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Autore: shotmedown    01/03/2013    2 recensioni
Elisa ha diciannove anni da compiere, un'esistenza all'apprenza monotona, un cielo di carta da infrangere. Perché di certezze ne aveva fin troppe, ma tutte campate in aria. Un ragazzo da lasciarsi alle spalle, Alessandro, che un piccolo strappo in quel cielo lo aveva provocato, ma c'era lui, Andrea, che prometteva di squarciarlo completamente e cambiarle non la vita - sarebbe banale e scontato dirlo - ma la visione complessiva delle cose.
Andrea è un commesso della Hollister, all'apparenza burbero e senz'anima. Ma Elisa riuscirà a scovare qualcosa di più sotto quel guscio da duro, perché sotto quella corazza si nasconde il vero lui.
Il titolo è tratto da un passo ripreso da Pirandello, Il fu Mattia Pascal.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo IV.
 











Quelle lezioni sembravano la copia mal riuscita e del tutto fuori tema de “La Storia Infinita”.
Mi ero inoltre resa conto che prendere appunti e fingere di ascoltare faceva trascorrere il tempo più velocemente, anche se, comunque, di Fichte e compagnia cantante non mi importava poi più di tanto.
Il professore di filosofia aveva deciso di stravolgere completamente il programma, saltando Kant e mettendo Fichte come uno degli ultimi autori da fare, prima di passare a Schopenhauer. Dire che non vedessi l’ora di iniziarlo era poco, perché era uno dei pochi personaggi che davvero destavano la mia attenzione.
Posai la penna nel porta pastelli e misi a posto gli ultimi libri lasciati sotto il banco, prima di appoggiarmi alla borsa per ascoltare. Repressi uno sbadiglio che spingeva per uscire, nonostante i mille sforzi di non farlo neanche nascere. Il professore dovette notare la mia stanchezza, perché, come suo solito, mi canzonò.
<< Ha sonno, Nardi? >>
<< Sì, e non credo che il pensiero fichtiano aiuti molto, prof. >> Risposi prontamente e sinceramente. Era un continuo e quasi “amichevole” battibeccare, ma nessuno dei due intendeva desistere. Neanche lui amava così tanto l’idealismo.
Continuò a parlare ancora per un po’, salvo poi decidere che era arrivata l’ora di andare via, quindici minuti prima del suono della campanella.
Al mio fianco sentivo Ilaria ridacchiare, e Melinda raccontare ad Ida cosa era successo con Alessandro. A quanto pareva faceva sul serio, con lei. Quando mi voltai, Ida mi chiese di allontanare Ilaria, mimando qualcosa con gli occhi, ma la rassicurai, dicendole di sapere già tutto di quella storia. Quindi, distrassi la mia compagna di banco con qualche stupida affermazione circa i nostri telefilm preferiti.
A due minuti dal suono, cercai il mio cellulare ed inserii gli auricolari: avrei dovuto comperare un lettore al più presto. Feci partire i Radiohead, con una canzone che era riuscita in quello in cui molti avevano fallito: tranquillizzarmi e rasserenarmi. Tenni il tempo con le dita, e solo quando vidi gli altri alzarsi, li imitai e fuggii, letteralmente, da quella classe, salutando di sfuggita il bidello del nostro piano.
Qualcuno alle mie spalle doveva avermi chiamata, ma il ritornello non mi permise di sentire poi chiaramente, così continuai imperterrita per la mia strada senza curarmi di nessuno. Non mi voltai, non salutai anima viva: semplicemente presi la via di casa. Mia madre non c’era, e io avevo un mucchio di cose da studiare, essendosi appena concluso il quadrimestre. Era praticamente un mese che non uscivo di casa, se non per raggiungere l’edificio scolastico e tornare, per poi prendere a studiare come un’ossessa. Oh, e dimenticavo la palestra. Avevo messo su un chilo a suon di pagine di storia e letteratura e marmellata , e così avevo deciso di iniziare a fare un po’ di esercizio. Tre volte alla settimana, quando riuscivo a metter piede fuori. Ero pigra, sarebbe stato difficilmente tornare in carreggiata prima dell’estate. A proposito d’estate… Avrei dovuto contattare Maria al più presto per organizzare quel viaggio a Vienna dopo l’esame di Stato. Avrei dovuto effettivamente chiedere il permesso ai miei, prima di prenotare e trovarmi un volo da prendere senza avere la possibilità di andarci.
<< Elisa! >> Dimenticavo mia sorella. Avrei dovuto preparare da mangiare anche per lei e dire che non ne avevo minimamente voglia, era poco. Era mia intenzione, infatti, prepararmi un panino e poi riposare un’oretta prima di riprendere a studiare, ma lei stava rovinando proprio tutti i miei piani.
<< Cosa ti ha preparato la mamma? >> Chiesi, mettendo a posto lo zaino e spogliandomi di sciarpa e giubbotto.
<< Niente. Ti ha lasciato carta bianca. >> Peccato lo facesse solo quando le tornava comodo. Mi rimboccai le maniche e aprii il frigorifero: verdure, frutta, ortaggi… No, non andava per niente bene. Avrei dovuto cucinare sul serio, e in altre circostanze sarei stata più che felice di farlo, ma non in quel momento. Ero stanchissima, avrei voluto solo dormire per ore, ore e ore, e in più quella sera, alle diciannove, avevo la palestra. A meno che non avessi avuto intenzione di addormentarmi sul tapis roulant…
<< No, no, no. Scordatelo. Mamma ci uccide. >> La vidi arretrare mentre io mi allungavo sul frigorifero per appropriarmi del barattolo con dentro i soldi per la spesa. Avremmo potuto fare un salto al mio ristorante preferito, quello in cui lavorava Laura, una vecchia amica di famiglia. Il cibo era ottimo e non costava molto.
<< Allora ci vado da sola. >> La minaccia, indossando di nuovo quello che avevo posato sull’appendiabiti. La guardai di sottecchi, prima di vederla avvicinarsi a me e prendere il suo cappotto. << Amelia, hai chiuso tutto a chiave? >> Le chiesi sospettosa.
 Non lo faceva mai, fosse stato per lei avrebbe tranquillamente consegnato le chiavi di casa nelle mani di un perfetto sconosciuto pur di non doverle tenere ancora a lungo. Lo aveva fatto in passato con l’auto nuova, quando era scesa improvvisamente perché colta dalla voglia di comprare biscotti e mia madre era stata costretta a seguirla lasciando le chiavi nell’accensione. Due secondi dopo, la macchina era bell’e andata. Quando avevano chiamato casa, non sapevo se ridere o piangere della situazione: optai per una via di mezzo, e mia sorella, da allora, cercava di farmi dimenticare quell’episodio.
Scendemmo in strada e le chiesi di aspettarmi vicino l’auto, mentre controllavo se era arrivata la posta. Quando tolsi l’antifurto, salì subito, sfregandosi le mani per il freddo.
<< Non spenderemo molto, non preoccuparti. >> La tranquillizzai, serena perché sapevo che nostra madre non avrebbe effettivamente fatto storie per quel pranzo fuori programma. Fino a quando si andava a mangiare da Laura, era tutto a posto: era decisamente contro il cibo spazzatura.
Mentre ci trovavamo per strada, cercando di capire dove mettere l’auto – il problema dei problemi! – il cellulare prese a squillare. Mi preparai a rispondere a mia madre, ma mia sorella mi anticipò, passandomi poi il Blackberry. La fissai torva, ammonendola: doveva imparare a farsi gli affari suoi. Una volta aveva risposto anche ad una chiamata di Alessandro e per distoglierla dal pensiero che si trattasse del mio ragazzo, ce ne vollero di tempo e scuse. Inutile dire che mia madre non mi credette affatto, ma con la continua speranza di accasarmi, non chiese altro se non di stare attenta a ciò che facevo.
<< Tigre. >> Sussultai, inchiodando proprio di fronte al ristorante. Fortuna volle che mia sorella indossasse la cintura di sicurezza, altrimenti avremmo entrambe finito col ritrovarci con il volto spiaccicato nel parabrezza. A quell’affermazione seguì una risata, dovuta probabilmente al fatto che l’interlocutore doveva aver sentito la mia imprecazione. << Signorina Nardi, lei mi stupisce ogni volta. >>
Oh, era Manetti. Momento. Come faceva a sapere che suo figlio mi chiamava in quel modo? Era più di un mese che non ci vedevamo né sentivamo, sia con lui che con Andrea, e ora era spuntato così, all’improvviso.
<< Co-cosa…che succede? >> Balbettai, mentre mia sorella scendeva dall’auto mormorando cose che non avrebbe neanche dovuto sapere. Le intimai di chiedere a Laura di portarci il solito, mentre io mettevo a posto delle cose.
<< Vedo che è impegnata. Bene, non la tratterrò oltre. Mio figlio mi ha pregato di chiamarla per dirle che è in possesso di una specie di diario… >>
Oh, mio Dio.
Pregai qualsiasi santo, Dio, dea, Buddha, Allah, la Potnia che non fosse quello che pensavo. Ma no, non poteva essere. Ci eravamo visti un mese prima, e non poteva essermi caduto dalla borsa, anche perché l’ultima volta che ci avevo scritto era stato…NO!
<< Ha per caso la copertina grigia? >> Deglutii, ricevendo, però, risposta negativa. Sospirai di sollievo: molto probabilmente si trattava del diario scolastico.
<< C’è sopra un fiore di loto. Non mi sono permesso di aprirlo, perché so cos’è e rispetto la privacy. >> Sembrava stesse cercando di difendersi da un’accusa che neanche gli avevo rivolto. Poi mi tornò in mente quel giorno, quando ero rientrata e non avevo controllato se l’agendina mi fosse caduta da qualche parte. Vi erano, dentro, tutte le citazioni dei miei autori e libri preferiti e alcuni dei miei pensieri. Nulla di che, avrei potuto benissimo fingere che i miei fossero frasi trovate da qualche parte senz’autore. Sì, talvolta era imbarazzante rendere noto agli altri che di tanto in tanto si rifletteva su qualcosa che non fossero pensieri comuni o quant’altro. Forse non me n’ero resa conto prima perché nell’ultimo mese non avevo letto nulla, dato che, quando non ero impegnata a studiare, dormivo.
Ci accordammo per incontrarci nel ristorante in cui stavamo io e mia sorella, per evitare di far passare ulteriormente tempo, e staccammo. Mia sorella non perse occasione per chiedermi chi fosse, cosa volesse, perché mi avesse chiamata proprio in quel momento e perché io fossi così sconsiderata. Tutte domande a cui non diedi risposta, impegnata com’ero a gustarmi le mie trofie al pesto.
Alle tre circa, avevamo finito e di Manetti neanche l’ombra. Guardai nervosamente l’orologio di fronte al nostro tavolo, chiedendomi se fosse il caso di tornare a casa, dato che a momenti mia sorella sarebbe crollata con la testa sulla superficie di legno del banco – più o meno quello che stava accadendo a me. Era in ritardo di un’ora, e di certo avrei potuto passare da lui, a quel punto. Ma almeno non avrei dovuto portare mia sorella in braccio fino al nostro appartamento.
Ci alzammo e le dissi di prendere i cappotti mentre io pagavo il conto a Laura.
<< Elisa, ti prego. Non se ne parla nemmeno. >> Le allungai i soldi, pretendendo che li prendesse. << Tua madre viene spesso a mangiare qui con tua sorella, e non è mai successo che pagassero. Siamo amiche dai tempi dell’Università, ci mancherebbe! >> All’ennesima protesta, desistetti.
La ringraziai, ripromettendomi di portarle più clienti, nonostante ne avesse già tanti, e fosse impegnata quasi a tutte le ore del giorno. Infatti, salvo farle perdere ulteriore tempo, uscii con mia sorella dal locale.
<< Ho dimenticato la tua sciarpa! >> Roteai gli occhi stanchi, chiedendole di aspettarmi in auto, e, ovviamente, non mi lasciai sfuggire l’occasione di prenderla nuovamente in giro per quella storia. Ridendo, tornai dentro, mentre lei imprecava e si sistemava meglio sul sedile.
Tranquillizzai Laura e mi avvicinai all’appendiabiti, cercando quel pezzo di lana nero, che riuscii a trovare solo sotto quattro piumini e un paio di cappelli. Tornai fuori, ma mentre aprivo la porta, finii addosso a qualcuno, che probabilmente neanche mi aveva vista.
<< Scu… >> La voce mi morì in gola, nel momento in cui mi resi conto di chi mi ero trovata davanti. << Ah, sei tu. >>
<< Ciao. >> Andrea trafficò velocemente nella sua borsa, porgendomi, poi, quella che doveva essere la mia agendina. Solo in quel momento mi resi conto di quanto mi fosse mancata, ma la fretta che aveva quel ragazzo, fece durare quella felicità ben poco. Presi l’oggetto dalle sue mani e lo ringraziai, facendo seguire le scuse da un improvviso sbadiglio che non ero riuscita a reprimere.
Mi sorpresi di vedere due Andrea. Chiusi gli occhi e li riaprii, sicura si trattasse di uno scherzo del mio corpo, ma mi scoprii più stanca di prima. Avevo un sonno terribile, ma non potevo cedere perché dovevo studiare e guidare fino a casa. Strofinai due dita sugli occhi, con la speranza di renderli lucidi per una guida di appena cinque minuti, ma la vista di mia sorella, che ormai si era addormentata, non fece che aggravare la situazione.
<< Ehi, stai bene? >> Era ancora lì? Avrei giurato di averlo visto allontanarsi subito dopo avermi salutata velocemente.
Annuii e mi avvicinai all’auto, recuperando quel po’ di vista che mi avrebbe permesso di rientrare in tempo a casa. Tentai di aprire la portiera, ma una mano me lo impedì. Seguii la linea del braccio fino al volto di Andrea, che mi stava guardando in un modo che sottintendeva tanti rimproveri circa la sicurezza in strada.
<< Sali, guido io. Infondo l’università è vicino casa tua. >>
<< Non se ne parla nemmeno, sloggia. >> Fu totalmente inutile cercare di opporre resistenza, perché proprio come avrebbe fatto con una bambina di cinque anni, così riuscì a portarmi sui sedili posteriori, nonostante i miei velati insulti. Evidentemente li stavo solo immaginando, persa com’ero nel mondo dei sogni.
Avrei dovuto chiedergli tante cose, dal perché suo padre mi avesse chiamata col nomignolo che lui, molto simpaticamente, mi aveva affibbiato, al motivo per cui aveva deciso di rendermi l’agendina solo un mese dopo esserne entrato in possesso. Ma Morfeo voleva averla vinta, e io non ebbi abbastanza forze per impedirgli di dominare anche me.
 
Mi svegliai di soprassalto, e mi sorpresi di essere in un luogo diverso da quello che ricordavo. Niente auto, niente sedili, ma solo il mio letto, e un plaid. Mi guardai intorno confusa, cercando di capire come ci fossi arrivata in camera mia se neanche avevo aperto gli occhi fino a un minuto prima.
Sentivo delle voci provenire dal salotto, e quella femminile fu semplice ricollegarla a mia sorella, ma quella maschile… Di certo non poteva essere chi immaginavo fosse.
 Mi avvicinai lentamente alla porta, socchiudendola e uscendo silenziosamente nel corridoio. Quello che vidi mi turbò e sorprese alquanto: Andrea stava spiegando delle cose a mia sorella. Storia, a quanto pareva. Arrivai nel momento della fondazione di Alba Longa.
<< Ah, Bella Addormentata! Hai riposato abbastanza? >> Arrossii all’istante, evitando il suo sguardo e limitandomi ad annuire. Mi recai in cucina, dove ad attendermi doveva esserci per forza qualche cialda per il caffè, perché, dopo quell’esperienza, ne avevo bisogno per cercare di capire perché Andrea fosse ancora lì e io stessi dormendo beata da almeno quattro ore. E dov’era finita mia madre, in tutto quello?
 << Vuoi…un caffè? >> Chiesi, educata. Mia sorella, nel frattempo, si era dileguata e con lei il tomo sulle guerre di fondazione.  
<< Sì, grazie. >> Mi sorrise, e per poco non arrossii.
Oh, insomma, è quello scellerato! Mi ero anche resa conto che l’attrazione – solo ed esclusivamente fisica – era svanita poco dopo la sua scomparsa, e ora c’era solo indifferenza. Indifferenza e basta, perché tanto dopo quell’incontro non ci saremmo più visti. O no?
Tornai in cucina e preparai un caffè anche a lui, per poi proporgli una fetta di torta per accompagnarlo. Ci mettemmo a sedere intorno al bancone, rimanendo in un silenzio tombale, interrotto solo dal rumore delle tazzine che toccavano i piattini in ceramica. Alzai lo sguardo ed incrociai il suo, porgendogli mille silenziose domande, a cui parve trovare risposta, perché si mise comodo e mi spiegò un po’ tutto. Quasi tutto.
<< Hai perso l’agendina nella mia auto, ho avuto da fare e non ho potuto contattarti prima. Quando ho trovato tempo, mi sono reso conto di non avere il tuo numero, così ho chiesto a mio padre di chiamarti. >>
<< Perché mi ha chiamata tigre? >> Al suono della mia domanda scoppiò in una fragorosa risata che mi lasciò interdetta.
<< Per non perdere la tua agenda tra i miei libri ci ho messo su un post-it che poi ho dimenticato di rimuovere consegnandola a mio padre… Il lavoro è stato inutile, perché mi ha chiamato comunque per portartela. >> Fu mio dovere fare due più due in una situazione in cui capivo sempre meno. Se si era recato da suo padre perché aveva il mio numero, come mai il padre non aveva fatto domande sulla menzogna che aveva portato avanti il giorno in cui mi aveva baciata per darmi un aiutino?
<< Gli ho raccontato la verità subito dopo. Aveva già capito qualcosa, e poi… è un avvocato. Sa come far parlare la gente. >> Sorrisi, ripensando a Manetti. Era un uomo molto risoluto. << Interessante il pensiero sulle porte. >> Quasi non mi strozzai con il caffè che avevo appena finito di bere.
<< L’hai letta! >> Desistetti dal desiderio di saltargli addosso e prenderlo a schiaffi fino a quando ogni suo muscolo non avesse gridato la resa. Dovette cogliere il mio sguardo assassino, perché si allontanò tanto quanto bastava ad avere abbastanza spazio per scappare in caso d’emergenza. O no, non gliene avrei dato la possibilità, non quando si trattava di umiliazioni simili. Erano pensieri personalissimi!
<< Oh, insomma… Hai appena riparato ad un errore, non vorrai commetterne un altro? >> Mi fermai a pochi centimetri da lui, chiedendomi a cosa si stesse riferendo di preciso. Cosa avessi fatto, in passato, che potesse essere definito propriamente “errore”.  << Mi hai offerto della torta e un buon caffè dopo avermi costretto a metterti a letto… >>
<< Ma dai! Nessuno ti ha chiesto di accompagnarmi men che meno di portarmi a letto! >> Capii troppo tardi il doppio senso uscito dalle mie labbra, che coprii immediatamente con entrambe le mani, come per evitare che ne uscissero ulteriori scempiaggini. Ma si poteva essere così stupidi e offrire a lui, proprio a lui la battuta su un piatto d’argento?!
<< Quello lo faccio sempre per piacere, tigre. Comunque sia, ringraziami, o adesso staresti ancora riposando, ma sottoterra. >> Era irritante fino allo stremo, tanto che rinunciai, ritenendo di combattere contro i mulini a vento.
<< Mi spieghi perché sei ancora qui? >> Domandai, avvicinandomi al telefono per controllare la segreteria. Nessun messaggio. << Mia madre ha chiamato? >>
<< Sì, le ho detto di stare tranquilla, che tu e tua sorella dormivate. >>
<< Come…cosa?! E non ha chiesto chi tu fossi? >> Mi allarmai, pensando a cosa avrebbe detto mia madre una volta rientrata. Mi avrebbe come minimo inseguita per tutta la Toscana con un’ascia tra le mani, minacciando mille modi diversi di morte.
<< Certo. Ho usato la vecchia scusa, un compagno di studi. >> Mi portai una mano alla fronte. Morfeo aveva creato solo danni, non avrei mai più dovuto arretrare ore di sonno. Ergo, basta storielle prima di andare a dormire, o non sarei arrivata ai vent’anni.
<< Non hai risposto alla prima domanda. >> Gli ricordai, guardandolo. Sembrava così tranquillo, come se nulla fosse accaduto. << Perché sei ancora qui? >>
<< Ho deciso di aspettare che ti svegliassi, così ho ammazzato il tempo studiando. Se avessi saputo che dormivi così tanto me ne sarei andato prima, ma mentre stavo per farlo… >> Indicò il corridoio, con un chiaro riferimento a mia sorella. Il resto era storia nota. Mi limitai ad annuire, guardando poi l’orologio. Era anche troppo tardi per andare in palestra, quindi decisi che avrei fatto tre giorni consecutivi dall’indomani. Inviai un sms ad Anna, che si stava chiedendo che fine avessi fatto e a Melinda, per rassicurarla. Non sapeva niente di Andrea, e non volevo ne venisse a conoscenza: era inutile parlare di qualcosa che non aveva corpo, quindi preferivo di gran lunga evitarmi troppe spiegazioni.
<< Ceni… con noi? >> Chiesi, titubante. Be’, si trattava di gentilezza, non certo di un invito a rimanere di più.
Guardò l’orologio e si allontanò un istante, salvo poi tornare con un sorriso ampio stampato sulle labbra. Immaginai fosse un sì, e che fosse andato ad avvisare la madre che sarebbe rincasato più tardi. Gli chiesi delle sue condizioni, ricordando la giornata in ospedale esattamente cinque settimane prima, e quando mi rassicurò sulla sua salute, mi sentii molto sollevata.
 Empatia, c’era empatia. Non avevo mai provato ansia per qualcuno che non fosse una persona strettamente legata a me, eppure ora sembrava diverso. Andrea era seduto lì, sereno, e mi sembrava che non ci fosse affatto motivo di essere turbata.
*
<< Ma, Andrea… qualcosa non mi torna. Come puoi essere compagno di classe di Elisa? >> Mia madre aveva tutto il diritto di porre quella domanda, perché quando era entrata in casa si era trovata davanti un ragazzo di ventuno anni, una specie di modello, che non aveva mai visto tra i miei amici. Per non parlare di mio padre, che lo aveva quasi fulminato con lo sguardo quando lo aveva visto seduto accanto a me sul divano, intento a guardare la televisione.
<< Compagno di studi, signora Nardi. >> Sottolineò, sorridendo e addentando un pezzo di pollo. << Frequento il terzo anno di Legge. >>
<< Stai aiutando mia figlia? >> Mio padre parve illuminarsi: parlare di Università e futuro era una specie di toccasana per lui. Vidi Andrea annuire, mentendo con una naturalezza tale che temetti fosse così anche quando parlava con me. << Tesoro, perché non ce lo hai detto? >>
<< Io…ehm… >>
<< Sono stato io a chiederlo. Non faccio lezioniprivate, solitamente, ma Elisa mi è parsa molto determinata ad intraprendere la carriera legale. >> Lo fulminai con lo sguardo, sentendo l’ironia che aveva messo in quell’affermazione. Sarcasmo che i miei genitori non carpirono affatto, perché mostrano trentadue denti a testa, fieri come non mai della scelta della propria figlioletta.
Dio, mi facevo schifo da sola. Per rendere felici loro stavo sacrificando me, ma poco mi importava: obiettività. Realtà. Non dovevo pensare ad altro e non avere altri strumenti se non quello della ragione.
<< Da quando vi conoscete? >> Amelia non poteva evitare di intervenire in quel supplizio, no. Doveva gettare benzina sul fuoco.
<< Poco più di un mese. >> Rispose subito lui. << Ci siamo incontrati sul mio posto di lavoro. >> Avrei utilizzato un altro verbo, ma quello mi parve più che conveniente per una situazione come la nostra. Cercai di legarmi e di appoggiarmi alla sua tranquillità, sperando di trarne forza anch’io, ma fu in quel momento che mio padre decise di spezzare la fune e lasciarmi cadere in un burrone immenso.
<< Che lavoro fai, figliolo? >> Figliolo.
Figliolo.
Mio padre chiamava in quel modo solo chi era ormai il benvenuto nella nostra famiglia. Mi preoccupai all’istante, certa che Andrea non amasse parlare particolarmente della sua vita, e difatti, per prolungare un po’ la tortura, bevve un sorso d’acqua.
<< Guardalo quant’è bello, Enrico. Come minimo fa il modello! >> Mia madre voleva certo sparare una battuta lì per lì, non sapendo che in realtà, per la seconda volta in una giornata, stavo rischiando seriamente di strozzarmi con quello che stavo mangiando. Il pezzo di pane rimase incastrato in gola, e colpi di tosse forti mi costrinsero a piegarmi in due per riuscire a respirare e riprendere un colorito idoneo e normale. << Santo cielo, Elisa! Stai bene? >>
<< S-sì! Sto bene, benissimo. >> Trangugiai un intero bicchiere d’acqua gelata, sentendomi subito meglio. Andrea se la rideva di gusto, insieme a mia sorella, che pareva essersi risvegliata da un sonno profondo. Li fulminai entrambi, certa che li avrei uccisi una volta terminata quella cena e avrei ammazzato mia madre e le sue assurde e veritiere supposizioni.
<< Lavoro in un negozio d’abbigliamento, signore. >> Rispose semplicemente. Certo, era ovvio. Era messo lì per far bella figura, ma era certamente anche quello il suo impiego: vendere abiti. Troppo presa dal giudicare lo status quo della vicenda, non mi ero resa conto che l’unico difetto di Andrea era la bellezza, che mi aveva portata a considerare il suo lavoro un semplice sfoggio delle sue doti fisiche. Forse era arrivata l’ora di guardare più a fondo, perché quel ragazzo non era stupido, né tantomeno superficiale come ad un primo acchito poteva sembrare.  
<< Chiamami Enrico, per favore. >> Ci fu una lieve risata, alla quale partecipai stonando con quella nota nevrotica che caratterizzò tutta la cena. Inutile, non ero abituata ad avere estranei in quel preciso momento e a fingere così con i miei genitori. A parte Alex, il mio migliore amico e non quell’idiota del mio non-ex, mio padre non aveva mai parlato così liberamente neanche con i miei compagni di classe. Fosse per il fatto che Andrea studiava legge, che la mia famiglia credeva mi stesse dando lezioni, ma l’aria che si respirava creava un’atmosfera del tutto normale. Come se fossimo in famiglia, e non ci fosse una sorta di intruso.
Non seppi dire se quella cosa mi piacesse o meno, perché poi non avrei saputo spiegare la scomparsa di Andrea dalla mia vita, dopo quella sera. L’agendina era tornata indietro, noi due saremmo andati avanti, per strade diverse. Sospirai, posando la forchetta nel piatto: non avevo molta voglia di mangiare quella macedonia.
Chiesi il permesso di alzarmi, ma tutto ciò che ottenni in risposto fu uno sguardo interrogativo da parte dei commensali, che mi spinse ancor di più a rifugiarmi in camera mia. Non seppi precisamente perché mi sentissi stanca, avendo dormito così tanto da temere di non riuscire a prender sonno quella notte; il problema fondamentalmente era che vedere Andrea quella sera, quella battuta presa seriamente dai miei genitori sulle mie scelte riguardanti il futuro, mi avevano fatto pensare. Ero piena di certezze, nessuno fino a quel momento mi aveva dato così tanti problemi, neanche Anna. Sapevo bene lei volesse facessi ciò che amavo, ma quel ragazzo lo aveva detto con così tanta convinzione che vi avevo visto celata un po’ di cattiveria nelle sue parole. Forse era risentimento, perché c’era qualcosa sotto: qualcosa che stavo facendo doveva farlo innervosire e non poco, dato che quando si parlava di quello tendeva a diventare serio.
Perfetto, mi stavo problematizzando la vita inutilmente, dal momento che tanto Andrea non sarebbe rimasto ancora a lungo. Però mi aveva scossa! Com’era quella cosa di Pirandello? Lo squarcio nel cielo…
Ah, sì: “Uno strappo nel cielo di carta”.
Convinzione lacerata da un intervento esterno, qualcosa o qualcuno che avrebbe dovuto farmi rendere conto che quella che vivevo non era la mia vita, e quel qualcuno era Andrea. Per quanto mi dolesse dirlo, stava avendo su di me un’influenza che neanche mi ero sognata di lasciargli esercitare, dal momento che ci conoscevamo relativamente poco.
<< Tigre, >> fece capolino dalla porta, timidamente. Incredibile, era la prima volta che lo vedevo così. Stavo iniziando a tollerare quel nomignolo, cercando di vederlo nella prospettiva positiva.
<< Entra. >> Chiuse la porta alle sue spalle e si mise a sedere accanto a me. In quel momento mi diede l’impressione di essere una sorta di fratello maggiore venuto ad appurarsi delle condizioni psicologiche della sorellina. Sorrisi, pensando che avevo sempre desiderato un fratellone che si prendesse cura di me.
<< Forse non avrei dovuto rimanere. >> Disse, guardando le pareti bianche di fronte a sé. Mi sentii immediatamente in dovere di chiarire quella situazione.
<< No, no. Alla mia famiglia ha fatto davvero piacere averti a cena. >> Fu in quel momento che incrociai, per la prima volta, davvero, quegli occhi grigi. Stavolta sembravano mostrare la loro vera tonalità, solo perché, probabilmente, li stavo guardando con più attenzione. O probabilmente perché me ne sentii totalmente catturata.
<< E a te? >> Cercai immediatamente una risposta che non mi facesse apparire una stupida ragazzina in preda agli ormoni o ai sensi di colpa, ma non ci riuscii. Dovevo per forza essere sincera.
<< Come spiegherò ai miei la tua scomparsa? >> Gli occhi che tenevano incatenati i miei si incupirono. Me ne ero resa conto, perché se c’era una cosa che riuscivo a fare bene, era cogliere i cambiamenti di stato d’animo delle persone, soprattutto quando erano strettamente collegati a me.
<< Vuoi che sparisca? >> La sua domanda mi colse totalmente di sorpresa, tanto che in un primo momento non seppi davvero cosa pensare.
<< Sono abituata a vedere le persone andar via, ma solo dopo un po’ di tempo. Sai, quanto basta a farmici affezionare. >> Mormorai, onestamente. Distolsi il volto dal suo e cercai qualcosa di interessante da osservare in alternativa: i miei piedi furono un’ottima scelta, tutto sommato.
<< Potresti prendere un cane. >> Sdrammatizzò, ma io lo vidi come un tentativo di cambiare argomento. Gliene fui grata, perché non mi andava di parlare dei miei complessi sociali e della mia accennata misantropia in via di sviluppo. Sarebbe stato come rivelare il settantacinque percento di me.
<< E’ un’idea. Ma perché prendere di mira un povero animale quando posso trovare un essere umano disposto a farsi sfruttare e a cui legarmi? >> Mi veniva da ridere, dovevo sembrare realmente stupida in quel momento. Ma lui si unì alla mia risata, dandomi pienamente ragione. Anche secondo lui i cani dovevano essere tenuti in gran considerazione.
<< Sei una sfruttatrice! La schiavitù è stata abolita secoli fa! >> Con un gesto vago della mano lo zittii, fingendomi altezzosa. Nell’esatto istante in cui lo feci, lui afferrò il mio polso e mi costrinse a stendermi sul letto a causa del solletico che aveva preso a farmi. Santo cielo, era insopportabile il fatto che non riuscissi a respirare a causa delle risate e il contorcermi così tanto mi aveva condotta al classico cliché: posizione imbarazzante. Ero completamente stesa sul suo corpo, ma tra i nostri volti c’era distanza. Almeno quella scenetta da Harmony ce l’eravamo evitata.
<< Non mi piace essere l’antilope della situazione. >> Affermò, tenendomi stretta.
Inarcai un sopracciglio, chiedendomi cosa diavolo stesse dicendo, distratta, però, dalle sue mani sulla mia schiena. La tigre. Io ero la cacciatrice, in quel momento.
<< Bisogna adeguarsi, Antiandré. >> Ancora ricordavo quel soprannome che gli avevo dato quel giorno, per rinfacciargli le sue cattive maniere e i suoi atteggiamenti da io-sono-figo-e-faccio-quel-che-mi-pare. Voleva la tigre? Bene, gliel’avrei data.
<< Non sono molto bravo a farlo, in genere sono gli altri che si adeguano a me. >> Perché la sua voce mi suonava tanto eccitante? Eppure mi stava involontariamente confessando un altro aspetto di sé. Presi nota e andai avanti, considerando vago il suo peccato di presunzione.
<< Mi spiace, ma con me non funziona così. >>
Mia madre entrò in quel momento.
Dire che avrei voluto morire sarebbe stato un eufemismo, pertanto mi limitai a rotolare via da lui, cadendo di peso sul pavimento e facendomi anche parecchio male al fondoschiena. Guardai mia madre che, ancora silenziosa, se ne stava lì sulla porta ad aspettare che uno dei due dicesse qualcosa circa quella situazione sconveniente, ma io, personalmente, non riuscivo a spiccicare parola. Andrea, come al solito, corse in mio aiuto, alzandosi prontamente dal letto e sistemandosi alla bell’e meglio. Lo raggiunsi anche io, per appoggiarlo psicologicamente quando avrebbe tentato di trovare una scusa plausibile per quella strana scena.
<< Be’, vede… Le stavo spiegando un metodo di studio efficace! >> Perfetto. Eravamo nei guai.
<< Andrea, sei poco credibile. Dimmi solo questo, e mi fiderò: siete amici? >> Mi scoprii sorpresa di voler sapere la risposta a quella domanda, che mia madre aveva invece posto con tutta la naturalezza del mondo.
<< Sì. Amici. >> Dovevo capire se stava mentendo, così lo guardai in volto e cercai di ricordare le espressioni assunte durante la cena, quando aveva finto tutto il tempo di essere qualcuno che non era. O meglio, gran parte del tempo, solo quando rispondeva a determinate domande. Notai, lì, nella zona T del volto, una piccola rughetta che compariva solo quando si concentrava per trovare una bugia abbastanza credibile. Gliel’avevo vista anche prima a tavola, e ora, di nuovo mi stava facendo credere che stesse mentendo.
E allora? Cosa potevo aspettarmi? Non si diventava amici da un momento all’altro, come se ci si conoscesse da una vita e non da un mese al massimo. Mia madre parve convincersi, perché ci lasciò nuovamente soli, ma con l’imbarazzo ancora aleggiante. La tensione si tagliava a fette.
<< Io… Vado. Devo andare. >> Annuii, accompagnandolo all’entrata. Salutò velocemente mio padre e mia sorella, chiedendo di salutare anche mia madre, che, nel frattempo, era andata a fare una doccia. I due si allontanarono, e io e Andrea ci ritrovammo uno di fronte all’altra, con un semplice saluto da fare. E sembrava ancor più difficile che chiedergli di rimanere a cena.
<< Non stavo scherzando, prima. >> Disse, interrompendo i miei pensieri. Lo guardai con interesse, cercando di ricordare a cosa si riferisse, poi ci arrivai.
<< No. >> Dissi, e fui sicura della mia risposta come non lo ero mai stata fino a quel momento di altre decisioni. << No, non voglio che tu sparisca. >>
Da dove fosse spuntata tutta quella determinazione, non lo sapevo neanche io. Lo vidi sorridere, salvo poi allungarsi verso di me per lasciarmi un bacio all’altezza della guancia. Fu istintivo, per me, portare una mano lì, nel punto esatto in cui le sue labbra avevano sfiorato la mia pelle.
<< Potremmo diventare buoni amici. Tutto sommato, non sei così male, tigre. >>

Mi lasciò così, con un sorriso enorme stampato sulle labbra, uno di quei sorrisi autentici. Speravo solo non durasse poco.



 
  
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