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Autore: ElegantTania103    26/02/2013    2 recensioni
Per Tasha si prospetta una calda, caldissima estate. Sua sorella Joelle aspetta un figlio, e tutti i riflettori sono puntati su di lei. Doppiamente visto che Joelle è una ragazza madre. Come se non bastasse Mary, la sua migliore amica, continua a soffiarli i ragazzi, per poi correre da lei a chiedergli mille volte scusa. urge mettere a punto una strategia, vale a dire trovare il ragazzo giusto dell'amica mangia-uomini. Nessun dubbio, Jack è proprio quello k ci vuole. Già, ma per chi delle due?
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico, Universitario
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Affrettandomi lungo il corridoio alla ricerca della camera 202 mi sentivo di nuovo a posto.
Cerniera lampo chiusa, camicia abbottonata,la treccia lunga e ben pettinata. Senza contare i calzini bianchi appena comprati  al negozietto della scuola, naturalmente fatti mettere in conto a mia madre, che insegnava lì. Ero pronta ad affrontare i bambini; mi piace lavorare con loro, così pieni di energia.
“Tu devi essere Natasha McFarlane”.
Un ragazzo alto e lentigginoso con i capelli chiari e le mani grandi come manopole da forno mi aspettava sulla porta dell’ufficio.
“Tasha per gli amici. Tu invece sei Harry Clein?”
“Proprio così. Entra, ti presento il resto della banda. Ehi, ragazzi, questa è Tasha, la responsabile per le attività sportive”.
La ragazza dagli occhi grandi come fanali che per poco non avevo atterrato con la mia bicicletta mi sorrise.
“Ciao, mi chiamo Anna”.
“Pamela” mi salutò una ragazzina più giovane, con il trucco pesante e qualche sotto di sole nei capelli.
“Leo” borbottò un ragazzo dagli occhi neri e sottili.
“Noi ci siamo già conosciuti” disse il ragazzo vicino a lui.
Tentai di fare la disinvolta. “Ciao, Jack”.
Stava sorridendo. Come sempre.
“Grande, ragazzi” disse Harry, come se a presentarci avessimo già compiuto chissà quale impresa. “Adesso diamoci da fare.
Cominciammo la riunione. Il Campo Raggio del Sole era una colonia estiva diurna per bambini dai 6 ai 9 anni, gratuita. Harry aveva già lavorato nel quartiere da cui provenivano dei bambini, così ci parlò di loro e dell’ambiente familiare dove erano cresciuti. Discutemmo i nostri obiettivi per le quattro settimane del campo e il sistema più efficace per realizzarli. I bambini sarebbero stati divisi secondo l’età in tre gruppi, la giornata in quattro periodi, due prima del pranzo e due dopo. Anna si sarebbe occupata della lettura, Jack della musica e dell’arte. Scoprii che si era appena trasferito a Baltimora, e che eravamo coetanei. Pamela aveva 15 anni, era la sorella di Harry e prestava servizio come volontaria. Io, naturalmente, mi sarei occupata delle attività sportive, mentre Leo avrebbe aiutato a perfezionare l’inglese ai dieci bambini di origine vietnamita.
Pochi minuti dopo la fine della riunione, un autobus giallo, un mostro fatto di gambe e braccia che si agitavano fra le grida e ululati vari, si affacciò da dietro la curva.
Ci volle del tempo perché i bambini si decidessero ad entrare in palestra. Una volta riunito il gruppo, consegnammo loro delle targhette con il nome, mentre Harry spiegava le regole del campo. Poi li portammo alla mensa, per la colazione. Io avevo una certa esperienza come baby sitter, con i bambini ci sapevo fare. Presi a piccole dosi, però: 58 erano un numero davvero impressionante.
Dopo mangiato, convocai il gruppetto dei più piccoli, e li portai a giocare a Ruba bandiera. Quando fu il mio turno con quelli di terza, vidi Harry arrivare con una grande scatola fra le mani. Era l’attrezzatura per tirare con l’arco: aiuto, doveva essere impazzito. Naturalmente le punte delle frecce erano coperte di tappini di gomma, ma chiunque abbia avuto a che fare con dei ragazzini di otto anni sa quanto siano pericolosamente creativi.
“Un paio di tipi e poi mettiamo via tutto” mi sussurrò all’orecchio Harry.
Nessuno riuscì a far centro, quel giorno, ma uno dei ragazzi, un tipetto sveglio dall’occhio di lince, prese in pieno uno scoiattolo. Che fuggì via terrorizzato. Io, invece, arrivai a colpire per ben due volte il bersaglio, fra l’ammirazione generale.
La mia straordinaria (si fa per dire) abilità nel tiro con l’arco dovette aver molto colpito i bambini. Quando tornai in sala riunioni alla fine del pomeriggio, trovai Anna e Jack seduti sul pavimento davanti ai disegni realizzati dai ragazzi di terza. Mi guardarono e sogghignarono all’unisono.
“E io che avevo paura che disegnassero le solite cose: aerei, fiori …” disse Jack. “Guardate qui! Un’amazzone dai capelli rossi armata di faretra. Grandioso!”
“Un buon lavoro” mi disse Harry, sfoderando un sorriso da rèclame di dentifricio.
“Già, già” risposi, ridendo. Avrei voluto uccidere Jack.
Scelsi la strada più lunga per tornare a casa, quel pomeriggio. Ai margini del campus c’era un boschetto di querce bagnato da un ruscello. Mi fermai sul ponte di legno che collegava le due sponde, a riflettere. O meglio, a pensare a Luke. Così quando lo vidi disteso sulle assi del ponte, per un attimo pensai che fosse morto! O che si trattasse di un incubo.
Mi spaventai. “Aiuto! Qualcuno mi aiuti!” balzai giù dalla bicicletta e corsi verso di lui
Luke scattò a sedere e si guardò in giro.
“Oh” dissi. “Scusa” cominciai a indietreggiare.
Si voltò verso di me e mi fissò con i suoi occhi da urlo.
“Io … io pensavo che tu fossi … ferito” spiegai.
Un sorriso dolce gli illuminò il viso. Si alzò, ed io rimasi a guardarlo, incantata.
“Ti conosco?” domandò. “Frequenti la scuola qui accanto? Sei una delle ragazze pon pon, vero?”
Io, che ho sempre sostenuto quanto sia stupido e deprimente per una ragazza fare il tifo per le squadre maschili, fui letteralmente sommersa dal piacere per il complimento appena ricevuto.
“No” replicai con un filo di voce. “Io … ecco … gioco a basket. E faccio hockey”.
“Ah”
“Ah” ripetei.
“Sono sicuro di averti già vista. Ti alleni al campus?”
“Si, cioè no, cioè lavoro alla colonia, con i bambini”
“Ah”.
Sembrava essere l’espressione più appropriata per la situazione.
“E tu, Luke?” ricordai troppo tardi che non si era ancora presentato. Ma forse lui non ci fece caso, oppure si aspettava che conoscessi il suo nome.
“Mi alleno con Ignazio. È un istruttore magnifico.”
“Oh, grande”.
“Come ti chiami?” domandò.
“Natasha, ma puoi chiamarmi Tasha. E tu?”
“Sono contento di averti incontrato Tasha. Non conosco nessuno qui” disse regalandomi un sorriso.
“Davvero? Il nostro ufficio è al centro studenti. Campo Raggio del Sole. Stanza 202”.
Sorrise ed annuì. “Spero di incontrarti ancora”.
“Oh, si” dissi risalendo in bicicletta.
“E spero che accada presto, molto presto” aggiunse.
Avevo il cuore a mille. Mandai a farsi friggere tutte le frasi sdolcinate che mi venivano in mente, e contai fino a dieci.
“Attento a quello che dici!” lo avvertii. “Stamattina mi sono gia –imbattuta- in due strani tipi e per poco non li ho stesi con la mia bici”.
Si mise a ridere, ed io ripartii. Avete presente il film  ET, quando i ragazzi pedalano nel cielo? Ebbene, mi sento più o meno così. Leggera, leggerissima. Sul punto di volare. Quando arrivai a casa trovai Joelle in cucina, alle prese con una montagna di carne macinata dalla quale, secondo lei, avrebbe ricavato gli hamburger per la nostra cena.
“Mmm” dissi entrando. “Che meraviglia!”
“Non c’è bisogno di fare dello spirito” rispose.
“Ma io ho fame sul serio!”
“Com’è andata?”
“Cosa”
Mia sorella mi lanciò un’occhiataccia perplessa.
“Come, cosa! Al campo no?”
“Oh, super”:
“Ha chiamato Mary”.
“E …”
“Ti verrà un colpo” mi disse. “Meglio che ti siedi”.
“Avanti, fuori il rospo”.
“Vuole incontrarti, in centro”.
“E allora?”
“Vuole regalarti qualcosa, come ricompensa per averti fregato il ragazzo ieri sera”.
“Cosa?”
“Sto scherzando” disse Joelle.
Non era affatto divertente.
“Sarà da Tanzini. Alle sei. Sai cosa stavo pensando?” disse comprendo gli hamburger con la plastica e infilando il piatto nel frigorifero. “Stavo pensando se Mary non ci abbia preso il vizio, a farsi sempre i ragazzi che piacciono a te!”
“Di che cavolo stai parlando, Joelle?”
Tirò fuori l’insalata e cominciò a tagliarla.
“Magari è lei stessa a suggerirti la scelta; tanto viene per seconda, no?”
“Ammettilo, Mary non ti è mai piaciuta”.
“Non è questo Tasha. Il punto è: perché piace a te ? Quella ti sta solo usando”.
“Non è vero” esclamai, rimpiangendo tutte le lettere strappacuore che le avevo scritto quando era stata lontana. “Mary è timida, e il resto è solo pura coincidenza.”
Prenditeli, prenditeli  tutti! Sono tutti tuoi Mary!” mi fece il verso mia sorella. “L’hai sognato questa notte, no? Non ti sembra di comportarti da sciocca?”
A questo punto perdetti la pazienza: “È una fortuna, per te è per Buddy, che io lo sia”. Buddy era il nome che avevo dato al futuro bambino di Joelle. “Già, è proprio una fortuna che io sia così stupida da rinunciare ai miei diritti”.
Questo mise fine alla conversazione. Mia sorella sapeva bene di cosa stessi parlando: non solo adesso aveva bisogno dello spazio che avevo occupato quando era andata all’università, ma aveva anche un gran bisogno di attingere al gruzzolo che era stato messo da parte per la mia educazione. Se vi pare poco!
“Immagino che tu voglia mangiare presto questa sera”, disse pallida come un morto.
“No. Cenerò fuori”
Salii di sopra, chiedendomi perché mai le nostre discussioni dovessero sempre finire in liti inutili e dolorose.
  
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