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Autore: _FrenkieFaye_    03/03/2013    2 recensioni
In guerra, Marie Howell dà alla luce una bambina, mentre attorno la terra trema e le vite si accartocciano su se stesse, rotolando placide verso la morte; è proprio dagli occhi della loro bambina, Aria, che la storia viene raccontata, anni dopo.
Ignara delle sue origini, del suo passato. Diciott'anni dopo Wondlake è di nuovo in pericolo, minacciata da una seconda guerra che si prospetta più dolente e feroce della precedente.
Fazioni opposte pronte a contendersi il potere per intenti diversi.
E tra tutto l'orrore, sconcerto, dolore e disprezzo, dei germogli timorosi crescono: amicizie pronte a cambiare tutto, a riscrivere la storia. Un amore impossibile. Delle perdite incolmabili.
Gideon, Lewis, Green e Trendolf ancora insieme, come l’ultima volta.
Questa è la storia di Aria Faith Lewis: la bambina nata in guerra, tornata alla guerra per vivere.
Genere: Fantasy, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Look Your Falling Star::
PROLOGO (Welcome Home)

 Ricordo ancora la prima volta che arrivai a Powerell Town.
Avevo dieci anni, gli occhi lucidi e arrossati dal pianto, una chioma di capelli rossi perfettamente ordinati e, per finire, un completo elegante — regalatomi per l’occasione e mai messo prima— che emanava ancora un forte sentore di naftalina.
Almeno una volta l’anno mi toccava quello strazio: essere costretta a travestirmi e acconciarmi come una bambola di porcellana della peggior specie, di quelle che ti guardano in modo inquietante dagli scaffali e sembrano lanciarti mute minacce di morte, tutto solo per essere presentabile o ridicolamente graziosa e anche, diciamoci la verità, per fare un po’ pena.
Come se essere etichettata orfana — o trovatella, nel peggiore dei casi— non fosse già un biglietto da visita alquanto controproducente per la mia felicità.

“Mi chiamo Aria Faith Lewis e sono una trovatella... OPS! Orfana. Si dice orfana..!”

Mi scrutavo nello specchietto retrovisore furtivamente, mentre l’auto incedeva nella sua corsa spericolata, inchiodandomi al sediolino. Non mi riconoscevo. Non sembravo nemmeno più io: troppo ordinata, troppo pulita, profumata perfino.
Desideravo solo strapparmi di dosso quel ridicolo vestito azzurro, magari ridurlo in mille pezzettini per assicurarmi di non doverlo mai più rivedere, e gettarlo nella pattumiera senza rimpianti.
Infine, proprio come la peggiore delle bambole, avevo due sciocche rosse dipinte sulle gote, riprodotte col trucco per rendere le mie guance invitanti, strapazzabili al punto giusto. Che orrore.
E poi coprivano le mie lentiggini.

Io amavo le mie lentiggini!
Le portavo a testa alta e con orgoglio, erano sempre state il marchio di riconoscimento che il più delle volte mi aveva distinto dalle altre bambine... ma a pensarci bene le bambole di porcellana non avevano le lentiggini, erano impeccabili nel loro incarnato perfettamente candido, le ciglia lunghe e incurvate con maestria decoravano gli occhi  rilucenti, vitrei e inespressivi. Le labbra rosee e lucide di rossetto arcuate in un sorriso statico, così diverso dalla piega livida e altrettanto statica che le mie labbra avevano preso a furia di imbronciarmi.

Dovevo stare calma.

Hanna mi aveva detto di stare calma.
E da quando io davo importanza a quello che Hanna diceva?

Vedevo le strade scorrere velocemente dal finestrino abbassato. Le villette candide come la neve si riflettevano nei miei occhi verdi come strutture precarie nella loro bellezza, pronte a franare da un momento all’altro come puri castelli di sale e ghiaccio dismessi dalle intemperie. Le strade erano costeggiate da entrambi i lati da staccionate alte a delimitare le abitazioni; alberi sempre più radi, minacciati dall’inverno rigido, erano scossi dal vento e lasciavano volar via le foglie autunnali, che si sparpagliavano sull’asfalto, creando un tappeto di sfumature sovrapposte. All’orizzonte il sole stava calando, inghiottendo tutto in una bolla di silenzio e quiete irreale.

Odiavo il silenzio. Metteva tutti i miei sensi in allerta.
“Magari potrei tentare la fuga, aprire la portiera mentre l’auto è in corsa e ruzzolare giù.”
Allontanai quell’assurda ipotesi quasi subito, scuotendo la testa vigorosamente, come a scacciare una mosca fastidiosa.
Hanna, alla guida, mi lanciava occhiate truci a intervalli di pochi minuti mentre masticava delle caramelle gommose, che pescava da una busta adagiata sul cruscotto. La sua mascella era sul punto di slogarsi per le mirabolanti imprese richieste alla masticazione, ne ero certa. Aveva la grazia e l’eleganza di un cammello prima che sputi, con tutto il rispetto per i cammelli che sono esseri così simpatici. Per fortuna, almeno, oggi aveva indossato gli occhiali con le lenti scure.
Fin dal primo, sfortunatissimo incontro con quella donna, i suoi occhi erano diventati un incubo per me. Davvero, poco mancava che me li sognassi anche di notte.
Nella mia fantasia i suoi bulbi oculari sparavano raggi laser letali.
Per questo apparivano sempre così inquietanti: ostili e dal colore del ghiaccio putrido, acquosi e perennemente fuori dalle orbite in un’espressione scioccata — o sciocca, che per lei era lo stesso—. Quel giorno però sembrava quasi felice: era chiaro che non vedeva l’ora di liberarsi di me, di nuovo. Fremeva all’idea di non dover mai più occuparsi di una bambina tanto indisponente, e troppo, troppo sveglia per i suoi gusti. A quei tempi la mia considerazione degli assistenti sociali non era per niente buona: non li vedevo come angeli custodi, l’unica speranza per un’orfana di trovare una famiglia, ma, piuttosto, come mostri di prima categoria.
E, a ragion di questo, dovevo ammettere che questo pensiero era basato principalmente sul fatto che a me era capitata la peggiore di tutte: Hanna Dallawer.
O anche “Gozzilla”, come la immaginavo nella mia testa quando si arrabbiava.
Distolsi lo sguardo da lei e appoggiai la guancia paffuta al finestrino.
Le lacrime si condensarono alla brina sciolta e colarono giù a picco.

«Portami indietro! Io non voglio, mi hai capito?».
Lei mi ascoltò con aria annoiata, continuando a masticare strafottente. Quasi sperai che gli andasse di traverso una caramella gommosa e la strozzasse fatalmente, poi mi ricordai di essere un passeggero della sua auto, il momento giusto del suo decesso non era certo legato al mio.
Già il suo stile di guida si oscillava da “Alla scuola guida era la teoria il mio forte, non certo la pratica!” a “Ho comprato la patente sottobanco perché sono stata bocciata vent’anni fa all’esame di guida, contenta?”.
La guardai di sbieco e sbuffai, fino a smuovere i suoi capelli, sputacchiando qua e là sul suo viso accidentalmente. Hanna sterzò di botto e accostò l’auto al marciapiede, prima di sfilarsi gli occhiali, gettarli furiosamente sul sedile posteriore, ripulirsi il viso al meglio con il dorso della mano, afferrarmi con violenza le braccia puntando infine i suoi raccapriccianti occhi alla mia vista.

Un brivido mi percorse la schiena.

«Se la cosa dipendesse esclusivamente da me, ti scaricherei anche qua, nel bel mezzo del nulla. Il mio compito però è un altro, non mi pagano per vedere realizzati i miei sogni più reconditi, purtroppo». Nella sua voce, dall’accento fortemente dell’Est, era percepibile un margine di rammarico; non scherzava affatto quando diceva che mi avrebbe lasciata per strada senza remore, a vagare come un cane abbandonato.

«Per quanto possa sembrarti strano c’è ancora qualcuno intenzionato ad adottarti. Abbiamo accolto questa richiesta in ufficio ben un mese fa, e solo Dio sa quanto ci è voluto perché tutto fosse pronto per questo incontro. Dovresti solo essere riconoscente... per tanta incoscienza! Se continui a combinare guai lo sai cosa succederà, vero? Finirai in un istituto fino alla maggiore età. Un bel trampolino di lancio se vuoi diventare un’alcolista, una drogata, una ragazza madre... o se vuoi intraprendere la professione della prostituta. Quindi fammi fare il mio lavoro e... »

Fai la brava?

 «... e fai la brava!»

«Io non sono una merce difettosa da passare di mano in mano» sbottai, avvicinandomi pericolosamente al suo viso, prima di continuare: «ci ho già provato altre volte, non è andata bene, MAI, nemmeno una maledetta volta! E non vedo perché adesso dovrebbe essere diverso».
Così dicendo con uno strattone mi liberai dalla sua presa ferrea, massaggiandomi i polsi doloranti.

«Non è andata bene perché sei stata tu a volere che non funzionasse, sei sempre stata tu. L’ultima famiglia che ti ha ospitato mi ha richiamato dopo soli due giorni, di notte, pregandomi di venirti a riprendere d’urgenza. Non so se il tuo cervello è in grado di registrare quest’informazione e di capirne la gravità. Due giorni, in così poco tempo li hai quasi fatti impazzire».

«E loro stavano facendo impazzire me. E hanno anche tentato di avvelenarmi! Io sono allergica ai pomodori, dovevamo almeno prendersi la briga di leggere il mio fascicolo prima di cucinare per me», mi difesi, incrociando le braccia sul petto.

«E tu hai tentato di appiccare il fuoco alla loro cucina, ti sembra una reazione... non so... ponderata?», incalzò lei.

«Non è ponderata, o normale, non ho mai detto che lo sia, ma erano degli idioti, chi permette a questa gente di prendere in affido un bambino? Non ci dovrebbe essere una specie di selezione, dei controlli? Un’intossicazione alimentare non è una cosa da prendere sottogamba, e se succedesse qualcosa? Di chi sarebbe poi la colpa? Degli assistenti sociali incompetenti?»

«I controlli sono effettuati accuratamente» m’interruppe, rimettendo in moto e accelerando di botto, facendo così stridere le gomme sull’asfalto. «Sei tu che sei un caso disperato» continuò, nascondendo un sorrisino compiaciuto sotto i baffi.
E, ripeto, nel caso non abbiate capito bene: sotto i baffi.
Con uno spintone violento mi scaraventò sul sedile, bloccandomi con la cintura di sicurezza.
Fu inutile opporre resistenza.

«E smettila di muoverti... e parlare, mi stai facendo impazzire».
«Qualcos’altro? Devo anche smettere di respirare?»
«Se è possibile... »
Avevo solo dieci anni ma ero sveglia. Troppo.
Avrei volentieri ceduto la mia testardaggine, la mia aggressività, la mia diffidenza, in cambio di tutto ciò che mi ero persa negli anni: un’infanzia serena, la spensieratezza tipica dei bambini, la fiducia negli adulti. E, infine, carezze e abbracci come solo una madre e un padre sanno dare... o, almeno, immaginavo fosse così.

«Ma come pretendi di trovare una famiglia a me quando tu sei la prima a esser sola? Non hai un compagno, non hai un figlio, eppure la mezz’età è bella che andata. Scommetto che non hai neanche un cane o un gatto, neanche loro ti sopporterebbero. Troverebbero il modo per sostituire il pollice opponibile e chiamare la protezione animali, ne sono certa. Questa poi è solo la cornice: il grosso è che sei anche una racchia. Non hai neanche la simpatia a compensare... pensandoci bene stai messa pure peggio di me!»

«Chiudi il becco o t’imbavaglio fino a quando non arriviamo».
Lo scambio di battute mi aveva sfinita, così accettai l’invito a starmene un po’ zitta. Dopotutto Hanna era davvero il tipo di persona da imbavagliare la gente, meglio non rischiare.

Arrivammo a First High Street numero dodici a sera inoltrata, quando  il sole era completamente calato. Fuori dalle abitazioni i lampioni si accendevano uno a uno, stagliandosi nel buio come lucciole giganti nella notte. Con un gesto veloce Gozzilla mi liberò dalla cintura di sicurezza e mi fece scendere, aprendomi la portiera. Tentò di afferrarmi la mano, sempre con la delicatezza di uno scimmione, ma la strattonai con un’espressione schifata sul viso.
Camminavo un passo dietro di lei, sentendomi ridicola nel mio vestito azzurro tutto fiocchi e trine.
La casa che appariva alla mia vista era piccola e nivea, identica a quella di tutto il resto del vicinato. Dalle finestre si potevano intravedere i drappeggi delle tende ricamate in pizzo, illuminate dalla luce tenue di un camino. Il tetto era spiovente e la veranda era colma di vasi in fiore, in mezzo ai quali si distinguevano due sedie a dondolo, una più grande, l’altra più piccola.
Quando la porta dell’abitazione si spalancò, mi nascosi dietro le gambe di Hanna, impaurita. Lei mi afferrò per le braccia, trasportandomi di peso presso la soglia della veranda.
Strizzai gli occhi dalla paura, incominciai a scalciare, graffiare, mordere. Sembravo un animale braccato e rinchiuso in gabbia. Quando sentii l’appoggio sotto le piante dei piedi mi calmai e, lentamente, aprii gli occhi.
Una signora piuttosto anziana, ma neanche troppo, mi guardava dall’alto in basso mentre si ripuliva le mani sul grembiule di spugna rosso che indossava. Un sorriso divertito sulle labbra le faceva brillare gli occhi limpidi.
I capelli argentei erano raccolti in una treccia ordinata, fissata sulla nuca in uno chignon elegante, le gote paffute e rosee. Quando la sua mano sfiorò la mia guancia, mimando una timida carezza appena accennata, un profumo di biscotti mi annebbiò per un attimo la mente, e fece rumoreggiare violentemente il mio stomaco.

 Lei stava piangendo.
Lei piangeva... per me?
Nessuno aveva mai pianto per me, se non per disperazione!

«Ti stavo aspettando» disse con la voce che tremava, quasi ignorando la presenza di Hanna al mio fianco — che, con un sorriso stampato a forza sulle labbra, stava facendo sfoggio di tutta la sua forza di volontà pur di sembrare contenta e cordiale—.
«Prego, accomodatevi!» squittì l’anziana signora, incoraggiandoci a entrare.

Ci fece strada fino a una  piccola e graziosa cucina arredata con buongusto e mi invitò ad accomodarmi su una poltrona. Lei doveva sbrigare le ultime faccende burocratiche con la mia assistente sociale, così mi aveva detto.
«Mille scartoffie da firmare e controfirmare... Aaah, non si finisce mai! Tutte queste formalità dettate dalla prassi, è proprio necessario, mi chiedo io? » si lamentò dopo il trentesimo foglio che Hanna gli allungò, scricchiolando la mano che impugnava la penna e scoccando un occhiolino e un sorriso dalla mia parte.
Io aspettavo, come un pacchetto regalo da scartare solo alla fine della festa.

«La situazione è disperata, signora Penelope... inutile cercare di indorare la pillola. Lei è, per questa bambina, l’ultima spiaggia, dopodiché il caso passerà a un ufficio estraneo al nostro e, visti i precedenti, è fortemente improbabile che continuino a cercare qualcuno che se ne possa occupare. Non rimarrebbe altro che accoglierla in un istituto fino alla maggiore età» disse Hanna, con aria falsamente dispiaciuta. «In ogni caso... lei non si senta obbligata in alcun modo a tenere la bambina... questo è il mio numero» disse, allungandole un cartoncino bianco leggermente spiegazzato. «Un solo squillo e sarò qui da lei, preleveremo la piccola e la porteremo momentaneamente, fino a miglior sistemazione, in un centro sociale ri-educativo. Dopotutto lei ha una certa età... stare dietro  ai capricci di una bambina impenitente non è un’impresa facile. Comporta un dispendio di energie e una forza non trascurabile».
Neanche io volevo più avere niente a che fare con Hanna, presto non avrei più saputo tenere a freno la mia lingua lunga e allora le avrei risposto a tono. La frase che avrei pronunciato sarebbe balzata subito agli occhi di Penelope come un’intimidazione bella e buona, inducendola a retrocedere dalla convinzione di tenermi con sé.
Poco male, pensai. Se bastava così poco a impressionarla non era decisamente fatta per me.
«Non si preoccupi, Hannabel, giusto?» chiese Penelope, fissando il bigliettino da visita spiegazzato.
«Posso chiamarti così? Ma certo che posso chiamarti così! Sono più che sicura di riuscire a tenere tutto sotto controllo, prendo il biglietto da visita solo per cortesia, provvederò in seguito a gettarlo nella pattumiera. Non ti far ingannare dal mio aspetto, ragazza, in questo piccolo corpo c’è la forza e l’energia che molte ventenni non hanno.»
Hanna sembrò ferita nell’orgoglio, ma allo stesso tempo arricciò le labbra per non scoppiarle a riderle in faccia.
«Allora non c’è più niente che dobbiamo dirci, presumo.»
Poi si volse verso di me: «Buona Fortuna» mi disse.
«Trovati un marito!» fu la mia risposta, e il modo in cui lo dissi fece ridere Penelope.

Hanna gettò un’occhiata in tralice a me e a lei, prima di scuotere la testa stizzita, rimettere a posto i documenti nella valigetta, mimare un saluto di circostanza col capo e sparire oltre la porta. Uscì dalla mia vista come dalla mia vita, da quel giorno non la rividi mai più.

«Hai fame?» mi chiese prontamente Penelope, allungandomi un piatto di ceramica con un gran sorriso, offrendomi una piacevole pausa dai miei pensieri.
Eccome se avevo fame.
Ma ricevere la sua cortesia significava stare al gioco.

Significava fare la brava e la voce glaciale di Hanna sembrava ancora richiamare il suo eco nelle mie orecchie. “Fai la brava o ti sbatteranno in un buco senza uscita”. La mano raggiunse i biscotti quasi istintivamente, i polpastrelli affondarono nella superficie porosa e ancora calda e, massaggiandomi lo stomaco, iniziai a pregustare con gli occhi e con l’olfatto quella delizia; poi qualcosa cambio: la paura s’impossessò di me come un tarlo fastidioso nella testa. Con uno scatto fulmineo feci volare il piatto, che s’infranse contro il pavimento, riempiendo i biscotti al cioccolato di schegge di acuminata porcellana.

Anche lei mi voleva avvelenare?
Forse Hanna, il mio aguzzino, l’aveva pagata su commissione per farmi fuori, così da liberarsi una volta e per sempre di me.
Guardai il suo viso alla ricerca di un indizio inconfutabile della sua colpa: gli occhi erano lucidi e spalancati dalla sorpresa, le mani ebbero un fremito di paura che i miei occhi riuscirono a captare, prima che le nascondesse lestamente nel grembiule.
Ero impazzita, come potevo pensare una cosa del genere?
Forse un centro sociale ri-educativo era quello che mi serviva davvero.

Lei rimase impietrita per un minuto buono, era palese che non si aspettasse una reazione del genere. Sbatté le palpebre, come ridestata da un sogno ad occhi aperti, e mi fissò attentamente.
Presi a ispezionarmi le unghie con dedita attenzione pur di non incrociare il suo sguardo, aspettando una reazione che tardava ad arrivare.
Forse Hanna non era troppo lontana da lì, richiamarla per farmi venire a prendere non era un’idea da escludere.

Sorrise.
Assurdo! Gli avevo appena rotto un piatto contro il pavimento e lei sorrideva.
Questa era più pazza di me, avevo decisamente  trovato una situazione alla mia portata.

«Che temperamento, gioia mia. Non ti preoccupare... quello faceva parte del servizio di piatti regalatomi da mia sorella Angelica e non vedevo l’ora di sbarazzarmene a dire il vero. Anzi, sai che ti dico? Ti ringrazio. Hai avuto il coraggio di fare una cosa che io stessa desideravo fare da lungo tempo. Dopo finiamo di rompere gli altri insieme, eh? Ma sì, vita nuova, servizio di piatti nuovo!»

Confermato. Avevo trovato qualcuno più svitato di me, ma per la prima volta nella mia vita non ebbi nulla da ridire.
La bocca impastata e arida, le labbra serrate.
Cosa mi stava succedendo?
Lei era una donna buona, potevo leggerlo nei suoi occhi.
Bastava così poco a troncare ogni mia resistenza?
Guardandomi intorno mi sentivo paralizzata, cercavo di appigliarmi a qualsiasi difetto i miei occhi potessero trovare nella casa, nella donna che avevo di fronte pur di ritornare la me che conoscevo. L’unica su cui potevo contare veramente.

Quella che non aveva bisogno di nessuno, tanto meno dell’amore.
Pfff, che sciocchezze, l’amore... beato chi ci credeva.
Avevo vissuto dieci anni senza amore, ed ero venuta su bene lo stesso... più o meno.
Più mi guardavo intorno e più perdevo la ragione.
Ero alle strette, senza scampo.
Avevo perso, avevo gettato le armi e sventolato bandiera bianca.
Tornai a guardare Penelope.
Forse, dovevo ammetterlo, se mai avessi avuto una nonna me la sarei immaginata simile: con un viso cuoriforme, le mani rugose e profumate di cose buone, una mente sveglia e geniale, uno spirito giovane in un corpo mutato dal tempo.

Anche il piano di liberarmi del mio vestito scaricandolo nel water si dissolse miseramente in un puff. Sbuffai sonoramente e incrociai le braccia al petto prima di dire: «Giuro a me stessa che appena compio diciotto anni faccio la valigia e me ne vado!»
Questa voleva essere una minaccia. La mia ultima carta da giocare.
Lei sorrise dolcemente, mentre gettava nella pattumiera i cocci raccolti dal pavimento.

«Oppure potresti cambiare idea. Mai dire mai. Dopotutto siamo a Powerell Town, qui tutto diventa possibile» disse.
«Powerell-che?»
«Niente, gioia mia. Solo il tempo saprà darci risposte».
«L’ho promesso a me stessa! Mi stai sfidando, forse? Io non cambio idea, ne sono certa» provai a insistere, cercando una convinzione che si era volatilizzata.
La voce mi si era rotta mentre pronunciavo quelle parole.
Tossii rumorosamente per ovviare alla mia debolezza.

«Vedremo, vedremo. Come ho già detto, solo il tempo potrà darci le risposte necessarie» aggiunse, prima di indossare i guantoni da cucina e sfornare un’enorme torta ricoperta di glassa azzurra, in tinta perfetta con il mio vestito.
Una scritta in stampatello recitava: BENVENUTA A CASA!
Dentro di me avevo percepito, all’altezza del cuore, qualcosa scivolarmi per tutto il corpo.

Calore.
Amore.

Casa.

La mia sicurezza era rovinata al suolo miseramente, spogliandomi da ogni scudo protettivo.
Era il mio decimo compleanno e io stavo rinascendo a miglior vita.

   
 
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