Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: deepblueyes    01/03/2013    0 recensioni
Cosa faresti se un Demone, per scommessa, ti offrisse in un Contratto l'amore della tua vita, chiedendo in cambio soltanto la tua anima?
Accetteresti?
E se poi ti trovassi invischiato in un mondo di cui non immaginavi neppure l'esistenza, rischiando la vita, e scoprissi che la tua esistenza era sempre stata soltanto un'apparenza di normalità?
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3
Alice.


Odiavo profondamente le sveglie. Soprattutto la mia.
Non ero mai riuscita a far capire a mia madre che una sveglia digitale è meglio di una normale, perché invece di farti aprire gli occhi con un insopportabile trillo infinito e monotono mi avrebbe permesso di alzarmi con la mia musica.
E non ero mai riuscita a farle capire che non doveva spostarla sulla scrivania, quella stramaledetta sveglia, perché non sarei mai riuscita a spegnerla prima che facesse svegliare tutti a casa.
“Alice! Spegni quell'affare, maledizione!”
Chiusi gli occhi, imprecando sottovoce, e scattai a spegnere l'aggeggio infernale: “Scusa papà!”
Mi passai una mano sul viso e tra i capelli, cercando di spannarmi il cervello, e vidi quel gatto sulla porta. Quello che mamma aveva avuto la brillante idea di portare in casa un paio di giorni prima.
Non che fosse brutto, anzi, era uno splendido gatto nero, snello ed elegante, ma anche terribilmente inquietante: non lo avevo mai sentito miagolare né lo avevo mai visto dormire o fare qualunque cosa un normale gatto facesse di solito.
Si limitava a fissarmi, perfettamente immobile, con quei conturbanti occhi verdi.
A volte, avevo l'impressione che lui si prendesse gioco di me, guardandomi apposta in quel modo da brividi.
Scossi la testa, scacciando quei pensieri idioti: era soltanto un gatto. Magari apparteneva a una strega o giù di lì, ma era pur sempre un gatto.
Spostai lo sguardo analizzando il disordine della mia stanza, e finii col guardare il mio riflesso sullo specchio a muro.
Sospirai.
Altra idea geniale di mia madre: diceva che alla mia età aveva sempre voluto uno specchio abbastanza grande da potersi guardare per intero, e me lo aveva comprato pensando che fosse anche il mio più grande desiderio. Mentre io non volevo altro che spaccare quel coso inutile.
E lo avrei fatto da tempo, se non fossi stata superstiziosa.
Raccolsi qualche libro da terra e mi avvicinai allo zaino, ma saltai indietro, sussultando: quel maledetto gatto s'era spostato, e adesso mi fissava con la solita aria si sufficienza, seraficamente appollaiato sulla mia tracolla.
“Via, levati!” gli agitai la mano davanti, sperando che se ne andasse, ma quello si limitò a inclinare leggermente il capo, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Uffa!” lo presi in braccio per poi mollarlo sul letto, e riempii la cartella cercando di frenare i brividi: toccarlo mi dava fastidio, sempre.
Recuperai dei jeans dall'armadio, una maglietta e una felpa, poi andai in bagno.
Lavata, profumata e pettinata, partii di corsa, in ritardo come al solito, urlando un “A dopo!” ai miei, tanto per informarli che non ero morta cadendo in bagno... anche se, molto probabilmente, non mi avevano neppure sentito.
Camminando, infilai le mani nelle tasche e recuperai le cuffie, sparandomi la musica al massimo nelle orecchie. Mi sentivo già molto meglio.
E fortuna che tutti pensavano che avere animali in casa facesse bene...
“Alice! Alice! Mi senti?”
Mi sentii afferrare da dietro e quasi urlai quando mi tolsero le cuffie stritolandomi in un abbraccio spacca-costole.
“Alice!! Non puoi immaginare quanto mi sei mancata!”
Tossicchiai, liberandomi: “Sun, sono appena ventiquattro ore che non ci vediamo...”
“Bè, mi sei mancata lo stesso... ho una marea di cose da raccontarti!”
Nonostante ci conoscessimo ormai da tre anni, Sun non era esattamente la mia migliore amica. Non che non le volessi bene, anzi, la adoravo, ma eravamo troppo diverse: persino il nostro modo di vestire era all'opposto.
Non credevo esistesse una gradazione di colore che non fosse sul suo vestito, spaventosamente corto e floreale, i suoi capelli erano riccissimi e biondissimi, il suo sorriso abbagliante.
E poi, lei parlava un sacco.
Non che mi dispiacesse, mi divertiva, ma aveva sempre così tanto da dire che io, alla fine, non le raccontavo niente di me o della mia giornata.
Non era necessario per far andare avanti la conversazione, e a me andava benissimo così.
Sentendola parlare del ragazzo che aveva conosciuto la sera prima, pensai che avrei voluto essere estroversa come lei, così forse avrei avuto il coraggio di parlare con... Nicolas.
Proprio mentre pensavo il suo nome, ci sfrecciò davanti in moto, prendendo posto nel parcheggio della scuola.
Mi sembrò che il tempo rallentasse, mentre scendeva e si toglieva il casco, spettinando i capelli che gli si erano appiccicati alla testa.
“Nick! Ehi, Nick!” lo salutò Sun.
Erano diventati amici quasi subito, loro due. Io non ero mai riuscita a dirgli neppure un misero, patetico “ciao”, ed erano tre anni che frequentavamo gli stessi corsi.
Nicolas si voltò, con sorriso talmente bello da togliermi il fiato: “Ehi, come va?”
“Benissimo, grazie... mi sono divertita un casino ieri!”
Io, semplicemente, mi dileguai, scivolando dentro le doppie porte del mio inferno personale: la scuola. Quella giornata sarebbe stata tremenda.
Avevo in programma tre compiti in classe e un'interrogazione, ma non avevo studiato niente di niente. Avevo pensato ad altro.
A Nicolas, principalmente. Come al solito.
Demoralizzata, mi preparai all'inizio dell'incubo. Raggiunsi il mio armadietto con la flemma di un bradipo, e realizzai che avrei avuto qualche problemino ad aprirlo: avevo dimenticato di nuovo la combinazione. Cambiavo spesso quei quattro numeri perché ero fissata con la mia privacy e convinta che, così facendo, nessuno avrebbe mai ficcanasato nel mio armadietto (per quanto si potesse desiderare di farlo).
Cazzo.
Perché ero sempre, irrimediabilmente distratta? Persi una marea di tempo a cercare di ritrovarla, provando diverse opzioni possibili, e solo quindici minuti dopo il suono della campanella riuscii ad aprire quell'affare. 
Corsi in classe, quasi suicidandomi sulle scale, e aprii la porta senza bussare: “Mi scusi tanto, io...”
Mi interruppi di colpo.
Vicino al professore c'era un ragazzo che non avevo mai visto: era alto, parecchio, soprattutto se paragonato al signor Hammond, il prof di letteratura. Aveva una carnagione scura, olivastra, e i capelli nerissimi e arruffati gli ricadevano tra le ciglia lunghe e scure, che evidenziavano gli occhi verde bosco, dal taglio affilato, felino.
Era davvero magro, ma muscoloso, e mi fissava con un sorriso strafottente, le mani ficcate nelle tasche e la tracolla appoggiata mollemente su una spalla.
Ma non era per quell'aria saccente che non riuscivo a smettere di fissarlo: quel ragazzo aveva un qualcosa di magnetico, sensuale, che mi fece tremare le mani e arrossire fino alla punta dei capelli.
Sapevo che mi stavano fissando tutti, ma ero incantata a guardarlo, dritto in viso, come non avevo mai avuto il coraggio di fare neanche con i miei amici.
Finché non mi fece l'occhiolino.
Sussultai e spostai lo sguardo sulla punta delle mie scarpe, trovandole di colpo molto più affascinanti dello sconosciuto.
“Si sieda, signorina Keeper. È già la terza volta che entra tardi alle mie lezioni, e sarò costretto a punirla se non comincerà a svegliarsi prima.”
Deglutii e borbottai delle scuse confuse sgusciando al mio posto ed eclissandomi, china sul banco. Le mie compagne mi fissavano, ridacchiando.
Che figura di merda, mamma mia.
“Fate silenzio! Come stavo dicendo prima che la signorina Keeper... irrompesse in aula..” fece una pausa, ridendo di me assieme ai miei compagni: “..questo è il vostro nuovo compagno, si chiama Gabriel Alleyn. Vedete di non farvi riconoscere subito, ok?”
Mentre Hammond si perdeva in chiacchiere, aprii il libro e tentai un ripasso last minute che mi permettesse di raggiungere almeno la sufficienza, cercando di tradurre i geroglifici di appunti che avevo frettolosamente preso a piè di pagina.
Poi sentii la sedia affianco alla mia spostarsi.
Alzai gli occhi di scatto, e incontrai quelli di Gabriel Alleyn.
“Ciao.” disse, con lo stesso sorriso che mi aveva rivolto appena entrata.
Persino la sua voce era sexy... ma da dove cavolo spuntava fuori questo tizio?
“Cos'è, il gatto ti ha mangiato la lingua?” chiese, sedendosi, voltando leggermente la sedia verso di me, senza mai smettere di osservarmi. Mi sentivo andare a fuoco.
“No... io.. ciao.” balbettai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia.
“Volete fare silenzio là in fondo?”
Per la prima volta in vita mia, fui davvero grata al professore per aver interrotto quello stillicidio... il cuore mi batteva così forte da rimbombarmi nelle orecchie e non riuscivo a pensare a nulla di coerente.
“Signor Alleyn, per oggi è esonerato dalla verifica, ma si tenga pronto. Verrà interrogato in seguito.” aggiunse Hammond, distribuendo i fogli.
“Certo professore, nessun problema.”
Sollevai lo sguardo e sbirciai la sua espressione: non aveva perso quella nota di arroganza neppure mentre si rivolgeva direttamente al docente, che lo fulminò in risposta. Stava sbracato sulla sedia, con le gambe allungate oltre il banco.
Ma quanto cavolo era alto?
“Che c'è?” sussurrò, ridacchiando.
Accidenti... si era accorto che lo stavo fissando... di nuovo.
Non feci in tempo a rispondere, perché arrivò il professore con la mia condanna a morte: quando il foglio mi fu davanti, non riuscii a trattenere un gemito, sapendo che sarebbe stato la causa di lunghe settimane di punizione.
Non che di solito uscissi più di tanto, ma almeno potevo guardare la televisione e usare il PC...
“Serve una mano?”
Guardai alla mia destra, sorpresa: con la testa sulle braccia, appoggiato sul banco, Gabriel Alleyn mi guardava con un sorrisetto da Stregatto.
“Non ci crederai ma... adoro letteratura...” aggiunse, strizzando l'occhio.
Sorrisi: “Io non la sopporto proprio.”

Un'ora dopo, uscivo dopo aver fatto il più bel compito della mia intera vita. Me lo aveva passato tutto Gabriel, ma pazienza... non sarei certo stata insufficiente.
“Grazie mille, ero davvero in crisi.” dissi, appena ci trovammo al sicuro da orecchie indiscrete, appoggiando la schiena contro il mio armadietto.
Fece spallucce, senza perdere il sorriso: “Per così poco. Comunque piacere, sono Gabriel.” aggiunse, tendendomi la mano.
“Alice, piacere mio.” risposi, arrossendo, e presi la sua mano, stranamente fredda, ma piacevole.
“Alice... che nome carino... senti ti andrebbe di fare sega e farmi vedere la scuola?”
Rimasi un attimo interdetta, e mi guardai attorno, spaesata. La campanella era suonata, e io non me ne ero nemmeno accorta.
Il mio istinto da brava ragazza mi suggeriva di lasciar perdere e tornarmene in classe, che avevo il dovere di affrontare a testa alta gli altri compiti e di prendermi il voto che meritavo, come era giusto che fosse; inoltre, per quanto Gabriel fosse affascinante e divertente, aveva un non so che di spaventoso... mi inquietava un po'.
“Non so... non sono una gran guida, insomma, mi perdo sempre...” dissi, sapendo bene che era vero. Non ricordavo la combinazione dell'armadietto, figurarsi la strada più breve per arrivare alla palestra...
“Ah beh, sto messo male anche io, credimi... nel caso, meglio perdersi in due, no?”
Incontrai i suoi occhi, sorpresa. Mi stava fissando le labbra. Oh cazzo.
Poi rialzò lo sguardo, e ridacchiò, sembrando quasi imbarazzato.
Io non ci capivo più niente.
Nicolas. Pensa a... oh, al diavolo. Il mio cervello era K.O. Avrebbe potuto farmi qualunque cosa, in quel momento.
“Ok, andiamo allora.” dissi, cercando di modulare la voce in modo da non parlare in falsetto.
Si morse il labbro, facendomi rincretinire ancora di più, e si fece da parte:“Prima le signore”.
  
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