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Autore: Columbrina    27/02/2013    1 recensioni
Avvertimento OOC per sicurezza. Perdonare qualunque incongruenza con il personaggio.
 Quattro storie nello stesso destino, come non andrebbero mai raccontate.
 
 
Birth.
 Aerith Gainsborough, presto, sarebbe andata all’altare. Se lo promise, o meglio gliel’aveva promesso. Sarebbe stata la sposa più bella del mondo, con quegli occhi brillanti che avrebbero esaltato un colore così tenue come il bianco, al suo fianco solo gioia. Nessuna barricata poteva ferrare la certezza.
 
 
Life
 “Trascorri così il tempo quando non hai rogna in giro?”
 “O faccio questo o prendo a pugni qualche belloccio. La più allettante è sicuramente quest’ultima, ma non posso fare questa carognata al futuro marito della mia migliore amica”
 “Giusta osservazione. Comunque, non dovresti essere con Aerith?”
 “E tu non dovresti essere con Cloud?”
 
 
 Death
 “Tu cosa pensavi di fare, piuttosto. Volevi ucciderti? Perché? Pensavo ormai che fosse tutta acqua sotto i ponti. Mi sbagliavo? Certo, perché sono stata una stupida a credere di poterti dare una chance …”
 “Una passeggiata. Ecco cosa volevo fare”
 “No, un suicidio premeditato. Ecco cos’era.”
 
 
 
 Synthesis
 Questa è una fantasia ancora da scrivere.
 
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Tifa Lockheart, Zack Fair
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco, Contesto generale/vago
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#26. Some unholy war
 

 
La Vigilia soffiava fredda sul collo, con sbuffi che lasciavano l’amaro nel cuore; niente che il focolare domestico non potesse scaldare, mentre la mente trafugava pensieri che si perdevano in balocchi, cappe e ceppi scoppiettanti.
E Tifa ricordava ancora quella mattina, assaporando sul suo volto un sorriso amaro: non avrebbe mai dimenticato il volto madido di lacrime di Zack, che stringeva Aerith come se non fosse mai accaduto prima, come si assapora il primo calore primaverile, effimero e intenso. Ci pensava e rimuginava spesso, finendo per perdere la cognizione di un tempo in cui non si aspettava mai di ritrovare Cloud, che preparava la stanza della bambina con trasporto fremente.
Aerith e Zack erano venuti a fare visita più volte, insieme come i petali di un fiore, che si separano solo quando l’altro è costretto a lasciare il calore affettivo e quindi cadono insieme, per paura di perdersi tra le spire del vento.
E quelle stesse spire portavano consiglio e turbamenti.
Lo aveva letto sul volto di Aerith a pomeriggio inoltrato, quando l’imbrunirsi del crepuscolo lasciava ombre sul suo volto, ma non sulle sue coscienze che apparivano chiare e limpide; se n’era accorta anche perché stava sciacquando quel piatto meccanicamente da dieci minuti di orologio e non l’aveva ascoltata quando Tifa l’ha pregata di mettere le stoviglie appena lavate nella credenza per lasciar posto a quelle per la cena.
“Sì, direi che il piatto è abbastanza pulito …” sentenziò Tifa, sfaldando il silenzio e la complicità che era venuta a mancare da poche settimane a quella parte.
Aerith annuì con surreale inerzia, gli occhi apatici e le mani che continuavano a strofinare la superficie traslucida del piatto senza tregua.
“Un altro po’ e ci potrai pattinare là sopra …”
E tagliò la patina sempre più in profondità.
“Hai ragione, scusami” fece lei, con forzata vivacità, portando la mano tremante alla credenza, andando in confusione non appena il suo grido si perse in un tonfo cristallino, di tanti steli puntigliosi che si perdevano disordinati, come i fumi dopo l’esplosione di una miccia, come la fusione, un passaggio graduale che si ripeteva in più passaggi così veloci da mandarti in preda al panico.
Allora Aerith gettò lo strofinaccio, si scusò più volte con Tifa senza guardarla negli occhi, anche se lei aveva intuito una concitazione che deperiva la vitalità color smeraldo; lo poteva individuare nello scorrere convulsivo dei cocci tra le dita, come se stesse carezzando dei battiti di cuore, ed ebbe la sensazione che volesse assaggiare la carne e il sangue, senza sapere di cosa fosse fatto il dolore. Le venne da implorarle di non fare niente, ma lei continuava a racimolare il tutto per metterlo in chiaro e in sesto. E recitava preghiere senza senso, soffiava rantoli pesanti, che gravavano tra loro come guadi insormontabili, tristi presagi allo stato brado. Aerith in posizione embrionale, le ginocchia che sfioravano il mento, senza vita seppur attraversate da frementi formicolii, era un feto morto come quello che dimorava nel suo ventre buio.
Continuava a scusarsi.
“Scusa, scusa, scusa …” diceva, come se fosse un mantra “Sono un disastro …”
Aveva la voce madida di pesi e rotta.
Le dita che intrecciavano lascivamente il sangue e la carne, comportandosi come automi, senza intendere o volere.
Allora Tifa gettò lo strofinaccio in terra, si mise anche lei sulle ginocchia e raccattò i frammenti dalle sue mani con perizia, sorridendo mesta in modo da non stonare con la precaria emotività di Aerith, che aveva gli occhi intrisi di stupore.
“Perdonami ancora. Sono una stupida, so solo fare disastri” diceva ancora, per poi abbassare di nuovo lo sguardo per non mostrare i segni del deperimento.
“Aerith …”  mise i frammenti frastagliati in un involtino di carta, per poi lasciarli sul tavolo e stringere le mani dell’amica, ancora attraversati dai formicolii e tremendamente fragili come le ali di una farfalla “Tranquilla non è successo niente”
Senza darsi il tempo di sorriderle, singulti nuovi di pesi presero il sopravvento costringendola a dare libero arbitrio a tutte le sventure rimosse e accumulate durante gli ultimi mesi di trapasso insieme a Zack, che avevano abortito le loro insicurezze, lasciando che nuove si insinuassero come serpi in seno.
Tifa l’ascoltava piangere: piangeva, ma non lacrimava, proprio come se stesse prendendo sempre più coscienza della serpe che mordeva i seni e il ventre sempre più in profondità; aveva gli occhi iniettati di mestizia eterna. E non la biasimava.
“Aerith … Si tratta di nuovo di Zack?”
“Non si tratta di Zack, tranquilla. Penso che abbia imparato la lezione …” diceva, mentre le parole si insinuavano a fatica tra i singulti e la schiena, il volto prostrato a una realtà convessa “Ci abbiamo riprovato, capisci … Riprovato …”
Quel che aveva davanti agli occhi era una scena angustiante, per usare un eufemismo. Tifa non poteva credere che stesse andando tutto bene, perché la serpe di guerre profane ne aveva innestate tante e quindi vagavano come in un vespaio. Le strinse le mani e la intimò a sedersi su una sedia, accanto a lei; neanche il peso del ventre pasciuto poteva bilanciare quello che gravava su Aerith in quel momento e le venne anche a lei da lacrimare quando fu l’amica ad aiutarla per rialzarsi da terra, gli occhi più belli che mai e le forze che si immolavano allo struggente strazio che faceva da corrente portante. Si sedettero, complici della stessa realtà convessa a cui era stava Aerith a immolarsi, ma anche consapevoli che i dolori non possono stare a lungo celati.
Tifa la lasciò piangere senza poter dire o fare nulla, perché era meglio così e infatti l’angustiante ritmo andante del pianto aveva lasciato il posto ad ansimanti singulti che somigliavano a convulsioni involontarie, come se non si desse scrupolo nel fermarle, ma leggeva sul suo volto la personificazione di un calvario frustrato.
Si presero nuovamente le mani, o meglio fu Aerith a farlo, ora che i singulti si erano affievoliti e il volto era rigato ai due lati da due linee salate, che incavavano le gote.
“Non posso vederti così” esordì Tifa, con perentorio tono di una madre che capisce già qual è il dolore della figlia “Non posso accettare che io sia felice e tu no”
E ancora una volta aveva peccato di altruismo.
“La colpa non è tua, Tifa … Tu meriti di essere felice, non devi neanche pensare ciò che hai detto” replicò animatamente Aerith  “Sono io che ho qualcosa che non va, altrimenti adesso sarei già a pensare alla stanza da fargli … Ma non lo farò mai perché non posso”
La coscienza si perse tra le spire flebotomiche di nuovi singulti che furono illuminanti per portare Tifa su un piano di molto superiore alle sue cognizioni d’esperienza, perché non riusciva a comprendere a fondo lo strazio che doveva provare la sua amica, perché aveva un ventre buio, in cui avevano paura di dimorare. Piansero insieme per il tempo che seguì, una straziata dall’ingiustizia e l’altra dalla consapevolezza; purganti che si erano incontrate a metà strada finalmente, dopo aver vissuto tante angherie equivalenti e senza neanche comprendersi, sorridersi o compatirsi.
Il gioco era condotto da quella flebile spira di altruismo che spinse Tifa a un’azione che l’avrebbe costretta a immolarsi ripetutamente sugli altari della vergogna e avrebbe condannato tutti in quella storia, pur sapendo che ciò avrebbe portato una felicità redenta di cui avevano davvero bisogno. L’unica soluzione era tenere celato questo segreto alle indiscrezioni.
Perciò la invitò a guardarla e Aerith notò il sorriso indulgente di tolleranza sul suo volto; un luccichio balenava negli occhi di Tifa che nessuno aveva mai notato, tranne Cloud nei tempi in cui aveva preso coscienza di loro.
“Aerith, ti meriti la felicità. Voglio dartela”
“Tifa non dire così, non è vero, non è una tua responsabilità …”
“So che solo lui può renderti davvero felice. Le ferite si sono rimarginate solo perché c’è sempre stato lui accanto a te quando ce n’era bisogno e io lo capisco. Il mio non è un atto di compassione, perché stasera farò felice tre persone” sorrise, senza bisogno di rese incondizionate. Sorrise perfino allo stupore che deformava il viso di Aerith in una maschera di stucco.
“Non potrei mai farti una cosa del genere. Io sono guarita, lo giuro”
“Proprio per questo. E’ il mio regalo di Natale per te”  aggiunse “Solo che dopo me lo ridarai indietro”
“Tifa …”
“Deve essere in piazza, vicino al negozio. Aveva delle commissioni da fare. E se sei fortunata, lo troverai ancora lì. Avanti vai.”
Aerith, senza che il rancore portasse consiglio, si calò sul suo viso e le scoccò un bacio in piena gota, per poi stringerla dolcemente per le spalle, irrorandola un po’ con la calura delle sue lacrime felici. E si diresse piano alla porta, con una certa reticenza nella compostezza e sul volto, che lasciò andare solo quando fu punta dei refoli gelidi della bora natalizia, che la spingevano a dar sfogo a tutte le gioie inattese, i rantoli repressi e il gusto di una felicità amara che sapeva di un nuovo sorriso.
La città si stagliava ritta e imponente dinanzi ai suoi occhi, specchio soffuso di quelle luci intime che si intrecciavano in spire esorbitanti, creando dei giochi illusori. La neve, intanto, iniziava ad adagiarsi lascivamente sulla carne e sulla terra battuta; cadendo a piccoli fiocchi, che non intralciavano in nessun modo la sua felicità forsennata.
Correva più forte che poteva, voleva svuotare i refoli d’aria nel suo corpo, all’altezza di un cuore che traduceva la sua felicità in battiti rapidi e gravosi, bussando al petto come se avesse impazienza di uscire e farsi sentire; saliva in gola e poi tornava giù, più carico di prima.
I suoi occhi gridavano il suo nome, senza che gli altri le dessero credito, perché non era lì dov’era ora.
Allora andò controcorrente alla fiumana di passanti che si riversava sui marciapiedi come un torrente in piena, nuotando a pieni polmoni e aprendosi goffi varchi oltre gli spiragli di luci soffuse; la testa non aveva rancori e tantomeno il cuore. Per una volta si trovavano d’accordo.
E intanto continuava a chiamare il suo nome a perdifiato, ma non con la bocca, a gridare erano i battiti del cuore che trafugavano anche loro spiragli per farsi sentire.
Era arrivata in piazzetta; la neve aveva preso a cedere altre lacrime di fiocchi, che arrossarono il suo viso e le fermarono il cuore, che monopolizzava la mente. Aveva fame e solo il gelo della neve sapeva saziarla, anche misto a dei baci di felicità.
Si guardò intorno, per scorgere la felicità. E intanto sentiva che stava pensando a lei.
“Deve essere qui …”
Lo sentiva forte e chiaro e voleva gridarlo. “Ti sto cercando. Voglio incontrarti”
“Anch’io”
Incespicò timorosa, facendosi spazio in modo da creare dei diversivi, perché non sapeva dove cercare, cosa fare per monopolizzare la coscienza, cosa fare per saziarsi ora che la neve non bastava più.
Fu solo quando si arresero alla guerra stanca, che riuscirono finalmente a vedersi nudi e crudi, a incontrare i veri loro. Aerith era seduta sul ciglio della fontana in piazza, guardando le misteriose figure andare avanti e indietro senza meta; Cloud invece era stato guidato dal filo di un aquilone sospeso che l’aveva portato a riconoscere la mestizia in quegli occhi chiari, che erano così perché le emozioni ne avevano prosciugato il colore del mistero, a differenza di quelli di Tifa.
Un refolo si alzò per tracciare una distanza che colmarono a passi piccoli e fugaci, trafugando ogni straziante attesa.
Cloud aveva un soprabito scuro, Aerith aveva la mantella rossa e il suo fiocco tra i capelli. Lei aveva anche gli occhi e il viso arrossati.
“So tutto” esordì lui, senza guardarla “Non so se si possa fare”
Aerith sorrise lieta, la punta del naso fredda e le gote di un rosso vivido da far sembrare quasi che si vergognasse.
“Non mi importa. Quel che mi ha detto Tifa mi ha fatto felice. Questo è quello che conta”
“Mi fa piacere” fece lui, senza nasconderle un sorriso di buon auspicio “Buon Natale, Aerith”
“Buon Natale, Cloud”
La neve cadde anche sui loro sospirati silenzi, finendo per cedere il monopolio dei sensi a una nuova, rinnovata coscienza che si insinuò velocemente senza bisogno di guardarsi indietro per sconfiggersi di nuovo. E Cloud lo capì quando prese Aerith per la vita e la portò tanto vicina da poterla respirare, costringendola a poggiare la bocca sulla sua, respirandosi in uno scambio di baci repressi che venivano finalmente alla luce morente di ogni nuovo spiraglio, che si insinuava sempre più sottile, quanta foga c’era, e pian piano il tutto divenne un sublime intreccio di sapori salati, neve e grandine insieme, il calore di un corpo asciutto e i postumi della malattia e della guarigione.
Le mani erano gli amanti, le dita si abbracciavano e poi si scioglievano, perché Aerith si fece coraggio e cinse il collo nudo di Cloud, con lo stesso trasporto in cui i loro baci e i loro corpi si abbandonarono l’uno all’altro, nella piazza della città, in cui si stava consumando tutto troppo in fretta.
Era come baciare la felicità, la stessa storia di sempre, solo che sarebbero dovuti tornare indietro per capire a pieno che non sarebbero mai stati schiavi della malattia, ma solo complici di un sistema che loro identificavano in quel gesto tanto atteso e che non si sarebbe mai più ripetuto.
Cloud la baciava, arrossiva e piangeva e si rendeva conto che la guerra era più inutile adesso che prima.
Aerith continuava, assaporando fugaci respiri e trovandovi sempre più conforto e se avesse aperto gli occhi avrebbe visto la felicità pendere dalle ciglia.
 

 
 
 
Synthesis
 
#Some unholy war: Partiamo da una tematica che mi sta molto a cuore ed è trattata con i guanti bianchi, un po’ logori e sudici di totale inesperienza formale a dire il vero, sebbene abbia ripercussioni che possono apparire forzate e bigotte, considerando anche il fatto che abitiamo in un paese in cui si scodella l’ipocrisia come fosse cibo per gli affamati quali siamo.
Il bello è che non siamo affamati di pane…
C’è una stolta inedia in giro che ci impedisce di guardare in avanti, se prima non saziamo la nostra fame. Non è una fame di stomaco, ma di bocca, orecchie, occhi, naso, giustizia, anima…
E io sto divagando.
 
Ad ogni modo, quest’apparenza bigotta è intrisa di un realismo che si rifà a delle memorie che conservo gelosamente nei cassetti della mia impudenza, anche perché non dovrei fingere cinismo per spiegare la Clerith revenge che, dopo un po’, torna a farsi sentire nei suoi toni più vividi.
Sappiate solo che questa Aerith paranoica, accusatrice di se stessa e – quasi – bramosa di dolore, lesionista è solo una rielaborazione ampollosa di una donna che soffriva di un altro tipo di inedia, stavolta si sentiva anche nello stomaco; è una sorta di Rosemary Woodhouse in chiave moderna.
 
Il capitolo può dirsi una sorta di mescolanza malriuscita di Rosemary’s Baby e Mistletoe (non la canzone).
 
Tifa si dimostra il perno della situazione, colei che prende le redini in mano e sopporta le conseguenze che sortiscono dal suo gesto inatteso. Sembra quasi che consegni ad Aerith le chiavi per il cuore di Cloud o, meglio, per attraversare quel sentiero a cui era arrivata così tante volte, ma si era sempre trovata in un vicolo cieco. E’ una samaritana di Natale, anche se così sugella una sorta di compromesso libertino: se ha lasciato che il bacio si consumasse senza carneficine e scazzottate varie, non si sentirà in colpa se i fragili ormoni della gravidanza la portano tra le braccia di un certo ripiego bruno.
Scherzi a parte, credo si sia tutelata, in un certo senso: dopo quella serata passata a parlare e cantare di Mr Jones, credo che qualcosa sia scattato in lei. Non dico che voglia esplorare i confini più intimi, quanto piuttosto proteggersi dai sensi di colpa: in questo momento, è nella fase più vulnerabile.
 
Cloud ed Aerith sono guariti.
L’esitazione iniziale è solo un pretesto per capire quanto sono vicini: sono disposti a scendere a patti con le parole, ma con i fatti devono essere meno indulgenti.
Già una volta si sono tentati e ne sono usciti illesi.
 
A proposito, per la scena del bacio mi sono ispirata a una bellissima fanart che ho trovato in rete, ma che non riesco a trovare… Magari la posto nel prossimo capitolo perché è davvero molto bella.
E’ una perla anche per coloro che non supportano Cloud ed Aerith, perché è un capolavoro di grafica, colore e disegno.
 
Ringraziamenti vivissimi a Manila, che assaporerà la sua personale portata Darlene molto presto. Intanto ricambio il favore di quel bellissimo frammento Clerith con questo gesto simbolico, questo bacio che ti farà torcere le budella, inizialmente… Perché so quanto sei permissiva su questi accoppiamenti orgiastici!
 
S.
 
   
 
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