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Autore: LilithJow    28/02/2013    3 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 9
"Phobia"


La paura è una delle principali emozioni umane, sebbene sia in comune anche con molti animali. Sulla carta, è una forte emozione, derivante da un pericolo, reale o presupposto, ed è dominata, principalmente, dall'istinto di sopravvivenza.
A volte, però, la paura tramuta in qualcosa di più grande, di più complesso e prende il nome di fobia. Questa è una paura più intensa, più persistente, più duratura e più difficile da scacciare.

Nei tre giorni che seguirono la scoperta della natura di Johanna e quindi dell'esistenza dei Divoratori di Anime e di altre strane creature, io divenni, a poco a poco, ossessionato dalle fobie.
Temevo praticamente tutto. Ogni persona che incrociavo camminando per strada, ogni rumore fuori dalla norma, persino i cambiamenti climatici, mi atterrivano. Ero sempre all'erta, con il panico addosso e la sensazione che qualcosa di brutto avrebbe potuto accadere da un momento all'altro. Tremavo per la maggior parte del tempo ed evitai di uscire di casa se non strettamente necessario. Fosse stato per me, avrei aggirato persino l'andare a scuola, ma così facendo, avrei impensierito mia madre, che avrebbe cominciato a pormi mille domande e avrebbe solamente incrementato la mia ansia.
Evitai anche – e soprattutto - Johanna, senza sosta, anche se i miei modi di farlo furono sempre più palesi e poco efficaci. Finimmo persino per guardarci per esattamente ventidue secondi, fermi nel corridoio a pochi metri l'uno dall'altro, mentre la gente attorno correva per non arrivare in ritardo a lezione; dopo di che, io corsi via, trovando rifugio nel bagno, lasciando lei lì, immobile, senza dare spiegazioni.

Improvvisamente, non riuscivo nemmeno a sopportare il solo starle vicino. Era più forte di me, come se in lei si concentrassero tutte le mie fobie.

Tuttavia, non per mia estrema fortuna, non riuscii ad eludere Johanna per troppo tempo. Il quarto giorno, di fatti, lei riuscì a fermarmi nel cortile della scuola, all'uscita.
Mi sentii prendere per un braccio e sobbalzai. Molto probabilmente ebbi un infarto in quel momento, considerando quanto forte il mio cuore cominciò a battere.

«Mi stai evitando» esclamò, strattonandomi appena. Mi liberai della sua presa allo stesso modo e feci un passo indietro, barcollando. I tremori, che ormai erano diventati miei compagni abituali, si fecero più forti in quell'istante, e iniziai anche a sudare freddo.

«Sì! Sì, lo sto facendo!» quasi urlai.

«Perché? Non è cambiato niente, Simon, sono ancora io».

«No, no, no, non sei tu ed è questo il problema!». Iniziai persino a gesticolare, passandomi ripetutamente una mano davanti al viso. Lei continuò a fissarmi incredula - o perplessa o sconvolta - dal mio comportamento. Vedendomi da fuori, avrei avuto la stessa reazione: sembravo un pazzo senza controllo.

«Tu non sei tu! Sei... Sei una... Sei... Sei qualcosa fuori dalla norma e io... Io ho terribilmente paura di te e... E... E di tutto il resto e... E credo che tra un po' impazzirò, andrò totalmente fuori di testa perché non posso nemmeno parlarne con qualcuno, non posso... Non posso fare niente, ho paura... Ho paura di tutto e... E non riesco nemmeno a respirare delle volte, non riesco a dormire, non riesco a pensare a qualcosa di diverso che non sia il pericolo costante che mi circonda e... E vorrei che tutto smettesse, ma non lo fa. Non lo fa, anzi, tutto si amplifica e... E...».

Le parole mi morirono in gola, sotto lo sguardo di Johanna che si era fatto vuoto e cupo. Io avevo il fiatone, quasi avessi corso per chilometri, senza bere un sorso d'acqua.

«Okay» mormorò lei, e il suo tono di voce risultò quasi meccanico, inconsistente. «Ti sei... Spiegato benissimo, per cui... Ti lascerò in pace».

La fissai per qualche secondo, cercando di tornare a respirare regolarmente, per quanto fosse difficile per me in un momento del genere. Johanna mi rivolse gli occhi stanchi; scosse appena la testa e si allontanò, verso la strada, sparendo ben presto all'orizzonte.
A quel punto, le mie gambe cedettero, letteralmente. Mi ritrovai inginocchiato a terra, con le lacrime agli occhi, più perso che mai. Le mie fobie mi avevano ormai divorato, del tutto, e avevo perso ogni cognizione un minimo logica del mondo che mi circondava.

Purtroppo per me, il peggio doveva ancora arrivare, perché quando le proprie fobie si tramutano in realtà, beh... Quella diviene una situazione estremamente critica.

Passò un'altra giornata, dove fui costretto a trascinarmi a scuola, causa forze maggiori. Johanna non c'era, non la incontrai da nessuna parte. Le lezioni passarono lente, estremamente lente. Inutile dire che non ascoltai nemmeno una parola di ciò che i professori dissero. L'unica cosa che mi restò impressa fu che si sarebbe tenuta una cerimonia in onore di Jason, quella sera, e tutti gli studenti erano obbligati a partecipare.

Non potei sottrarmi, dunque; nemmeno fingermi malato funzionò con mia madre, che si offrì persino di accompagnarmi all'Istituto e mi promise di tornare a prendermi qualche ora dopo, al termine della sua ennesima cena di lavoro. Tuttavia, proprio a causa degli eccessivamente lunghi preparativi proprio per quest'ultima occasione, ci ritrovammo a uscire di casa con venti minuti di ritardo e il traffico di Chicago di certo non agevolò l'impresa di raggiungere la scuola in tempi brevi. Probabilmente, andandoci a piedi, avrei impiegato meno tempo.
Non che mi interessasse molto arrivare in orario alla cerimonia commemorativa di Jason, anzi; trovavo abbastanza ipocrita il fatto che tutti, adesso, lo definissero “un bravo ragazzo”. Insomma, era noto quanto fosse un vero coglione; a me dispiaceva per lui, ovviamente, ma non gli avrei mai attribuito tale appellativo, nemmeno sotto tortura.

Quando arrivai all'Istituto, mia madre mi cacciò – letteralmente – fuori dall'auto e per un attimo temetti che ripartisse senza permettermi di chiudere la portiera prima. Mi fece sorridere quella sua fretta isterica, sebbene io non fossi esattamente nelle condizioni per ridere dell'isterismo altrui.
Il cortile esterno dell'edificio era vuoto, per ovvi motivi: la cerimonia doveva essere iniziata già da parecchio; mezz'ora, secondo i miei calcoli. Misi le mani nelle tasche dei pantaloni dei jeans neri che indossavo e mi addentrai all'interno della scuola. Incredibile quanto paresse estremamente diversa rispetto al giorno e, soprattutto, rispetto al ballo di giorni prima. Forse, il fatto di camminare solo tra quei corridoi poco illuminati dava una percezione diversa di tutto l'ambiente.
Dovevo raggiungere il cortile interno, quello in cui di solito – per sentito dire – si tenevano le riunioni del Comitato Studenti, il che voleva dire tutto e niente. Io, lì, non c'ero mai stato. Forse, entro il quinto anno, sarei riuscito a visitare ogni angolo di quell'enorme costruzione. Oppure no, avevo ancora i miei dubbi.

Mi guardavo distrattamente attorno, mentre seguivo l'eco della voce del preside, cercando di modulare le varie frequenze, in modo da potermi orientare grazie alle variazioni di volume, quando sentii una voce chiamarmi.

«Ehi, tu!». Apparteneva ad un ragazzo. Mi girai e vidi un biondo, alto, vestito di nero, accennare una corsa per venirmi incontro. Mi fermai, scuotendo appena la testa: forse era uno degli studenti della Hills High, anche se non l'avevo mai visto prima; ma, del resto, non potevo conoscere tutti lì dentro.

«Sto cercando di raggiungere la cerimonia, ma credo di essermi perso. Questo posto è un labirinto» disse, poco dopo, abbozzando una risata.

«Già, non me ne parlare» replicai, forse un po' in ritardo rispetto al normale. Lui allargò il sorriso, in un modo che mi parve terribilmente inquietante, ma ciò avrebbe potuto esser dovuto alle mie persistenti paure su ogni cosa e su chiunque. Compiendo quel gesto, i suoi occhi si ridussero a due fessure e lo vidi inclinare appena la testa di lato. «Io sono Sebastian» disse, poi «Sebastian Sanders». Mi tese una mano in cenno di saluto.

«Simon» sussurrai «Simon Clarke». Stavo per dare inizio a quella conoscenza, partendo dalla presentazione; però, prima che potessi sfiorare il suo palmo ancora aperto, qualcosa catturò la mia attenzione.
I suoi occhi azzurri non erano più socchiusi, anzi: erano ben aperti. Mi fissavano e, nel farlo, notai le stesse ombre rosse che caratterizzavano gli iridi di Johanna.
D'istinto, feci un passo indietro, lentamente. Non sapevo se lui fosse come Johanna, ossia relativamente innocuo, oppure fosse uno di quelli che uccidevano. In quel momento, fui più orientato verso la seconda ipotesi.

Deglutii rumorosamente e continuai a indietreggiare. «Dovrei... Dovrei andare» biascicai.

«Oh, possiamo andare insieme. Almeno non ci perdiamo».

«No, è che... Non partecipo alla cerimonia, per cui io...».

«Davvero? E' obbligatoria».

«Lo so, ma... C'è mia madre che... Mi aspetta, fuori».

Sebastian sorrise, ironico e sarcastico, e allargò le braccia. «Peccato» esclamò «volevo davvero diventassimo amici e questo poteva essere un buon inizio, ma...».

Senza che potessi minimamente rendermene contro, lui scattò in avanti. Mi afferrò per il collo, stringendo forte la presa e la mia schiena sbatté con violenza contro il muro ricoperto da piastrelle tinta panna, sicuramente rompendone alcune.

«Ma a quanto pare dovrò fare a meno di donarti il piacere della mia conoscenza».

Facevo fatica a respirare. Le sue dita premevano prepotenti sulla mia gola e i miei piedi non toccarono più terra. Ogni mio tentativo di liberarmi fallì miseramente. Non riuscii nemmeno a urlare, per chiamare a aiuto.
Riuscii a scorgere la mano di Sebastian non impegnata a strangolarmi, scivolare sul mio petto. Si fermò all'esatto centro, all'altezza del cuore. Non mi ero affatto sbagliato sul suo conto, non mi ero confuso sulle ombre rosse: era anche lui un divoratore di anime.
Percepii le sue unghie perforare la mia pelle, proprio come era successo con Johanna in piscina, qualche settimana prima, solo che quel dolore non fu affatto piacevole, tutt'altro: fu orribile. Più lui premeva, più il male aumentava e le mie urla venivano soffocate dalla sua presa possente al collo.
Improvvisamente, tuttavia, ogni cosa cessò. Mi ritrovai seduto a terra, sul pavimento, con la schiena ancora appiccicata al muro. Avevo la vista offuscata e i suoni che udivo erano ovattati.
Scorsi solamente due figure poco lontane da me, scagliarsi l'una contro l'altra. Urlavano, o meglio, ringhiavano, producendo rumori sordi, appena sopportabili stridii, che mi costrinsero a tapparmi le orecchie, con mani tremanti.
Di nuovo senza preavviso, tutto tacque.
Strizzai gli occhi più volte, scacciando via le lacrime che fuoriuscirono lente e timide, senza il mio controllo. Portai una mano sul petto, all'altezza del cuore. Sanguinavo, ma non era nulla di particolarmente grave; non faceva nemmeno più male.

«Simon!». Riconobbi la voce di Johanna e, pochissimi istanti dopo, me la ritrovai davanti, piegata sulla gambe, con un'espressione terribilmente preoccupata stampata in viso. «Stai bene?».

Tremavo ancora, in realtà, e non riuscii a proferire parola. Riuscii solamente a scuotere appena la testa e così annuire, sebbene quella non fosse l'assoluta verità.
Stavo peggio di prima e tutto ciò mi sarebbe costato più che uno shock post-traumatico.
Lei allungò una mano nella mia direzione, con l'intenzione di sfiorarmi una guancia con le dita; di riflesso, mi scansai. Strisciai lungo la parete e mi rimisi, barcollando, in piedi.

«Non... Toccarmi» biascicai, stringendo la mia maglietta tra le dita. Johanna sospirò e si tirò su. Mi guardò per qualche attimo: i suoi occhi erano circondati dalle ombre rosse, tanto che mi parve che gli iridi avessero del tutto cambiato colore. «Ti ho appena salvato la vita» esclamò «Non credi sia un controsenso che ti faccia del male?».

Aveva ragione, ovviamente, solo che il mio inconscio mi portava a sollevare spesse barriere nei confronti di qualunque cosa e di chiunque.
Scossi violentemente la testa e allontanai la mano dal petto. Era imbrattata di sangue e ciò non fece altro che gettarmi ulteriormente nel panico, più di quanto non lo avesse fatto poco prima, quando mi ero accorto di essere ferito in tal modo.

«Ho bisogno di andare a casa» mormorai, fissandomi le dita tremanti.

«Ti accompagno» suggerì subito lei.

«No» replicai e, stranamente, risi. Ovviamente, fu una risata isterica. «No, no, io... Voglio stare solo». Tornai serio quasi immediatamente.

«Simon...».

«Lasciami solo, Jo...».

Lei tentò ancora di dire qualcosa, ma non stetti ad ascoltare. Ero troppo sconvolto per restare semplicemente immobile, permettendo ad altre parole di scivolarmi addosso. Corsi semplicemente via, il più lontano possibile dalla scuola.

  
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