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Autore: yoshimoto    26/02/2013    0 recensioni
Sto scrivendo dalla pochezza dei miei diciannove anni, davanti allo schermo di un computer ormai troppo vecchio per subire ulteriori sfruttamenti – spero proprio che non mi abbandoni nel mezzo del racconto.
Divoro anche un bel pezzo di torta di mele, che tra parentesi ho rubato alla mia coinquilina Julie, ma lei non se n’è accorta né se ne accorgerà per il resto della sua esistenza: è in una dieta ferrea e continua a sfornare dolci a go go come se non ci fosse un domani. Ed il bello è che anch’io dovrei seguire il suo esempio, dieta o cucina che sia. Non sono brava in nessuna delle due cose, ad ogni modo.
Poco fa ho smesso di guardare per l’ottantesima volta “Home alone” e per l’allegria sono scoppiata a piangere – o forse questo è dovuto al fatto che mi senta una vecchiaccia e che la mia adolescenza mi sembri già così lontana?
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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 II.

 
 
 
Ho appena notato di vivere in una stanza troppo grande per i miei bisogni primari. Per un letto, una scrivania e un armadio-libreria una stanza grande quanto una sala da pranzo mi sembra esagerata. Certo, se avessi i soldi necessari per renderla vivibile in qualunque modo lo farei sicuramente: di certo non sto studiando architettura per niente!
Ciò che, però, manca è un frigo, anche uno di quelli mini. Non si sa mai, potrei avere fame nel mezzo della notte e la mia pigrizia mi permetterebbe di perire da sola al buio, per di più in una stanza mal arredata. Che fine indegna!
Ma comunque niente sarebbe peggio dei giorni che ho appena passato. Da un paio di settimane a questa parte mi sono chiusa nel mio mondo al profumo di lavanda e edifici antichi e non, cercando di muovermi il meno possibile dai luoghi conosciuti. Dopo l’incontro della sera alla festa meglio evitare di espormi troppo ai sentimenti altrui. E parlo così perché, ahimè, ho passato l’ultimo anno a rimpiangere un’amicizia-amore andata a finire male per l’idiozia del mio lui, del mio amato, del vero amore che se potessi ammazzerei con le mie stesse mani in questo momento. Solo che sto scrivendo e piuttosto preferirei raccontare qualcosa riguardo l’idiota sopra citato.
Avrete capito tutti di chi si tratta.
Quel riccio presuntuoso fumatore amante del rosso. E chi se no?
Il nostro R.P.F.A.d.R. (riccio presuntuoso amante del rosso) si presentò nella mia vita due anni fa, quasi a volerla stravolgere. Peccato che quel quasi debba essere eliminato: capovolse completamente la mia esistenza. Mi rese debole, stupida e, agli occhi delle mie amiche, innamorata. Io non mi sentivo nessuno dei tre aggettivi prima elencati: lo ammiravo come compagno di scuola, gli dovevo l’amore per la musica e per la lettura. Era un me al maschile.
E sì, parlo al passato per un motivo ben preciso: di punto in bianco, una sera delle tante che passavamo insieme – «Una delle tante? Ci hai passato un anno e mezzo intero insieme!» direbbe Claire – decise di darmi buca perché si sentiva poco bene.
Allora ero ingenua e gli volevo un gran bene e per di più due giorni prima ci eravamo baciati, ma pensavo che fosse un qualcosa in segno di amicizia – e ora, a diciannove anni, penso che quella che reputavo ingenuità fosse, in realtà, stupidaggine acuta.
Era palese che mi piacesse ma io stessa non mi capacitavo che qualcuno potesse vedermi come una potenziale fidanzata proprio perché ero amica di tutti, sorridevo indistintamente a chiunque e soprattutto non esponevo mai i miei sentimenti agli altri.
Il fattaccio avvenne a pochi giorni dalla sua partenza per l’università: un anno più grande della sottoscritta, aveva condiviso con me l’idea di iscriversi alla facoltà di architettura, rendendomi ancor più orgogliosa di lui.
 
 
Ma, ingenuità o meno, da allora mi chiusi come un riccio e non volli più frequentare la gente che solitamente usciva con noi quando non eravamo soli. Pensavo spesso al bacio che ci scambiammo. Ci penso troppo dal sabato di due settimane fa. In realtà non dovrei nemmeno farlo perché si trova in cima alla lista nera delle persone di cui non m’importa niente. E se pensiamo che il secondo posto è occupato da Culkin, be’, la situazione si fa grave.
 
 
Ho capito di essere innamorata di lui da quando, qualche giorno dopo la sua partenza per il trasferimento nella Londra caotica che lo avrebbe accompagnato nel mondo degli adulti, una ragazza mi chiese quando sarebbe tornato perché avrebbe voluto confessargli il suo amore.
Di certo, penso, ci fu solo che mi venne una voglia irrefrenabile di prendere a sprangate quella povera ragazza che, almeno allora, si trovava nella mia stessa situazione.
Ho capito di sentire la mancanza della sua voce quando, in uno dei cd che aveva registrato per il mio compleanno, sentii quelle note basse cantate con tanta emozione e devozione.
Ho capito di non poter conoscere persona migliore di lui da quando mi si catapultò addosso in un giorno soleggiato di un aprile troppo calmo per la vita scolastica urlando che lo Stato andava salvato dalle mani di qualcuno che avrebbe potuto distruggerlo.
Ho capito molte cose troppo tardi.
 
 
R.P.F.A.d.R. – non mi va di chiamarlo per nome – solitamente usava indossare jeans stretti al punto giusto, maglie alternative talmente colorate da dare nell’occhio e un paio di occhiali da sole neri stile Ray-Ban, usava trascinare dietro di sé uno zaino con tantissime spille di cantanti rock – la maggior parte appartenevano ai Rolling Stones o ai Pink Floyd – contenente cd di ogni genere e almeno un libro classico.
Camminava a passo svelto, preso dal ritmo della musica che canticchiava mentalmente, e mi prendeva per il braccio ogni mattina mentre uscivo da casa, trascinandomi fino a scuola blaterando di qualche cantante che non gli piaceva e che avrebbe dovuto studiare meglio per l’interrogazione di matematica della mattina. Probabilmente non ha mai capito che il mio cervello, in realtà, non collegava molto i suoi discorsi introspettivi, specie alle otto e trenta del mattino.
Voti ottimi a scuola, partecipava alle partite di calcio organizzate dal professore di educazione fisica, odiava in particolar modo i ragazzi pieni di muscoli – penso che fosse perché lui aveva un fisico magrolino e fosse pallido, al contrario di quei giganti abbronzatissimi.
Nonostante fosse contro la sua «etica morale», mi aveva confessato di volersi fare in modo violento la professoressa Nicholson, la tutor dei corsi sportivi pomeridiani, e mi chiese in ginocchio di non dirlo a nessuno. Ops.
 
 
Il giorno che lo conobbi mi sentivo talmente allegra che nemmeno le sue urla contro qualsiasi cosa mi resero suscettibile. Avevo preso un ottimo voto in scienze – materia che detestavo – e presto avrei cominciato col corso di disegno tanto amato.
Lui era davanti alla scuola a distribuire volantini coloratissimi e continuava ad essere evitato quasi come se avesse la lebbra.
 
 
«Firmi?» mi chiese quasi stanco. Probabilmente si stava arrendendo a poco a poco.
Essendo di animo buono e con un’indole gentile verso il prossimo annuii senza capire di che parlasse. Il suo viso si illuminò e i suoi ricci si mossero tanto velocemente da sembrare quasi una parrucca ballonzolante. Dallo zaino pieno di spille uscì un foglio su cui mi chiese semplicemente di scrivere il mio nome e, non appena ebbi finito di rallegrarlo, mi disse che mi era grato per quel piccolo gesto.
E il suo sorriso sincero è ancora impresso nel cervello quasi a rendermi la vita sentimentale ancora più infernale. Dopotutto è per colpa sua se i due ragazzi che ho frequentato in quel lasso di tempo in cui non c’è stato mi hanno lasciata perché «sei assente! Quando ti parlo sembri essere su un altro pianeta». Ma non era colpa mia se mi parlavano di cose opposte ai discorsi ai quali ero abituata!
La sorpresa più grande arrivò quando, il giorno dopo aver firmato quel foglietto color verde menta, una voce maschile mi richiamò nel corridoio mentre camminavo verso la sala di ricreazione. Mai mi sarei aspettata di ritrovarmi quel tizio accanto a parlarmi di quanto fosse stato sfigato perché era riuscito a far firmare solo quattro persone, tra cui lui e i suoi genitori.
Al che diedi voce ad un pensiero che mi balenò per un secondo nella mente: «Falsifica tutto. Inventa nomi. Sii furbo!»
Alzò la testa per guardarmi dritta negli occhi. Pensai che mi avesse presa per mazza, quando invece acchiappò penna e fogli e li firmò convulsivamente.
«Anthony Drake» «Vanessa Smith» «Che cognome potrei dare ad uno che si chiama Albert?» sussurrava mentre io ridevo di lui e le mie amiche mi guardavano maliziosamente da lontano.
Ma che ne sapevano loro, che ne potrebbero sapere tuttora?
Non ero innamorata di lui. Ora lo sono. E vorrei che fosse il contrario.


  
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