Ruggine
Ho conosciuto Imre..
Sì, si che me lo ricordo, mi prendo tempo, non è facile
raccontare una cosa del genere, i ricordi vanno tirati fuori dalla scatola,
messi in ordine, insomma non è tutto lì in fila; non li tocco da quel giorno,
sono ancora nel loro ordine originale, odori, suoni, non ricordo nemmeno se è
stato l’odore di erba bagnata o il rumore di un pianto rotto che mi ha attirata
fin lì.
Il punto è che non ho mai conosciuto i miei genitori e
vivevo in una casa famiglia da non so nemmeno quanto, probabilmente da tutta
una vita; ero poco più che una bambina ma sapevo distinguere le note, tutte.
Non sapevo scrivere e a malapena sapevo dividere in sillabe il mio nome, ma
sapevo suonare e cantare. E sapevo leggere le note. Tutte, senza esclusione, a
volte ne inventavo qualcuna; mi mettevo allungata sulla brandina, perché non
avevamo letti veri e propri, erano più delle sdraio foderate di spugna, eravamo
bambini, non ci lamentavamo...dicevo, mi stendevo sul letto e per addormentarmi
canticchiavo qualche nota senza senso, era più per coprire il frastuono che
faceva il rubinetto del bagno, perdeva acqua di notte, solo la notte perché
durante il giorno era serrato, giuro controllavo di continuo. Credevo fosse uno
strano scherzo di Dio, all’epoca credevo che tutto fosse opera sua, non perché
ci credessi per davvero, volevano farmi credere in certe cose, era più una
minaccia. Si all’epoca sentivo quel tipo di cose, la chiesa, la dottrina, il
catechismo la domenica, come una specie di espiazione. Ero una bambina, una
bambina abbandonata dai genitori che inventava note, non è che avessi modo di
peccare o commettere granchè errori, perciò mi chiedevo a cosa servissero tutte
quelle preghiere, io non avevo nulla da chiedere, non avevo bisogno di una
mamma e di un papà, non sapevo nemmeno cosa fossero una mamma ed un papà. Beh,
volevo il mio tempo per capirle certe cose, volevo essere sicura di credere in
qualcosa di cui fossi consapevole non perché qualcuno mi avesse detto di
crederci, così su due piedi. L’unica cosa in cui credevo era la musica, la sera
mentre tutti gli altri pregavano inginocchiati ai piedi del letto io tenevo le
mani nascoste sotto la coperta e contavo il numero di battute che c’erano in
una frase o afferravo qualche nota persa qua e là. Ricordo che sopra il mio
letto, proprio sopra la mia testa, c’era una finestra che dava sul giardino
posteriore, quello comunicante con il cimitero.
Ricordo che ogni sera una donna si fermava davanti
all’entrata del cimitero, il cancelletto arrugginito le sporcava le mani di
rosso, ogni volta che si portava una mano agli occhi per asciugarli evitava
accuratamente di passarsi i palmi sulle guance, si asciugava con il dorso della
mano, come facevo io, come fanno i bambini. Era una cosa che mi piaceva
particolarmente quella, la guardavo piangere e volevo abbracciarla; ogni volta
che si asciugava le lacrime con quel gesto così...dolce ed innocente, volevo
correre per il prato ed abbracciarla.
Cantava, la donna. E mentre tutti gli altri si facevano uscire
lividi viola per pregare in ginocchio io posavo i gomiti sul letto e nascondevo
le mani sotto le coperte e, con gli occhi chiusi, ascoltavo quelle note che si
avvicinavano tanto alle mie, quelle inventate, quelle senza nome.
E l’ho conosciuto così Imre. Il giorno del funerale di suo
padre; ero affacciata alla finestra sopra il mio letto e l’ho visto, nascosto
dietro un albero. Indossava un pigiama a quadri di quelli di flanella e ai
piedi portava un paio di anfibi neri pesanti, forse anche più pesanti di lui.
Sentivo le sue dita battere contro l’albero; non le sentivo per davvero, ero
lontana, ma l’osservavo, non so da quanto lo stessi osservando, e quel
ticchettare contro la corteccia era ritmico, ammaliante. Pioveva a dirotto e
non riuscivo nemmeno ad ascoltare la voce del prete pronunciare l’addio al
padre di Imre ma sentivo le sue dita battere sulla corteccia. Sentivo il
necessario, forse l’unica cosa che bisognava ascoltare, in quel momento.
E non so come ma mi sono ritrovata al piano di sotto che aprivo
la porta con tutte e due le mani e la tiravo verso di me, ero scalza e
indossavo una di quelle vestagliette leggere bianche, e pioveva a dirotto.
Muovevo i piedi dentro il fango e avevo tutti quei legnetti fastidiosi
incastrati fra le dita, facevano un male tremendo ma continuavo a camminare
senza staccare gli occhi di dosso da quel bambino. Aveva la mia età o forse era
di poco più grande di me, era già abbastanza alto e aveva già quello sguardo...penetrante.
Ricordo che quando si è girato a guardarmi ho sentito una fitta sulla fronte,
un male atroce, qualcosa di dannatamente appuntito cercava di perforarmi il
cranio. Sentivo quasi il cervello sfrigolare contro le ossa. Non scherzo quando
dico che il suo sguardo era già allora penetrante, un’arma micidiale. Ho
cominciato a prenderlo a pugni implorando e inveendo contro di lui.
Non gli ho chiesto nulla, insomma non c’era niente da
chiedergli, io non sapevo cosa significasse perdere qualcuno, io quel qualcuno
non lo avevo nemmeno conosciuto quindi…era un po’ come perdere qualcosa che non
hai, non ne senti la mancanza, non ne senti nemmeno la perdita. Perciò lo
guardavo odiare quelle facce di fianco alla bara di suo padre e sentivo i
cervelli di decine e decine di persone gemere dentro quei crani troppo stretti,
il suo sguardo stava trapanando tutti, uno per uno. Voleva che se ne andassero,
lo sentivo, non era difficile, voleva star solo con il padre, dirgli ciao senza
rischiare d’inciampare in quelle facce trapanate. Che poi son sicura che
nessuno conoscesse davvero quel bambino, non avevo mai visto quelle persone ed
io ero una bambina che girava un sacco, tutti i giorni.
Ricordo di avergli stretto la mano, non so perché ma sentivo
che dovevo farlo. Ero attratta da lui, ma in un modo strano. Sapevo quanto stava
male, glielo leggevo negli occhi. Ricordo questa scena di lui che si gira a
guardarmi ma non mi guarda affatto, prima di mettermi a fuoco lo vedo osservare
elementi di me, elementi intorno a me, elementi qualsiasi presenti solo in
quella sua testa in esplosione. Ero terrorizzata, non da lui, ero terrorizzata
per lui. Così gli ho tirato uno schiaffo, i suoi occhi hanno letteralmente
rallentato fino a fermarsi sui miei piedi scalzi e sporchi. E ha riso. Dico una
risata tranquilla, una risata pulita, non come i miei piedi. Mi ha fatto stare
bene, ero lì che gli stringevo la mano e che lo ascoltavo ridere, volevo
mettergli un fiocco intorno al collo e portarmelo a casa e magari nasconderlo
sotto al letto. Volevo che fosse una di quelle tante scatole da aprire quando
ne avevo bisogno.
E poi la donna. Ha cominciato a cantare al di là del
cancello e tutti e due ci siamo girati ad osservarla. Ci ha raggiunti
lentamente con lo sguardo, ci ha accarezzati scivolando lungo le braccia fino
ad arrivare a quel groviglio di dita che erano le nostre mani strette l’una
dell’altra e…se n’è andata, con una parola strozzata nella gola, ne leggevo il
suono muto sulle labbra: nero.
Imre è stato il mio primo colore, o forse è meglio dire non
colore. Lui era chiuso in quella parola, la parola che è rotolata giù dalle
labbra di quella donna fino alle mie orecchie. L’ho raccolta da terra e
ripulita da tutta l’erba, il terriccio, il polline e l’acqua che la ricopriva e
l’ho regalata ad Imre.
Ci siamo conosciuti quando entrambe le nostre vite stavano
uscendo da un vicolo cieco, eravamo davanti a quella grande porta pesante che
quando la cominci ad aprire ti sembra di piombo e mano a mano che lo spiraglio
di luce si fa più ampio il peso diminuisce diventando gommapiuma. Era quel
classico momento della vita in cui tutto ciò che prima ci sembrava enorme dopo
era perfettamente a misura d’uomo.
Eravamo cresciuti tenendoci per mano, io donna lui uomo,
sapevamo che dovevamo far qualcosa per noi stessi ma non sapevamo da dove
cominciare. Quella porta sembrava un buon inizio così l’abbiamo spinta insieme
ed è questo che voglio far capire, a chiunque, a voi, a loro, a volte anche a
me stessa.
Di solito una strada è sempre troppo stretta per essere
percorsa da due persone che camminano l’una accanto all’altra. Quella strada,
fino alla porta, è il tipico metro di cemento che uno deve percorrere da solo,
con le sue paure, i suoi fantasmi, i suoi fottuti problemi a fargli da ombra,
sempre lì presenti a ricordargli che potrebbe non farcela e che magari quello
che c’è oltre la porta farà schifo, ancora più di quello che c’è prima. Ma io e
Imre eravamo bambini, lui era più alto di un comune bambino della sua età ma
era mingherlino e io mangiavo poco, non è che ci tenessero all’ingrasso in quel
posto. Quindi c’entravamo bene in due in quel mezzo metro di cemento, ci
tenevamo per mano ed eravamo così vicini che uno poteva ascoltare con
l’orecchio dell’altro. E così abbiamo fregato il solito andamento delle cose,
quella frase “ognuno fa le proprie scelte, da solo, prendendosene le
conseguenze”, nessuno immaginava che io
e Imre quel giorno saremmo cresciuti, nessuno immaginava che avremmo deciso di
correre insieme quel rischio, aprire una porta più grande e pesante di noi, percorrere
una strada di cemento scalzi o con un paio di anfibi pesanti. Perciò quella
frase, per noi, su di noi, non andava bene, vestivamo già una vestaglia
sbagliata e un pigiama ridicolo, eravamo già due idioti, io credevo persino di
essere atea e mi ciucciavo ancora il dito prima di addormentarmi.
Se ci avessero detto che stavamo sbagliando, che non era il
momento, probabilmente non li avremmo nemmeno ascoltati, perché sapevamo di
essere un pugno in un occhio, due anatroccoli brutti e scarni, perciò perché
provarci?
Ed è questo che siamo: due persone abbastanza piccole e
strette da poter raggirare le regole di questo fottuto mondo. Insieme, come
un’unica persona, come un piede e un anfibio, o come un paio di orecchie e una
voce.
Due persone distinte che condividono mezzo metro di cemento,
quel mezzo metro che conta però.
Ed ecco, c’è un’altra cosa.
Ricordo di essere scesa perché c’era un’altra cosa, un’altra
persona che mi aveva incuriosita. Non ci penso mai, è una di quelle cose che
noti e non sai come, nascosta tra le altre mille immagini che si accumulano
nelle mente.
C’era una bambina, qualche albero più in là, seduta a terra,
con il cappuccio tirato sugli occhi e un cane tra le braccia. Aveva quei lunghi
capelli biondi che le ricadevano sugli occhi e una ciocca rosso fuoco che
lasciava penetranti macchie rosse sui vestiti e sul terriccio sotto i suoi
piedi. Era triste, era sola, era come persa, persa come quel ragazzino poco
distante da lei.
E’ un’immagine che torna, più volte, e nei momenti meno
opportuni.
La cosa più inquietante è che ogni volta che racconto di lei
la sua immagine svanisce nel nulla, Imre non l’ha vista, Imre non sa chi sia,
ma io l’ho vista diamine. Era lì, lo giuro. E lo giuro, tutte le volte e ogni
dannata volta, quell’immagine sparisce chissà dove e non so più chi sia quella
bambina, quale fosse il colore dei suoi capelli o della felpa; rimane solo
quella sensazione di vuoto, come se qualcuno mi avesse cancellato un ricordo,
come se nessuno dovesse sapere che lei fosse lì a due passi da noi.
E la dimentico, così come l’ho dimenticata la prima volta,
passo dopo passo, a mano a mano che mi avvicinavo, dimenticavo la bambina e
ricordavo Imre, fino a quando non gli ho stretto la mano e quella ciocca rossa
non è sparita completamente dal mio campo visivo e così dalla mia mente.
Capelli biondi.
Cane tra le braccia credo.
Una ciocca di capelli ma non ricordo il colore.
Un cappuccio, che cappuccio?
Un albero a pochi passi da Imre.
Vuoto.
***
Andando avanti mi sono resa conto che avevo fatto incontrare tutti tranne Emi e Imre, io sapevo come si erano conosciuti, da qualche parte nella mia testolina avevo un'immagine di loro abbastanza chiara, ma non ne avevo mai scritto. Quindi eccoli, Emi e Imre impegnati nel loro primo incontro. Sono teneri vero? Teneri e sporchi.
Vaaaa bene, non ho molto da dire, anzi devo scappare, però ringrazio come sempre chi legge segue e preferisce, ogni tanto ne spunta qualcuno di nuovo e io vado lì a trovarlo con il mio delirio, quindi grazie.
E poi grazie a Chara che mi sta dietro e mi cazzia. Io vi suggerisco anche una cosa E' una roba rossa, ma proprio rossa ma anche troppo bella.. ed è sua..quindi fiondatevici perchè ne vale la pena.
Tante coccole.
Lis