- Look Your Falling Star::
- PROLOGO (Welcome Home)
Ricordo ancora la
prima volta che arrivai a Powerell Town.
Avevo dieci anni, gli occhi
lucidi e
arrossati dal pianto, una chioma di capelli rossi perfettamente
ordinati e, per
finire, un completo elegante — regalatomi per
l’occasione e mai messo prima— che
emanava ancora un forte sentore di naftalina.
Almeno una volta l’anno mi toccava
quello strazio: essere costretta a travestirmi e acconciarmi come una
bambola
di porcellana della peggior specie, di quelle che ti guardano in modo
inquietante dagli scaffali e sembrano lanciarti mute minacce di morte,
tutto solo
per essere presentabile o ridicolamente graziosa e anche, diciamoci la
verità, per
fare un po’ pena.
Come se essere etichettata orfana — o trovatella, nel
peggiore dei
casi— non fosse già un biglietto da visita
alquanto controproducente per la mia
felicità.
“Mi
chiamo Aria Faith Lewis e sono una
trovatella... OPS! Orfana. Si dice orfana..!”
Desideravo solo strapparmi di dosso
quel ridicolo vestito azzurro, magari ridurlo in mille pezzettini per
assicurarmi di non doverlo mai più rivedere, e gettarlo
nella pattumiera senza
rimpianti.
Infine, proprio come la peggiore delle
bambole, avevo due sciocche rosse dipinte sulle gote, riprodotte col
trucco per
rendere le mie guance invitanti, strapazzabili al punto giusto. Che orrore.
E poi coprivano le mie lentiggini.
Io
amavo le mie lentiggini!
Le portavo a testa alta e con
orgoglio, erano sempre state il marchio di riconoscimento che il
più delle
volte mi aveva distinto dalle altre bambine... ma a pensarci bene le
bambole di
porcellana non avevano le lentiggini, erano impeccabili nel loro
incarnato
perfettamente candido, le ciglia lunghe e incurvate con maestria
decoravano gli
occhi rilucenti,
vitrei e inespressivi. Le
labbra rosee e lucide di rossetto arcuate in un sorriso statico,
così diverso
dalla piega livida e altrettanto statica che le mie labbra avevano
preso a
furia di imbronciarmi.
Hanna
mi aveva detto di stare calma.
E da quando io davo importanza a quello
che Hanna diceva?
Vedevo
le strade scorrere velocemente
dal finestrino abbassato. Le villette candide come la neve si
riflettevano nei
miei occhi verdi come strutture precarie nella loro bellezza, pronte a
franare
da un momento all’altro come puri castelli di sale e ghiaccio
dismessi dalle
intemperie. Le strade erano costeggiate da entrambi i lati da
staccionate alte
a delimitare le abitazioni; alberi sempre più radi,
minacciati dall’inverno
rigido, erano scossi dal vento e lasciavano volar via le foglie
autunnali, che
si sparpagliavano sull’asfalto, creando un tappeto di
sfumature sovrapposte.
All’orizzonte il sole stava calando, inghiottendo tutto in
una bolla di
silenzio e quiete irreale.
Odiavo il silenzio.
Metteva tutti i miei sensi in allerta.
Allontanai
quell’assurda ipotesi quasi
subito, scuotendo la testa vigorosamente, come a scacciare una mosca
fastidiosa.
Hanna, alla guida, mi lanciava occhiate
truci a intervalli di pochi minuti mentre masticava delle caramelle
gommose, che
pescava da una busta adagiata sul cruscotto. La sua mascella era sul
punto di
slogarsi per le mirabolanti imprese richieste alla masticazione, ne ero
certa.
Aveva la grazia e l’eleganza di un cammello prima che sputi,
con tutto il
rispetto per i cammelli che sono esseri così simpatici.
Fin dal primo, sfortunatissimo incontro
con quella donna, i suoi occhi erano diventati un incubo per me.
Davvero, poco
mancava che me li sognassi anche di notte.
Nella mia fantasia i suoi
bulbi oculari
sparavano raggi laser letali.
Per questo apparivano sempre così
inquietanti: ostili e dal colore del ghiaccio putrido, acquosi e
perennemente
fuori dalle orbite in un’espressione scioccata — o
sciocca, che per lei era lo
stesso—. Quel giorno però sembrava quasi felice:
era chiaro che non vedeva
l’ora di liberarsi di me, di nuovo. Fremeva
all’idea di non dover mai più
occuparsi di una bambina tanto indisponente, e troppo, troppo sveglia
per i
suoi gusti. A quei tempi la mia considerazione degli assistenti sociali
non era
per niente buona: non li vedevo come angeli custodi, l’unica
speranza per un’orfana
di trovare una famiglia, ma, piuttosto, come mostri di prima categoria.
E, a ragion di questo, dovevo ammettere
che questo pensiero era basato principalmente sul fatto che a me era
capitata
la peggiore di tutte: Hanna Dallawer.
O anche “Gozzilla”, come la immaginavo
nella mia testa quando si arrabbiava.
Distolsi lo sguardo da lei e appoggiai
la guancia paffuta al finestrino.
Le lacrime si condensarono alla brina
sciolta e colarono giù a picco.
Già
il suo stile di guida si oscillava da “Alla scuola guida era
la teoria il mio
forte, non certo la pratica!” a “Ho comprato la
patente sottobanco perché sono
stata bocciata vent’anni fa all’esame di guida,
contenta?”.
La
guardai di sbieco e sbuffai, fino a smuovere i suoi capelli,
sputacchiando qua
e là sul suo viso accidentalmente. Hanna sterzò
di botto e accostò l’auto al
marciapiede, prima di sfilarsi gli occhiali, gettarli furiosamente sul
sedile
posteriore, ripulirsi il viso al meglio con il dorso della mano,
afferrarmi con
violenza le braccia puntando infine i suoi raccapriccianti occhi alla
mia
vista.
Un
brivido mi percorse la schiena.
Così
dicendo con uno strattone mi liberai dalla sua presa ferrea,
massaggiandomi i
polsi doloranti.
«Non
è andata bene perché sei stata tu a volere che
non funzionasse, sei sempre
stata tu. L’ultima
famiglia che ti ha
ospitato mi ha richiamato dopo soli due giorni, di notte, pregandomi di
venirti
a riprendere d’urgenza. Non so se il tuo cervello
è in grado di registrare
quest’informazione e di capirne la gravità. Due
giorni, in così poco tempo li
hai quasi fatti impazzire».
E, ripeto, nel caso non abbiate capito bene: sotto i baffi.
Con uno spintone violento mi scaraventò sul sedile,
bloccandomi
con la cintura di sicurezza.
Fu inutile opporre resistenza.
«Qualcos’altro?
Devo anche smettere di respirare?»
«Se è
possibile... »
Avevo
solo dieci anni ma ero sveglia. Troppo.
Avrei
volentieri ceduto la mia testardaggine, la mia aggressività,
la mia diffidenza,
in cambio di tutto ciò che mi ero persa negli anni:
un’infanzia serena, la
spensieratezza tipica dei bambini, la fiducia negli adulti. E, infine,
carezze
e abbracci come solo una madre e un padre sanno dare... o, almeno,
immaginavo
fosse così.
Lo
scambio di battute mi aveva sfinita, così accettai
l’invito a starmene un po’
zitta. Dopotutto Hanna era davvero il tipo di persona da imbavagliare
la gente,
meglio non rischiare.
Camminavo
un passo dietro di lei, sentendomi ridicola nel mio vestito azzurro
tutto
fiocchi e trine.
La
casa che appariva alla mia vista era piccola e nivea, identica a quella
di
tutto il resto del vicinato. Dalle finestre si potevano intravedere i
drappeggi
delle tende ricamate in pizzo, illuminate dalla luce tenue di un
camino. Il
tetto era spiovente e la veranda era colma di vasi in fiore, in mezzo
ai quali
si distinguevano due sedie a dondolo, una più grande,
l’altra più piccola.
Strizzai
gli occhi dalla paura, incominciai a scalciare, graffiare, mordere.
Sembravo un
animale braccato e rinchiuso in gabbia. Quando sentii
l’appoggio sotto le
piante dei piedi mi calmai e, lentamente, aprii gli occhi.
Una signora piuttosto anziana,
ma neanche
troppo, mi guardava dall’alto in basso mentre si ripuliva le
mani sul grembiule
di spugna rosso che indossava. Un sorriso divertito sulle labbra le
faceva
brillare gli occhi limpidi.
I capelli argentei erano
raccolti in una
treccia ordinata, fissata sulla nuca in uno chignon elegante, le gote
paffute e
rosee. Quando la sua mano sfiorò la mia guancia, mimando una
timida carezza
appena accennata, un profumo di biscotti mi annebbiò per un
attimo la mente, e
fece rumoreggiare violentemente il mio stomaco.
Lei piangeva...
per me?
Nessuno aveva mai
pianto per me, se non per disperazione!
«Prego, accomodatevi!» squittì
l’anziana
signora, incoraggiandoci a entrare.
Ci fece strada fino a una piccola e graziosa cucina
arredata con
buongusto e mi invitò ad accomodarmi su una poltrona. Lei
doveva sbrigare le
ultime faccende burocratiche con la mia assistente sociale,
così mi aveva
detto.
Io
aspettavo, come un pacchetto regalo da scartare solo alla fine della
festa.
Poco
male, pensai. Se bastava così poco a impressionarla non era
decisamente fatta
per me.
«Posso
chiamarti così? Ma certo che posso chiamarti
così! Sono più che sicura di
riuscire a tenere tutto sotto controllo, prendo il biglietto da visita
solo per
cortesia, provvederò in seguito a gettarlo nella pattumiera.
Non ti far
ingannare dal mio aspetto, ragazza, in questo piccolo corpo
c’è la forza e
l’energia che molte ventenni non hanno.»
Hanna
sembrò ferita nell’orgoglio, ma allo stesso tempo
arricciò le labbra per non
scoppiarle a riderle in faccia.
«Allora
non c’è più niente che dobbiamo dirci,
presumo.»
Poi
si volse verso di me: «Buona Fortuna» mi disse.
«Trovati
un marito!» fu la mia risposta, e il modo in cui lo dissi
fece ridere Penelope.
Hanna
gettò un’occhiata in tralice a me e a lei, prima
di scuotere la testa stizzita,
rimettere a posto i documenti nella valigetta, mimare un saluto di
circostanza col
capo e sparire oltre la porta. Uscì dalla mia vista come
dalla mia vita, da
quel giorno non la rividi mai più.
Eccome
se avevo fame.
Ma
ricevere la sua cortesia significava stare al gioco.
Significava
fare la brava e la voce glaciale di
Hanna sembrava ancora richiamare il suo eco nelle mie orecchie. “Fai la brava o ti sbatteranno in un buco
senza uscita”. La mano raggiunse i biscotti quasi
istintivamente, i
polpastrelli affondarono nella superficie porosa e ancora calda e,
massaggiandomi lo stomaco, iniziai a pregustare con gli occhi e con
l’olfatto
quella delizia; poi qualcosa cambio: la paura
s’impossessò di me come un tarlo
fastidioso nella testa. Con uno scatto fulmineo feci volare il piatto,
che s’infranse
contro il pavimento, riempiendo i biscotti al cioccolato di schegge di
acuminata porcellana.
Anche lei mi
voleva avvelenare?
Guardai
il suo viso alla ricerca di un indizio inconfutabile della sua colpa:
gli occhi
erano lucidi e spalancati dalla sorpresa, le mani ebbero un fremito di
paura
che i miei occhi riuscirono a captare, prima che le nascondesse
lestamente nel
grembiule.
Ero
impazzita, come potevo pensare una cosa del genere?
Forse
un centro sociale ri-educativo era quello che mi serviva davvero.
Presi
a ispezionarmi le unghie con dedita attenzione pur di non incrociare il
suo
sguardo, aspettando una reazione che tardava ad arrivare.
Forse
Hanna non era troppo lontana da lì, richiamarla per farmi
venire a prendere non
era un’idea da escludere.
Assurdo!
Gli avevo appena rotto un piatto contro il pavimento e lei sorrideva.
Questa
era più pazza di me, avevo decisamente
trovato una situazione alla mia portata.
La
bocca impastata e arida, le labbra serrate.
Cosa
mi stava succedendo?
Lei
era una donna buona, potevo leggerlo nei suoi occhi.
Bastava
così poco a troncare ogni mia resistenza?
Guardandomi
intorno mi sentivo paralizzata, cercavo di appigliarmi a qualsiasi
difetto
i miei occhi potessero trovare nella casa, nella donna che avevo di
fronte pur di ritornare la me che conoscevo. L’unica su cui
potevo contare veramente.
Pfff,
che sciocchezze, l’amore... beato chi ci credeva.
Avevo
vissuto dieci anni senza amore, ed ero venuta su bene lo stesso...
più o meno.
Ero
alle strette, senza scampo.
Avevo
perso, avevo gettato le armi e sventolato bandiera bianca.
Tornai
a guardare Penelope.
Forse, dovevo ammetterlo,
se mai avessi avuto una nonna me la sarei immaginata simile: con un
viso cuoriforme,
le mani rugose e profumate di cose buone, una mente sveglia e geniale,
uno
spirito giovane in un corpo mutato dal tempo.
Anche
il piano di liberarmi del mio vestito scaricandolo nel water si
dissolse
miseramente in un puff. Sbuffai
sonoramente e incrociai le braccia al petto prima di dire:
«Giuro a me stessa
che appena compio diciotto anni faccio la valigia e me ne
vado!»
Questa
voleva essere una minaccia. La mia ultima carta da giocare.
Lei
sorrise dolcemente, mentre gettava nella pattumiera i cocci raccolti
dal
pavimento.
«Powerell-che?»
«Niente,
gioia mia. Solo il tempo saprà darci risposte».
«L’ho
promesso a me stessa! Mi stai sfidando, forse? Io non cambio idea, ne
sono
certa» provai a insistere, cercando una convinzione che si
era volatilizzata.
La
voce mi si era rotta mentre pronunciavo quelle parole.
Tossii
rumorosamente per ovviare alla mia debolezza.
Una
scritta in stampatello recitava: BENVENUTA
A CASA!
Calore.
Amore.
Casa.
La
mia sicurezza era rovinata al suolo miseramente, spogliandomi da ogni
scudo
protettivo.
Era
il mio decimo compleanno e io stavo rinascendo
a miglior vita.