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Autore: CowgirlSara    19/02/2013    3 recensioni
La pace era una sensazione stranissima. Era un qualcosa di bellissimo e fragile che ricopriva tutto come una coltre di brina. Sì, una specie di mattina invernale. Solo che adesso era estate e le battaglie, le perdite, i peccati, i sogni infranti erano veri. Il dolore era reale, ma era come se contasse e pesasse meno di quella pace finalmente raggiunta.
Dal Cap.2: La prima cosa di cui Milo si accorse fu che era sempre uguale, come se il tempo l’avesse, per qualche misterioso motivo, ignorata, nel suo scorrere indifferente.
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo Aiolia, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Rising - Back to the Sanctuary'
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WYA - 4
E siamo arrivati al capitolo forse più drammatico della storia. Questa storia giace nel mio pc da così tanto tempo che non riesco nemmeno a ricordare quando l’ho scritto, probabilmente il mio stile è molto cambiato da allora, spero che non si vedrà troppo la differenza nei prossimi capitoli.
Vabbene, vi lascio alla lettura e, come sempre, aspetto qualche commento.

Un altro caloroso grazie a sagitta72 che segue e commenta con passione questa storia, sei veramente carina! ^_^
E grazie anche a Eirien per la pazienza di aspettare quelle due righe che devono chiudere questa storia. Un saluto bimbaminkioso: ti lovvo, caVissima!


- Capitolo 4 -

You're missing when I shut out the lights
You're missing when I close my eyes
You're missing when I see the sun rise
You're missing…
(You're missing – Bruce Springsteen)

Milo, seduto su una poltrona di vimini, osservava da circa un quarto d’ora il quadro appeso sopra la testata del letto; solo una lampada sul comodino illuminava la stanza e la parete su cui era posto.
C’era una baita, sulla sinistra, del fumo che usciva dal camino; dietro la costruzione un boschetto di abeti. Sull’altro lato solo colline innevate, che si distinguevano una dall’altra solo perché il pittore aveva usato sfumature diverse. Il cielo all’orizzonte tendeva al violaceo, più chiaro dietro alla baita, poi andava scurendosi oltre le colline.
Il mondo di Camus. Il mondo di ognuno di loro. La ricerca di una casa calda, di una famiglia, della luce, ma un’anima persa in un deserto. Milo lo sapeva bene. Che fosse di sabbia o di ghiaccio, sempre deserto restava. Sperò che il suo amico, almeno un po’ di felicità, l’avesse provata.
Il cavaliere sospirò, adagiandosi contro la spalliera. Era stata una giornata terribile. Gli ultimi due giorni erano stati devastanti. Era stanco, come mai lo era stato in tutta la vita, eppure il suo cervello si opponeva al sonno, troppo impegnato con il tumulto dei pensieri e delle sensazioni. Nemmeno una lunghissima doccia calda gli era servita; forse era il caso di fare due passi.
Attraverso le finestre aperte entrava un lieve vento che sapeva d’estate: una stagione che splendeva, incurante del dolore, della rabbia, della solitudine. Non era la stagione giusta per soffrire, o per piangere, ma in fondo, quale stagione lo è? Si chiuse la porta alle spalle.
Le stanze erano calde, quasi soffocanti; la pietra rilasciava ora il calore del sole e le finestre aperte non davano uno sbocco sufficiente. O forse sembrava a lui, che era attanagliato da un nodo alla gola che sembrava impossibile da sciogliere.
Milo scese le scale, attraversò il corridoio, fino alla sala da pranzo. Le finestre erano spalancate ed il vento muoveva le tende leggere. Il ragazzo accese la luce e si versò un po’ d’acqua da una brocca che stava sulla credenza, quindi chiuse l’interruttore ed andò sul balcone.

Elettra guardava la notte fuori dalla grande finestra, quando il vento scostava le tende. Alexi dormiva accoccolato contro di lei, in posizione fetale; la donna ogni tanto gli carezzava i capelli, tanto non riusciva a dormire.
La sacerdotessa avrebbe voluto trovare le parole, per dire a suo figlio quanto grande fosse il conforto che le dava; sperò che Alexandros lo capisse dai suoi occhi, dalle carezze, dai gesti. Voleva fare affidamento, una volta in più, a quell’istinto naturale che suo figlio possedeva nel capire le persone.
Se lei e Jean si fossero capiti di più, quanto diverse sarebbero potute essere le cose… Nel loro rapporto non era mancato l’amore, non era mancata la complicità o la tenerezza, ma la comprensione, purtroppo, era sempre stata una chimera. Quante volte si era rimproverata la sua testardaggine e l’orgoglio. E quelli di Jean. E i loro caratteri troppo forti, troppo simili. Adesso era tardi per tutto, per i rimpianti, le recriminazioni e per tutte le parole dette e ricevute… era finita, finita ormai… Stava per piangere di nuovo e non voleva farlo lì.
Elettra verificò che suo figlio dormisse. Il sonno di Alexi sembrava profondo, così decise di alzarsi, tanto non riusciva a chiudere occhio da due giorni. La sua camicia da notte frusciò contro le lenzuola, mentre lasciava silenziosamente il letto, ma il ragazzo non si mosse.

Lungo l’ampio corridoio vi erano alcune lampade accese, la loro bassa luce la guidò fino alle scale e oltre, fino in fondo alla rampa; quando si trovò davanti all’arco che conduceva alla piscina, si accorse che c’era luce oltre l’altra entrata, vicino alla sala da pranzo. Incuriosita si affacciò, scrutando l’oscurità, e si sentì gelare…
Una figura elegante era ferma presso il bordo della piscina, s’intravedeva appena; un uomo alto, il fisico scolpito e i capelli lunghi. Sembrava… sembrava lui…
Milo sobbalzò, quando le luci della piscina si accesero all’improvviso; si voltò verso l’arco d’entrata, mentre il riverbero azzurro gl’illuminava il viso. In mano aveva un grappolo d’uva. Spalancò gli occhi sorpreso, vedendo Elettra con ancora la mano sull’interruttore.
“Oh, siete voi…” Mormorò quindi.
“Hm… sì…” Rispose vaga lei, avvicinandosi. “Per un attimo…” Riprese poco dopo, facendosi coraggio. “…con i capelli lunghi e quei vestiti… sembravi Jean.”
Milo aprì appena la bocca, sorpreso, poi la richiuse, abbassando gli occhi. “Mi vanno un po’ lunghi, questi pantaloni…” Disse quindi, scotendo l’orlo del pigiama a quadretti che indossava insieme ad una maglietta blu.
Elettra, nel frattempo, si era fermata al suo fianco e fissava la superficie della piscina; l’acqua illuminata disegnava stani ghirigori su tutta la sua figura, ma gli occhi sembravano vuoti.
“Mi sembra normale.” Affermò quindi la donna. “Era un po’ più alto di te.”
Milo sorrise appena; Camus era sempre stato uno spilungone. Il discorso, però, gli sembrava infelice, dato quello che era successo; Elettra doveva essere rimasta agghiacciata nello scambiarlo per l’amico… Era meglio cambiare argomento.
“Vi devo ringraziare.” La donna si girò verso di lui, quando pronunciò questa frase.
“Per quale motivo?” L’interrogò quindi, con un sorriso.
“Immagino che siate stata voi ad occuparvi della tomba di Melissa.” Le spiegò Milo, prima di mangiare l’ultimo chicco d’uva.
Elettra lo fissò per un attimo, il suo profilo un po’ malinconico e le lunghe ciglia scure abbassate appena sugli occhi chiari, resi trasparenti del riflesso della luce sull’acqua.
“Non devi ringraziarmi per questo.” Rispose infine. “Le volevo bene, era un dovere per me.”
“Grazie lo stesso.” Dichiarò il cavaliere, alzando su di lei il suo sguardo di cristallo; Elettra fece un sorriso triste e chinò gli occhi sull’acqua.

Il silenzio era freddo e solido, come il pavimento ruvido sotto i piedi nudi di Milo, e azzurro, come il riverbero dell’acqua sulle piastrelle nel fondo della piscina. Azzurro, come gli occhi di Elettra, fissi sull’acqua.
Il cavaliere spostò lo sguardo, quando vide la liscia, elegante e grande mano della donna stringersi sulla stoffa morbida della sua camicia da notte. Un brivido gli aveva percorso la schiena funesto. Sentiva che lei stava per chiedergli qualcosa di pericoloso.
“Tu…” Esordì Elettra titubante, con voce flebile. “…tu lo hai visto, prima… Ci hai parlato?”
Qualcosa di terribilmente freddo e tagliente si avvolse al cuore di Milo, stringendolo in una morsa. Sapeva che, rimanendo lì, prima o poi quella domanda gli sarebbe stata posta. E sapeva dove quella domanda avrebbe condotto. Non voleva andare, eppure… una risposta la doveva.
“Ho visto Camus, quel mattino.” Accennò l’uomo, tormentando tra le dita quel che rimaneva del grappolo d’uva. “Era…” Annaspò in cerca delle parole. “…era come sempre, sarcastico e pieno di se.” Un amaro sorriso increspò le labbra della donna. “Sembrava non avere mai paure o dubbi.” Aggiunse il cavaliere, abbassando mestamente il capo.
“Che cosa ti disse?” Fece lei; la voce si propagava in modo strano, ovattato, in quello spazio vuoto che sapeva di cloro e umidità.
“Vorrei potervi riferire che mi parlò di come si sentiva, di quello che provava, o di voi, vorrei avere parole che possano colmare il vuoto di un saluto mancato…” Rispose Milo rammaricato, trattenendo un singhiozzo, mentre guardava gli occhi di Elettra farsi più grandi e lucidi. “…ma lui, lo sapete bene, non parlava di certe cose e non era fatto per i grandi discorsi.” Lei annuì. “Mi salutò, come se ci dovessimo rivedere di lì a poco e, infatti, lo rividi, più tardi.” Riferì infine.
Elettra si girò verso di lui con sguardo interrogativo. “Lo rivedesti dopo l’inizio della battaglia?” Milo annuì, cercando il coraggio per raccontare tutta la storia a chi aveva il diritto di conoscerla.
“Mi chiese il permesso per attraversare l’Ottava e scendere alla casa di Libra.” Affermò il ragazzo.
“Ma perché? Cosa doveva fare lì… io non capisco…” Replicò la donna, scuotendo il capo.
“Ce lo inviò il Gran Sacerdote.” Riferì Milo a capo chino. “Doveva fermare l’avanzata di Hyoga del Cigno, che era stato precipitato lì attraverso…”
“Il Cigno?” L’interruppe Elettra, stringendogli all’improvviso l’avambraccio; lui confermò annuendo. “Quindi ha combattuto contro l’allievo del suo discepolo…” Mormorò poi tra se.
Milo si sottrasse alla sua presa e fece qualche passo, dandole le spalle. Lei seguì quel movimento insospettita. L’atteggiamento del cavaliere non la convinceva, avvertiva chiaramente una stonatura nel suo cosmo. Un dolore. Una colpa. Qualcosa a proposito di Camus.
“Milo, che cosa c’è?” Gli domandò allora la donna. La sua voce era seria, intrisa di potere, abituata al comando. Una voce cui si deve rispondere, per forza.
“Io…” Esordì il ragazzo, ma lo slancio iniziale venne subito a mancare e scrollò il capo. “Dovete perdonarmi, Divina Elettra, io non vorrei…” Riprese poco dopo. “…non vorrei parlarne, non vorrei darvi questo peso, ma non posso… non ce la faccio a portarlo da solo, stavolta, devo parlarne con qualcuno o mi ucciderà!” Le sue parole erano rotte dalla disperazione.
Elettra era immobile. Fissava le ampie spalle del cavaliere senza riuscire a muovere un muscolo. Cos’era questa storia adesso? Non era sufficiente il dolore, dovevano esserci i misteri, i sensi di colpa, le rivelazioni? Desiderò che tutto scomparisse in un accecante bagliore bianco, che non esistesse più nulla, non la piscina, o la stanza, o il palazzo. O il mondo. Più nulla. Era devastata. Non aveva già sofferto abbastanza nella vita? Quando le sembrava che tutto potesse solo migliorare, ogni cosa era precipitata e c’erano state di nuovo la separazione, la morte, la perdita…
Respirò a fondo, socchiudendo gli occhi, poi li riaprì, rassegnata. Per l’ennesima volta aveva capito che era la sua natura, il suo destino, andare avanti e sopportare tutto. Come uno scoglio tra le onde. Guardò il giovane uomo davanti a se. Una persona che come lei aveva conosciuto il peggio della vita. Voleva sentire cosa aveva da dirle. Forse dopo sarebbero stati meglio entrambi.
“Parla.” Gli ordinò glaciale.
Milo sussultò e si voltò sorpreso, sgranando i suoi bellissimi occhi chiari. Una lacrima scese lungo il suo viso, ormai incontrollata.
“Parla!” L’incitò lei; il cavaliere fece un passo indietro, intimorito dal tono autoritario della sacerdotessa, poi chinò il capo.
“È colpa mia.” Sostenne infine Milo, lei lo guardò confusa, ma lui le negò gli occhi. “Camus, durante la battaglia alla Settima, rinchiuse Hyoga in una teca di ghiaccio, convinto che il ragazzo non fosse ancora pronto ad essere un eroe, un paladino di Atena e me lo disse, quando risalì alla casa di Acquarius.” Raccontò quindi, con tono triste. “Ma gli altri Cavalieri di Bronzo lo liberarono, grazie alle armi di Libra, così il Cigno fu in grado di combattere contro di me…” Elettra lo ascoltava parlare senza capire di cosa fosse colpevole, ma non lo interruppe. “Lo scontro è stato durissimo, per la prima volta, nella mia vita di guerriero, ho avuto paura, e poi… mi avrebbe sconfitto, lo sapevo, o sarebbe morto provandoci, ma la nostra battaglia non è mai finita.” Milo alzò gli occhi, incontrando lo sguardo interrogativo della donna. “Io… io l’ho salvato dalla puntura letale di Antares, l’ho lasciato andare e lui… lui ha ucciso Camus… è colpa mia se è morto.”
La sacerdotessa fissava il viso del cavaliere, ormai rigato dalle lacrime. I suoi occhi chiari erano arrossati e stanchi e avrebbe potuto giurare che lo fossero anche i propri. Non riusciva a togliere gli occhi da lui, mentre il suo cervello rimetteva faticosamente insieme i pezzi di quella giornata che aveva sconvolto la vita di tutti e due.
“Perché?” Riuscì finalmente a scandire la voce arrochita di Elettra; Milo sollevò lo sguardo, triste e rammaricato. “Perché lo hai salvato?”
Era l’unica domanda che avesse un senso, per lei. Le ragioni di Camus, solo lui avrebbe potuto spiegarle. I motivi che lo avevano spinto a combattere il suo allievo, a scontrarsi con l’unico uomo che poteva sconfiggerlo, solo lui le conosceva. E il cavaliere di Acquarius non era più lì per rispondere. Ora solo le motivazioni di Milo lei poteva conoscere. E voleva sapere cosa lo aveva spinto a salvare quel cavaliere, quel ragazzo.
Lui scosse il capo, appena smarrito; chiaramente non si aspettava quella richiesta. “L’ho fatto…” Mormorò titubante. “Ma ha importanza il motivo? Non conta solo che Camus è morto per colpa mia?!” Esclamò poi, indignato, piangendo.
“Per me, ha importanza!” Replicò Elettra gridando e afferrandolo per il collo della maglia. “Per me ne ha!” Aggiunse scuotendolo.
Le labbra di Milo tremarono e socchiuse gli occhi, da cui scesero copiose lacrime. Sentì che stava cedendo e lasciò che le sue ginocchia si piegassero. Caddero entrambi a terra, piangendo. Lui con le mani abbandonate lungo i fianchi, lei reggendolo senza forza per la maglia.
“Per Atena l’ho fatto.” Sussurrò infine il cavaliere, rivolto a Elettra, che lo aveva lasciato e ora gli dava quasi le spalle. “Era con lui, dietro di lui, nel suo cosmo, nei suoi colpi, con lui… e chi sono io per mettermi contro Atena? Io devo servirla, io sono un Cavaliere d’Oro, i miei dubbi sono spariti, ho capito che loro, gli invasori, non erano tali, che Lei era con loro e io… io non avevo il diritto di fermarli… ma questo non sminuisce la mia colpa…”
“Smettila!” Gridò la donna, colpendolo con uno schiaffo senza vigore, per poi cadere seduta sulle proprie gambe. “Smettila…” Lo supplicò poi.
“È colpa mia, mia, mia!” Infierì imperterrito lui, piangendo sempre più disperatamente.
Elettra si risollevò sulle ginocchia e gli prese il viso tra le mani. “Guardami, adesso.” Gli ordinò quasi brutale, obbligandolo a farlo. “Smettila, non è colpa tua.” Gli disse poi; Milo scuoteva la testa. “NON è COLPA TUA!” Gli urlò in faccia. “Lo hai fatto per la giustizia, per Atena! Per Atena…” Aggiunse abbassando progressivamente la voce, poi gli abbracciò la testa. “Per Atena…”
“Era il mio migliore amico…” Singhiozzò il cavaliere, ormai seduto scompostamente a terra, con lei che lo cullava come una madre. “Gli volevo bene…e… non sono mai riuscito a dirglielo…”
“Sono sicura che lui lo sapeva…” Sussurrò Elettra tra i suoi capelli. “Spero sapesse che lo amavamo.”  
Rimasero così per qualche minuto, piangendo in silenzio, ognuno per il proprio dolore, quasi sostenendosi per non cadere. Elettra, infine, si staccò da lui e gli prese nuovamente il volto tra le mani.
“Milo, ascoltami.” Gli disse, triste, asciugandogli delicatamente le lacrime con le mani. “Camus ha fatto le sue scelte, lui soltanto ha deciso di combattere, di affrontare Hyoga.” Affermò poi, dura. “Tu hai fatto l’unica cosa possibile, hai visto la verità e non potevi uccidere quel ragazzo sapendo che Atena lo guidava. Hai fatto ciò che era giusto.” Continuò la donna. “Pensa a cosa sarebbe successo se tu non avessi capito, non alle scelte che qualcun altro ha fatto autonomamente.”
“Ma come fate ad essere così lucida? Io… io non ci riesco…” Mormorò il cavaliere.
“Non so come faccio.” Ammise Elettra sconsolata. “Forse, purtroppo, ho solo imparato a conoscere il dolore, oppure sono solo fatta così e non posso farci nulla.” Quest’ultima affermazione strappò un sorriso amaro a Milo.
“Probabilmente avete ragione.” Si ritrovò, quindi, ad affermare, scrollando il capo. “Ma…”
“Ci sono già troppe persone, in questa storia, che si sono prese colpe e responsabilità non proprie, Milo.” L’interruppe lei. “Tu non hai bisogno anche di questo.”
Il cavaliere la fissò sorpreso. Sapeva a cosa Elettra si riferiva. Il suo senso di colpa per la morte di Melissa, un peso che lui portava con se da cinque anni. E ora, che gli sembrava di riuscire finalmente a superarlo, ci aggiungeva il rimorso per la scomparsa di Camus.
“Io…” Soffiò il ragazzo.
“No, basta adesso.” Gl’impose la donna, poi si alzò e gli porse la mano, perché facesse lo stesso.
Lui sospirò e si arrese. Ciò non significava che avesse improvvisamente cambiato idea o che si fosse convinto delle ragioni della sacerdotessa. Ma era stanco e questa notte stava diventando troppo lunga. Afferrò la mano di Elettra e si tirò in piedi.
“Pensa ai bei ricordi, è l’unica cura.” Gli suggerì la donna, con un lieve sorriso.
“Ci proverò, ma… è presto.” Replicò Milo.
“Me ne rendo conto.” Soggiunse lei. “Forse, adesso, dovremmo dormire un po’.” Il cavaliere annuì.
“Vi accompagno.” Si offrì poi, quindi s’incamminarono verso le scale.
Sì, forse Milo non avrebbe dovuto incolparsi così per quello che era successo, forse stava esagerando a causa del dolore così fresco. Giuro, però, a se stesso che avrebbe fatto di tutto per aiutare Elettra e suo figlio, se questo significava redimersi dalla colpa che sentiva. Era una promessa solenne che faceva al suo migliore amico, a suo fratello.

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