oggi. Vai a prepararti, ti aspetto giù”
le disse, spingendola in camera. Lei rise e annuì.
Una volta da
sola, Rea si sentì un po’ in colpa: quelle cose le aveva dette solo per fare in
modo che lui si fidasse di nuovo di lei, altrimenti non avrebbe chiesto scusa
nemmeno sotto tortura.
Sospirò e si
odiò: era giusto fare così, in fondo? “Sì, lo è:
lui ti ha mentito, dicendoti che era con Bearne, quindi tu non ti preoccupare e
continua” pensò, infilandosi una maglia comoda e un paio di jeans e
buttando la divisa scolastica sul letto in malo modo.
Mandò un
messaggio a Emma per dirle che non sarebbe andata a lezione, quella mattina, e
chiederle se poteva andare a casa sua nel pomeriggio per darle i compiti. La
risposta le arrivò meno di trenta secondi dopo, con un “d’accordo” scritto sopra e la richiesta dell’orario.
Rea sorrise
e uscì di camera, andando nell’ingresso da suo padre.
In ufficio,
Rea fece un rapporto molto dettagliato di ciò che era successo nelle ultime
settimane: dal bidello sospetto al ragazzo sparito, passando per le sue ipotesi
momentanee.
“Droga?
Pensi che tutto questo sia collegato alla droga?” le chiese Bearne, stupito.
“Sì, ne sono convinta” affermò. L’uomo si passò una
mano tra i capelli e sospirò.
“Gli esami
tossicologici sui cadaveri, però, sono risultati negativi. Nessuna traccia di
qualche sostanza strana” disse. Lei ci pensò un po’, poi fece spallucce.
“Questo non significa niente. Studiando chimica qualche
anni fa, mi ricordo che c’erano delle sostanze che non potevano essere rilevate
perché si dissolvevano nel sangue, mimetizzandosi con le cellule del corpo.
Erano più pericolose delle altre proprio per questa loro particolarità”
spiegò.
“Ha ragione lei. Gli effetti che ha visto su quei ragazzi
mostrano sicuramente un atteggiamento non lucido da parte loro, unito a sguardo
vacuo e insensibilità al dolore. Non potevano essere in loro quando Rea li ha
visti, altrimenti significherebbe che ha trovato solo ragazzi con problemi
cerebrali molto sviluppati, durante la sua indagine” s’inserì Jason.
“Il che non può essere possibile, perché Mary l’ho vista a
scuola e lì stava bene, non gridava contro i muri né era particolarmente
arrabbiata con qualcosa o qualcuno” aggiunse la ragazza.
Bearne
sembrava poco convinto, però annuì.
“Capisco. E
tu pensi che questo Antonio, il bidello, sia coinvolto in qualche modo?” le
domandò.
“Ne sono quasi sicura. Ogni volta che è sparito qualcuno
l’ho trovato a parlare con lui, per non aggiungere del fatto che l’ultimo
ragazzo ci ha litigato qualche giorno fa” affermò convinta.
“Beh, se sei
sicura di questo non posso fare altro che chiederti di fargli qualche domanda.
Con discrezione e attenzione, però, non voglio che tu corra rischi” si
raccomandò. Rea sorrise felice.
“Nessun rischio, fino ad ora” assicurò.
“Meglio
così. Potete andare” li congedò.
Jason uscì
dallo studio e raggiunse un suo collega, mentre lei si stava mettendo la borsa
in spalla. Prima che potesse uscire, il capo la richiamò.
“Ho bisogno
che tu inoltri la tua domanda per far parte della squadra entro una settimana,
altrimenti per quest’anno si chiudono le iscrizioni e i corsi” le disse. La
ragazza rimase ferma con una mano sulla maniglia, indecisa. Sorrise e lo
guardò.
“Te la porto domani, non ti preoccupare” rispose.
Raggiunse il
padre e insieme andarono a pranzo fuori. Forse lì poteva fargli qualche domanda
e, magari, lui le avrebbe risposto.
“Lo odio, non lo sopporto! Perché mentirmi così? Non ha
alcun senso!” stava dicendo al telefono. Il pranzo non aveva sortito
l’effetto sperato: la cosa più importante di cui avevano parlato era stata se
quell’hamburger era troppo cotto oppure no. Il suo interlocutore sospirò.
“Almeno non ti ha ucciso
perché ci ha trovati insieme sul divano” le fece presente.
“Ho vent’anni, posso fare cosa mi pare in casa mia! Non ho
bisogno del suo permesso!”
“Rea, è sempre tuo padre!
Smettila di accusarlo così, magari ha avuto bisogno di andare a fare qualcosa
di importante e non può dirtelo”
“No, il mio sesto senso mi dice che lui sabato era a
divertirsi. Continua a rimanere la domanda: perché non dirmelo? Non mi
arrabbiavo mica se mi diceva ehi, esco
con una donna, spero che vada bene, tu vai a dormire presto e non aspettarmi
sveglia”
“Fossi in te io gli
chiederei chiaramente cosa ha fatto, dicendogli che sai che no era a una cena
di lavoro. Ora devo andare a studiare. Io ho la maturità quest’anno” le disse Fabio. Rea
sospirò.
“Hai ragione, scusami ti ho portato via fin troppo tempo.
Ci sentiamo più tardi, io aspetto Emma. Divertiti a studiare!” gli
augurò divertita.
“Non sei affatto simpatica”
la accusò
lui, buttando giù mentre rideva.
La ragazza
sentì il campanello squillare un attimo dopo e corse alla porta per aprire
all’amica.
“Benvenuta!” le disse, facendola entrare. Emma le
sembrava piuttosto impaurita e titubante.
“Qualche problema?” le domandò, sinceramente
preoccupata.
“No, niente di che, solo tanto studio” minimizzò la
mora, indicando i libri che aveva in braccio.
“Ah, quello. Sì, troppo studio” concordò Rea,
pensando che non si era mai fatta nessun tipo di problema nemmeno quando frequentava
le lezioni private.
La fece
accomodare in sala e si misero a parlare di quello che era successo a scuola,
dei compiti che avevano dato e delle date degli esami che erano appena state
annunciate.
“Bene, almeno so quanto tempo ho” esultò Rea,
felice. Emma la guardò confusa.
“Intendo per… studiare” spiegò imbarazzata.
“A me viene l’ansia: solo un mese e mezzo! Troppo poco
tempo!” esclamò l’altra, tremando di proposito.
Studiarono
un paragrafo e mezzo di filosofia prima che si rendessero conto che erano già
quasi le sei.
“Che strano, papà sarebbe dovuto tornare mezz’ora fa.
Lavora troppo, io glielo dico sempre” ragionò la ragazza, chiudendo il
libro. L’amica impallidì.
“Sì, decisamente” confermò.
Rea sospirò
e sorrise.
“Devi andare, immagino. Di solito tua madre viene a
prenderti verso quest’ora. Ti accompagno qua fuori” si offrì, alzandosi.
“G-grazie, ma non devi” balbettò Emma.
“Figurati, nessun disturbo per me” minimizzò Rea,
con un gesto della mano.
Quando
furono quasi arrivate nello spiazzo per la retromarcia, lei vide la Mercedes
nera di suo padre ferma, con lui dentro che leggeva il giornale.
Si sbracciò
per salutare.
“Che ci fai qui tutto solo? In casa ti senti stretto?”
chiese la ragazza, affacciandosi al finestrino. Jason sobbalzò e la guardò con
occhi imbarazzati.
“No, solo che mi è arrivato un messaggio e ho dovuto
controllare un articolo, tutto qua. Voi che cosa state facendo?” domandò
a sua volta.
“Ho accompagnato Emma ad aspettare sua madre, ma visto che
ci sei tu puoi rimanere al posto mio? devo chiamare Fabio” lo implorò.
Lui sospirò e annuì, facendola passare per una cosa che non voleva fare.
“Salutamelo e chiedigli scusa per sabato” si
raccomandò. Rea gli dette un bacio sulla guancia.
“Ci vediamo tra poco” lo salutò.
“Ciao Emma” disse alla mora.
Corse fino
all’ingresso di casa, felice di poter sentire Fabio, poi si ricordò di non aver
detto a suo padre che non c’era niente per cena.
Decise di
tornare indietro un secondo prima di dimenticarsene.
“Papà, una cosa prima di… di…”
Si bloccò,
con la sensazione di essere appena stata colpita da un pugno allo stomaco.
Si stavano
baciando. Emma e Jason, in macchina, si stavano baciando. Non la notarono
nemmeno quando, una volta staccati, l’uomo fece retromarcia e partì per
portarla chissà dove.
Rea rimase
ferma, col cuore a mille, e si sentì infinitamente sola. Si accasciò al suolo,
col petto che scoppiava.