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Autore: ElegantTania103    25/02/2013    3 recensioni
Per Tasha si prospetta una calda, caldissima estate. Sua sorella Joelle aspetta un figlio, e tutti i riflettori sono puntati su di lei. Doppiamente visto che Joelle è una ragazza madre. Come se non bastasse Mary, la sua migliore amica, continua a soffiarli i ragazzi, per poi correre da lei a chiedergli mille volte scusa. urge mettere a punto una strategia, vale a dire trovare il ragazzo giusto dell'amica mangia-uomini. Nessun dubbio, Jack è proprio quello k ci vuole. Già, ma per chi delle due?
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico, Universitario
Capitoli:
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Il cartello sulla porta dell’Emporio TREPERDUE avvisava: << Vietato entrare in pantaloni e abbigliamento sportivo >>. Mi diedi un’occhiata: scarpe coi tacchi e con i lacci attorcigliati attorno alle caviglie come serpenti e un vestitino tutto arricciato e così rigido che avrebbe potuto mettersi a ballare da solo. Era la cosa più orrenda che avessi mai visto, e mi chiedevo perché diavolo lo stessi indossando e soprattutto cosa ci stessi facendo davanti all’Emporio TREPERDUE. Poi guardai i cartelli che annunciavano i saldi. << Compra uno e prendi due >>. Spinsi la porta ed entrai.
Gli scaffali erano pieni di tutti i tipi di ragazzi, proprio come fossero scatolette di fagioli o pomodori: ragazzi biondi o bruni, slanciati o tarchiati e tutti sorridenti come bambole.
“Grazie per avermi invitata” disse la mia amica Mary. Mi voltai a guardarla. Indossava un vestito sexy, corto e rosso, e spingeva un carrello.
“Come sempre” le dissi. Poi raggiunsi uno scaffale, presi un bel pezzo di ragazzo e me lo misi nel cestino. Più veloce di un lampo Mary lo tirò fuori dal mio cestino e se lo mise nel carrello.
Ne misi dentro un altro, lei lo sgraffignò e se lo lasciò scivolare nel suo carrello. Ne presi un terzo, e lei me lo portò via. Allora cominciai a correre tra gli scaffali afferrando ragazzi e sbattendoli nel cestino; avevo ancora l’orribile vestitino ma ai piedi avevo i miei pattini: ormai andavo così spedita che non riuscivo più neanche a guardargli in faccia. Ma più ero veloce e più il mio cestino continuava a svuotarsi, mentre il suo carrello si riempiva di ragazzi.
“Basta! Non lo sopporto più!” mi misi improvvisamente a gridare. “Prenditeli, prenditeli tutti! Sono tutti tuoi Mary!”
Lanciai in aria il cestino e i pattini e mi catapultai verso la porta, con Mary costantemente alle calcagna. E non aveva neanche pagato. Scattò l’allarme e il suono era talmente acuto da perforare i timpani. I miei, nella fattispecie. Senza aprire gli occhi sollevai la testa, premetti il bottone della sveglia, e mi sedetti sul bordo del letto. Ero a pezzi. Che incubo!
Immediatamente un’ondata di senso di colpa mi travolse. Incubo? Mary era la mia migliore amica.
“Quante volte è successo?” borbottò mia sorella.
Aprii un occhio a guardai lungo il canyon che divideva i nostri letti. Joelle aveva i capelli identici ai miei, rossi, ma esibiva un taglio che la faceva sembrare più giovane, troppo giovane per essere incinta. Sissignori, incinta: a casa dal primo anno di università e incinta. Io ho 17 anni, due meno di lei, ma ho più buonsenso di quanto ne avrà mai la mia sorellina a 47.
“Allora quante volte?”.
“Quattro.” Risposi.
“Quattro!”
Erano le otto, e la riunione era fissata per le otto e trenta. Mi misi a rovistare tra gli abiti puliti, alla disperata ricerca di qualcosa da mettermi; non era questo il modo in cui avrei voluto cominciasse il mio lavoro estivo al Campo Raggio del Sole.
“Non dimenticarti di chiudere la lampo” mi gridò dietro Joelle mentre correvo fuori dal bagno tirandomi su gli short. Ci ero rimasta il tempo necessario per vedere, in un attimo di sosta davanti allo specchio, che i miei occhi castani sembravano stagni torpidi, e che i miei capelli erano diventati elettrici per l’umidità. Mi misi il casco e mi precipitai fuori.
Mentre pedalavo verso il campus, sudando sotto il sole implacabile, nonostante l’ora, di quel 12 giugno, non riuscivo a togliermi dalla testa il sogno; e la realtà. L’ultima volta si era trattato di Tim e Mary, mentre al ballo studentesco erano Andrea e Mary, e alla festa di primavera erano Bob e Mary, e per il torneo di basket … insomma, era sempre la stessa storia, cambiavano solo i protagonisti maschili, alias i ragazzi. Ogni volta che uscivo con qualcuno, subito ci usciva anche lei.
Chi poteva dare loro torto? Mary è delicata, ha gli occhi grigi da cerbiatta ed è bionda come un angelo. Ha la risata squillante, le gambe lunghe e il collo sottile di una ballerina. La mia timida compagna di banco alla scuola elementare si era in qualche modo trasformata in uno splendido cigno mentre io, beh, ero rimasta quella di sempre: sottile come un’acciuga, con una massa di capelli rossi perennemente scomposti, modello scopettone.
Ero assorta in questo ed altri filosofici pensieri quando mi ritrovai a saltellare giù dagli scalini che portavano al centro studentesco. Naturalmente persi il controllo della bicicletta, e per poco non centrai in pieno una ragazza e un ragazzo armato di chitarra. Sfrecciai in mezzo a loro come un proiettile poi, rosa dal senso di colpa, tornai indietro a vedere se si erano fatti del male. Tranquilli, non li avevo uccisi. Semplicemente, mi rivolsero uno di quegli sguardi lividi che parlavano da soli. Della serie: <>.
“Scusatemi, mi dispiace moltissimo. Mi ero dimenticata l’ultima curva”.
“Perché non passi dal viale? Ci sono anche le scale mobili. Potrebbe essere divertente, non credi?” disse la ragazza. Era nera, con gli zigomi alti e gli occhi scuri, grandi come fanali: bellissima!
Il ragazzo, invece, mi fissava in un modo che non mi piaceva affatto, con quegli occhioni color blu tempesta e un mezzo sorrisetto stampato sulle labbra.
Abbassi lo sguardo sui miei pantaloncini: avevo dimenticato di tirare su la cerniera lampo.
“Sono in ritardo”, mi giustificai.
“Non me ne importa niente”, rispose.
Decisamente un uomo di poche parole.
Tagliai la corda il più rapidamente possibile (erano già le 8:35) per scoprire che la riunione era solo alle nove e mezza! Crollai esausta e affranta sul sedile della bicicletta.
Fortunatamente un meraviglioso profumo di uova al prosciutto proveniva dalla mensa, il che bastò a farmi ritrovare il buon umore nel giro di un paio di secondi. Entrai e mi misi in coda. Stavo giusto studiando il menù quando al mio orecchio giunse una voce che in un attimo mi fece dimenticare tutte le disavventure della mattina. Era una voce che mi era ben nota, fin dal corso di storia che avevo frequentato l’anno passato. Una voce che conoscevo dagli allenamenti con la squadra di basket femminile. Una voce che io e Mary, come un altro milione di ragazze, non avevano mancato di imprimere sul videoregistratore il giorno che lo avevano intervistato alla televisione. Era la voce di Luke Harvey, il fusto più fusto che ci fosse nel raggio di mille miglia.
Si diceva che si stesse allenando per le Olimpiadi, ma tutto quello che sapevo di lui era che, quando si faceva vedere al bar della scuola, i cuori delle ragazze ingranavano la quarta. Ma lui, imperturbabile, non usciva con nessuna. Era troppo preso dalla ginnastica per potersi dedicare  all’esercito di pupe adoranti che se lo mangiavano con gli occhi, pronte a scattare in attesa di un suo cenno.
“Hai già scelto?” mi chiese un ragazzo un coda dietro di me. Pensai di aver rallentato la fila.
“Certo”.
“E allora” disse, “ lasci prendere qualcosa anche a noi?”
Mi girai. Era il ragazzo con la chitarra. Sorrideva. Sorrideva sempre, il tipo.
“Mi stavo chiedendo” aggiunse, “se eri in ritardo per la colazione o per lui” e fece un cenno nella direzione di Luke.
“Ho una riunione” replicai irritata. “Pensavo che fosse alle otto e mezza, e invece è un’ora dopo”.
“Ma no!” disse, come se la cosa gli interessasse davvero.
“Ma sì!” lo scimmiottai. “Uova strapazzate, doppia salsiccia e patatine fritte”. Cercai di allontanarmi.
“Frittelle” ordinò, e poi si voltò ancora verso di me. “Andrai a sederti vicino a lui?”
“Affari miei! A te che te ne importa?” gli domandai.
“Niente” ammise. “Ma se fossi in te darei prima un’occhiata alla tua camicia. A meno che tu no l’abbia fatto apposta …”
Per una volta lo ascoltai. In effetti l’avevo abbottonata male, tanto che si intravedeva il reggiseno rosso che mi aveva prestato mia sorella. Avvampando, corsi ai ripari.
Mentre mi riaggiustavo la camicia, il ragazzo guardò dall’altra parte con fare discreto. Ridacchiando, come sempre.
Per fortuna Luke si era perso la patetica scena, preso com’era dalla montagna di cibo che troneggiava sul suo vassoio. Pare che qualche giorno prima si fosse lamentato perché alla mensa si rifiutavano di servire uova a basso contenuto di colesterolo. Balle, secondo me.
La gente in coda, intanto, cominciava a diventare impaziente.
“Immagino che prenda il suo corpo molto sul serio” disse il ragazzo dietro di me.
“Anche tu lo faresti, se lo avessi come il suo”.
“Forse” disse, e cominciò a frugarsi nelle tasche.
Lo imitai, due volte. Ma alla prima mi era già chiaro che ero completamente al verde.
“Prova a controllare nella calza” suggerì. “Quella rosa”
Non so perché lo ascoltai, ma in effetti aveva ragione lui: indossavo un calza bianca e una rosa. Di male in peggio!
“Pensi di avere il tempo, prima della riunione, di lavare i piatti un cucina?” domandò.
“Segneranno il debito” dissi, cercando di apparire tranquilla. In realtà ero tentata di farmi almeno le salsicce, prima che mi obbligassero a restituire tutto, causa mancato pagamento.
Quando arrivammo alla cassa, sorrisi alla ragazza e dissi: “Non ci crederai, ma …”
“Pago io per lei” disse il ragazzo dietro di me.
“Di coppie strane ne ho viste” osservò brusca la cassiera. “Ma voi le battete tutte”.
Presi il vassoio e mi diressi verso un tavolo a caso, chiedendomi cosa mai diavolo avesse voluto dire, la tipa. Intanto, il ragazzo mi stava alle calcagna.
“Vuoi sederti con me?” mi chiese.
“A questo punto, credo di non avere altra scelta”.
“Non sei obbligata” rispose risentito. “Il mio era solo un invito”. Si diresse verso un altro tavolo, e prese posto, dandomi le spalle.
Andai da lui. “Posso sedermi?” gli chiesi, scesa a più miti consigli.
Lui esitò. Poi annuì.
Quando mi fui accomodata, lui spinse verso di me il sale e il pepe. “Mi chiamo Jack”
“Tasha”  replicai.
Mi sorrise. I suoi occhi erano blu come i freddi mari del nord, mentre le ciglia erano lunghe, come i suoi capelli.
Mi concentrai sulle uova, ma non potei fare a meno di sbirciare Luke, che in quel momento ci stava passando accanto armato di vassoio. Jack seguì  il mio sguardo, poi mangiammo in silenzio per qualche minuto.
“Adori andare in giro con il casco?” chiese alla fine.
“Mi sono svegliata tardi e non ho fatto in tempo a legarmi i capelli. Quando il tempo è umido, diventano elettrici. Un vero schifo.”
“Sono rossi?”
Lo guardai sorpresa.
“Hai le sopracciglia rosse”.
“Castani con riflessi ramati” lo corressi. Non mi piaceva immaginarmi con i capelli color carota.
“Posso vedere?”
“Cosa”
“Posso vedere i tuoi capelli castani con riflessi ramati?”
“Hai già visto il reggiseno di mia sorella, la mia calza rosa e la cerniera lampo abbassata” esclamai. “Non ti basta?”
Improvvisamente scese il silenzio attorno a noi. Luke, che sedeva qualche tavolo più in là, si voltò a guardarci, poi tornò alla sua colazione. Jack stava ridacchiando tenendosi il viso tra le mani.
Ma quando mi slacciai il casco e me lo tolsi, smise di ridere. Rimase a guardarmi, come incantato. Ricambiai, tentando di domare quella specie di foresta che erano i miei capelli, quindi mi dedicai alle miei uova strapazzate. Non mi venne in mente niente di interessante da dire. Masticavo e intanto mi concentravo sulle spalle larghe e sulla schiena possente di Luke Harvey, chiedendomi perché mai fosse lì.
“Il tuo amico Sbattiuova” disse Jack, “si sta allenando con la squadra dei ginnasti? Ho sentito che sono i più forti della regione”.
“Cosa?” domandai. “Vorresti dire che Luke rimarrà qui per tutta l’estate?”
Tutta l’estate con me?Che pensiero stupendo! Luke ed io nello stesso campus, e Mary lontana, in tournèe con qualche compagnia di ballo. Ma più ci pensavo, più mi assaliva il senso di colpa.
“Stai arrossendo” osservò Jack.
Mi sfregai le guance.
Finimmo di mangiare in silenzio. E a me andava benissimo così. A proposito, la sapete una cosa?
Le vie del sogno sono infinite!
  
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