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Autore: Lisa_Pan    19/02/2013    1 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ruggine

Ruggine

Ho conosciuto Imre..

Sì, si che me lo ricordo, mi prendo tempo, non è facile raccontare una cosa del genere, i ricordi vanno tirati fuori dalla scatola, messi in ordine, insomma non è tutto lì in fila; non li tocco da quel giorno, sono ancora nel loro ordine originale, odori, suoni, non ricordo nemmeno se è stato l’odore di erba bagnata o il rumore di un pianto rotto che mi ha attirata fin lì.

Il punto è che non ho mai conosciuto i miei genitori e vivevo in una casa famiglia da non so nemmeno quanto, probabilmente da tutta una vita; ero poco più che una bambina ma sapevo distinguere le note, tutte. Non sapevo scrivere e a malapena sapevo dividere in sillabe il mio nome, ma sapevo suonare e cantare. E sapevo leggere le note. Tutte, senza esclusione, a volte ne inventavo qualcuna; mi mettevo allungata sulla brandina, perché non avevamo letti veri e propri, erano più delle sdraio foderate di spugna, eravamo bambini, non ci lamentavamo...dicevo, mi stendevo sul letto e per addormentarmi canticchiavo qualche nota senza senso, era più per coprire il frastuono che faceva il rubinetto del bagno, perdeva acqua di notte, solo la notte perché durante il giorno era serrato, giuro controllavo di continuo. Credevo fosse uno strano scherzo di Dio, all’epoca credevo che tutto fosse opera sua, non perché ci credessi per davvero, volevano farmi credere in certe cose, era più una minaccia. Si all’epoca sentivo quel tipo di cose, la chiesa, la dottrina, il catechismo la domenica, come una specie di espiazione. Ero una bambina, una bambina abbandonata dai genitori che inventava note, non è che avessi modo di peccare o commettere granchè errori, perciò mi chiedevo a cosa servissero tutte quelle preghiere, io non avevo nulla da chiedere, non avevo bisogno di una mamma e di un papà, non sapevo nemmeno cosa fossero una mamma ed un papà. Beh, volevo il mio tempo per capirle certe cose, volevo essere sicura di credere in qualcosa di cui fossi consapevole non perché qualcuno mi avesse detto di crederci, così su due piedi. L’unica cosa in cui credevo era la musica, la sera mentre tutti gli altri pregavano inginocchiati ai piedi del letto io tenevo le mani nascoste sotto la coperta e contavo il numero di battute che c’erano in una frase o afferravo qualche nota persa qua e là. Ricordo che sopra il mio letto, proprio sopra la mia testa, c’era una finestra che dava sul giardino posteriore, quello comunicante con il cimitero.

Ricordo che ogni sera una donna si fermava davanti all’entrata del cimitero, il cancelletto arrugginito le sporcava le mani di rosso, ogni volta che si portava una mano agli occhi per asciugarli evitava accuratamente di passarsi i palmi sulle guance, si asciugava con il dorso della mano, come facevo io, come fanno i bambini. Era una cosa che mi piaceva particolarmente quella, la guardavo piangere e volevo abbracciarla; ogni volta che si asciugava le lacrime con quel gesto così...dolce ed innocente, volevo correre per il prato ed abbracciarla.

Cantava, la donna. E mentre tutti gli altri si facevano uscire lividi viola per pregare in ginocchio io posavo i gomiti sul letto e nascondevo le mani sotto le coperte e, con gli occhi chiusi, ascoltavo quelle note che si avvicinavano tanto alle mie, quelle inventate, quelle senza nome.

E l’ho conosciuto così Imre. Il giorno del funerale di suo padre; ero affacciata alla finestra sopra il mio letto e l’ho visto, nascosto dietro un albero. Indossava un pigiama a quadri di quelli di flanella e ai piedi portava un paio di anfibi neri pesanti, forse anche più pesanti di lui. Sentivo le sue dita battere contro l’albero; non le sentivo per davvero, ero lontana, ma l’osservavo, non so da quanto lo stessi osservando, e quel ticchettare contro la corteccia era ritmico, ammaliante. Pioveva a dirotto e non riuscivo nemmeno ad ascoltare la voce del prete pronunciare l’addio al padre di Imre ma sentivo le sue dita battere sulla corteccia. Sentivo il necessario, forse l’unica cosa che bisognava ascoltare, in quel momento.

E non so come ma mi sono ritrovata al piano di sotto che aprivo la porta con tutte e due le mani e la tiravo verso di me, ero scalza e indossavo una di quelle vestagliette leggere bianche, e pioveva a dirotto. Muovevo i piedi dentro il fango e avevo tutti quei legnetti fastidiosi incastrati fra le dita, facevano un male tremendo ma continuavo a camminare senza staccare gli occhi di dosso da quel bambino. Aveva la mia età o forse era di poco più grande di me, era già abbastanza alto e aveva già quello sguardo...penetrante. Ricordo che quando si è girato a guardarmi ho sentito una fitta sulla fronte, un male atroce, qualcosa di dannatamente appuntito cercava di perforarmi il cranio. Sentivo quasi il cervello sfrigolare contro le ossa. Non scherzo quando dico che il suo sguardo era già allora penetrante, un’arma micidiale. Ho cominciato a prenderlo a pugni implorando e inveendo contro di lui.

Non gli ho chiesto nulla, insomma non c’era niente da chiedergli, io non sapevo cosa significasse perdere qualcuno, io quel qualcuno non lo avevo nemmeno conosciuto quindi…era un po’ come perdere qualcosa che non hai, non ne senti la mancanza, non ne senti nemmeno la perdita. Perciò lo guardavo odiare quelle facce di fianco alla bara di suo padre e sentivo i cervelli di decine e decine di persone gemere dentro quei crani troppo stretti, il suo sguardo stava trapanando tutti, uno per uno. Voleva che se ne andassero, lo sentivo, non era difficile, voleva star solo con il padre, dirgli ciao senza rischiare d’inciampare in quelle facce trapanate. Che poi son sicura che nessuno conoscesse davvero quel bambino, non avevo mai visto quelle persone ed io ero una bambina che girava un sacco, tutti i giorni.

Ricordo di avergli stretto la mano, non so perché ma sentivo che dovevo farlo. Ero attratta da lui, ma in un modo strano. Sapevo quanto stava male, glielo leggevo negli occhi. Ricordo questa scena di lui che si gira a guardarmi ma non mi guarda affatto, prima di mettermi a fuoco lo vedo osservare elementi di me, elementi intorno a me, elementi qualsiasi presenti solo in quella sua testa in esplosione. Ero terrorizzata, non da lui, ero terrorizzata per lui. Così gli ho tirato uno schiaffo, i suoi occhi hanno letteralmente rallentato fino a fermarsi sui miei piedi scalzi e sporchi. E ha riso. Dico una risata tranquilla, una risata pulita, non come i miei piedi. Mi ha fatto stare bene, ero lì che gli stringevo la mano e che lo ascoltavo ridere, volevo mettergli un fiocco intorno al collo e portarmelo a casa e magari nasconderlo sotto al letto. Volevo che fosse una di quelle tante scatole da aprire quando ne avevo bisogno.

E poi la donna. Ha cominciato a cantare al di là del cancello e tutti e due ci siamo girati ad osservarla. Ci ha raggiunti lentamente con lo sguardo, ci ha accarezzati scivolando lungo le braccia fino ad arrivare a quel groviglio di dita che erano le nostre mani strette l’una dell’altra e…se n’è andata, con una parola strozzata nella gola, ne leggevo il suono muto sulle labbra: nero.

Imre è stato il mio primo colore, o forse è meglio dire non colore. Lui era chiuso in quella parola, la parola che è rotolata giù dalle labbra di quella donna fino alle mie orecchie. L’ho raccolta da terra e ripulita da tutta l’erba, il terriccio, il polline e l’acqua che la ricopriva e l’ho regalata ad Imre.

Ci siamo conosciuti quando entrambe le nostre vite stavano uscendo da un vicolo cieco, eravamo davanti a quella grande porta pesante che quando la cominci ad aprire ti sembra di piombo e mano a mano che lo spiraglio di luce si fa più ampio il peso diminuisce diventando gommapiuma. Era quel classico momento della vita in cui tutto ciò che prima ci sembrava enorme dopo era perfettamente a misura d’uomo.

Eravamo cresciuti tenendoci per mano, io donna lui uomo, sapevamo che dovevamo far qualcosa per noi stessi ma non sapevamo da dove cominciare. Quella porta sembrava un buon inizio così l’abbiamo spinta insieme ed è questo che voglio far capire, a chiunque, a voi, a loro, a volte anche a me stessa.

Di solito una strada è sempre troppo stretta per essere percorsa da due persone che camminano l’una accanto all’altra. Quella strada, fino alla porta, è il tipico metro di cemento che uno deve percorrere da solo, con le sue paure, i suoi fantasmi, i suoi fottuti problemi a fargli da ombra, sempre lì presenti a ricordargli che potrebbe non farcela e che magari quello che c’è oltre la porta farà schifo, ancora più di quello che c’è prima. Ma io e Imre eravamo bambini, lui era più alto di un comune bambino della sua età ma era mingherlino e io mangiavo poco, non è che ci tenessero all’ingrasso in quel posto. Quindi c’entravamo bene in due in quel mezzo metro di cemento, ci tenevamo per mano ed eravamo così vicini che uno poteva ascoltare con l’orecchio dell’altro. E così abbiamo fregato il solito andamento delle cose, quella frase “ognuno fa le proprie scelte, da solo, prendendosene le conseguenze”,  nessuno immaginava che io e Imre quel giorno saremmo cresciuti, nessuno immaginava che avremmo deciso di correre insieme quel rischio, aprire una porta più grande e pesante di noi, percorrere una strada di cemento scalzi o con un paio di anfibi pesanti. Perciò quella frase, per noi, su di noi, non andava bene, vestivamo già una vestaglia sbagliata e un pigiama ridicolo, eravamo già due idioti, io credevo persino di essere atea e mi ciucciavo ancora il dito prima di addormentarmi.

Se ci avessero detto che stavamo sbagliando, che non era il momento, probabilmente non li avremmo nemmeno ascoltati, perché sapevamo di essere un pugno in un occhio, due anatroccoli brutti e scarni, perciò perché provarci?

Ed è questo che siamo: due persone abbastanza piccole e strette da poter raggirare le regole di questo fottuto mondo. Insieme, come un’unica persona, come un piede e un anfibio, o come un paio di orecchie e una voce.

Due persone distinte che condividono mezzo metro di cemento, quel mezzo metro che conta però.

Ed ecco, c’è un’altra cosa.

Ricordo di essere scesa perché c’era un’altra cosa, un’altra persona che mi aveva incuriosita. Non ci penso mai, è una di quelle cose che noti e non sai come, nascosta tra le altre mille immagini che si accumulano nelle mente.

C’era una bambina, qualche albero più in là, seduta a terra, con il cappuccio tirato sugli occhi e un cane tra le braccia. Aveva quei lunghi capelli biondi che le ricadevano sugli occhi e una ciocca rosso fuoco che lasciava penetranti macchie rosse sui vestiti e sul terriccio sotto i suoi piedi. Era triste, era sola, era come persa, persa come quel ragazzino poco distante da lei.

E’ un’immagine che torna, più volte, e nei momenti meno opportuni.

La cosa più inquietante è che ogni volta che racconto di lei la sua immagine svanisce nel nulla, Imre non l’ha vista, Imre non sa chi sia, ma io l’ho vista diamine. Era lì, lo giuro. E lo giuro, tutte le volte e ogni dannata volta, quell’immagine sparisce chissà dove e non so più chi sia quella bambina, quale fosse il colore dei suoi capelli o della felpa; rimane solo quella sensazione di vuoto, come se qualcuno mi avesse cancellato un ricordo, come se nessuno dovesse sapere che lei fosse lì a due passi da noi.

E la dimentico, così come l’ho dimenticata la prima volta, passo dopo passo, a mano a mano che mi avvicinavo, dimenticavo la bambina e ricordavo Imre, fino a quando non gli ho stretto la mano e quella ciocca rossa non è sparita completamente dal mio campo visivo e così dalla mia mente.

Capelli biondi.

Cane tra le braccia credo.

Una ciocca di capelli ma non ricordo il colore.

Un cappuccio, che cappuccio?

Un albero a pochi passi da Imre.

Vuoto.

***

Andando avanti mi sono resa conto che avevo fatto incontrare tutti tranne Emi e Imre, io sapevo come si erano conosciuti, da qualche parte nella mia testolina avevo un'immagine di loro abbastanza chiara, ma non ne avevo mai scritto. Quindi eccoli, Emi e Imre impegnati nel loro primo incontro. Sono teneri vero? Teneri e sporchi.

Vaaaa bene, non ho molto da dire, anzi devo scappare, però ringrazio come sempre chi legge segue e preferisce, ogni tanto ne spunta qualcuno di nuovo e io vado lì a trovarlo con il mio delirio, quindi grazie.

E poi grazie a Chara che mi sta dietro e mi cazzia. Io vi suggerisco anche una cosa E' una roba rossa, ma proprio rossa ma anche troppo bella.. ed è sua..quindi fiondatevici perchè ne vale la pena.

Tante coccole.

Lis

   
 
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