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Autore: Poison Lover    06/03/2013    1 recensioni
Gerard si girò verso di lui, per poi abbassare lo sguardo subito dopo. - E se io avessi delle cattive abitudini?- chiese, piantando improvvisamente gli occhi in quelli del ragazzo.
Bert si sentì immediatamente a disagio, quegli occhi lo spaventavano. - Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda.- replicò, alzando un sopracciglio, contrariato.
Gerard fece un gesto di noncuranza con la mano. - Da quando ti importa del galateo e delle regole di buona conversazione?- ribatté, vagamente irritato.
- Lascia perdere. Okay, che genere di cattive abitudini? L'alcool? Lo sappiamo tutti ormai, e nemmeno io mi astengo da quest'effimero piacere.-
- Non parlavo di quelle abitudini.-
- Puoi spiegarti meglio? Non ho ancora il dono di leggere nel pensiero. - rispose Bert, lievemente irritato da quello sconclusionato scambio di battute. Gerard spostò lo sguardo altrove, fingendo di interessarsi a una fotografia attaccata con lo scotch alla parete.
- Droga.-
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Gerard Way, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Chapter Thirteen-

Can't be strong in the dark



 
When the light begins to change, I sometimes feel a little strange.
A little anxious when it's dark, fear of the dark, fear of the dark.
I have constant fear that something's always near.
Fear of the dark, fear of the dark.
I have a phobia that someone's always there!
- Fear of the dark, Iron Maiden






Due ore, quarantesette minuti e nove secondi. 
Erano due ore, quarantasette minuti e nove secondi esatti che fingeva di essere interessata al siparietto che quei quattro avevano messo su. 
Dieci secondi, ora. 
Undici.
<< Bert? >> 
Dodici.
Niente, era troppo impegnato a sbraitare in un microfono immaginario. 
Tredici.
Ma forse sbraitare non era proprio il termine più adatto; considerando che era mezzo ubriaco, non se la stava cavando male, era discretamente intonato e aveva una bella voce, abbastanza acuta ma piacevole all'ascolto. 
Quattordici.. No, forse quindici, era rimasta indietro con il conto.
<< Bert.. >> riprovò a chiamarlo, senza ottenere alcun risultato. Gli altri tre sembravano averla sentita, ma continuavano ad ignorarla di proposito. Aveva come l'impressione di non starli molto simpatica.
Sedici, diciassette... Diciotto.
<< Diciannove... >> mormorò senza neanche accorgersene. Fantastico, ora cominciava anche a pensare ad alta voce. O meglio, contare ad alta voce. Ma lei stava pensando mentre contava, o forse contando mentre pensava. No, stava pensando di contare. O contando di pensare... 
Lanciò uno sguardo perplesso al Gin nel suo bicchiere. Forse aveva esagerato anche quella volta. E lei che aveva detto a Gerard di non bere... Ridacchiò al suo stesso pensiero. Ormai aveva perso il conto, il Gin l'aveva distratta. Era sempre colpa del Gin. Cominciava a pensare che fosse la bevanda del diavolo. 
Circa tre ore prima era tornata a casa per ritrovarsi Jepha, Quinn e un tipo sconosciuto, biondo ed enorme, con un accenno di barbetta e una vaga somiglianza con un orso, seduti sul divano a bere birra. Sul suo divano, per l'esattezza. Il nuovo arrivato si era alzato, con una parvenza di educazione, le aveva stretto la mano con vigore e aveva biascicato un nome che lei non aveva capito; poi era tornato a sedersi come se niente fosse. A sedersi sul suo divano. A sedersi sul suo lato del suo divano. Gli altri due l'avevano salutata con un apparentemente allegro cenno della mano, e Bert si era scusato con lo sguardo, implorandola con gli occhi di non dire nulla di strano o di cacciarli via. Avevano cenato con una pizza portata da un fattorino dall'aria antipatica che aveva dovuto pagare lei con i suoi soldi, e poi si erano barricati in camera di Bert con le loro chitarre. No, definirle entrambe chitarre sarebbe orribilmente errato, come le aveva gentilmente fatto notare Jepha. Stava per picchiarla con il suo preziosissimo basso. L'avevano costretta a farli da pubblico e si erano appropriati di una bottiglia di Gin. La sua bottiglia di Gin. Che Bert aveva trovato nella sua stanza, sotto il suo letto. L'unica cosa positiva di tutto quello, era che almeno poteva bere senza dover sorbirsi le ramanzine di Bert. 
Chissà quanto tempo era passato dall'ultimo secondo che aveva contato. Sicuramente più di tre minuti. Molto probabilmente era mezzanotte meno dieci, i secondi non erano importanti. Non era a mezzanotte che Cenerentola tornava a casa? Magari funzionava anche con quei tre. Non ne poteva più, voleva solo tornarsene nella sua stanza, affondare nel letto insieme alla sua bottiglia di Gin e leggere qualcosa fino a che non sarebbe stata troppo ubriaca per distinguere le lettere. Lo faceva spesso, era un buon passatempo. O almeno lo era fino a che non vomitava sulle pagine del suo libro preferito.
Bevve tutto d'un sorso il Gin rimasto nel bicchiere. Pensò a Gerard, alla breve discussione di poche ore prima. Non lo capiva, non ci riusciva proprio. L'aveva baciata, un bacio vero, ma lei cominciava a sospettare che fosse ubriaco; non era possibile che prima le diceva quelle cose che per poco non la facevano scoppiare in lacrime, e dopo la trattava in quel modo. Ne aveva basta di quei continui sbalzi di umore, sembrava una ragazzina in crisi premestruale. 
<< Che si decida, quel coglione... >> borbottò a mezza voce, riempendosi il bicchiere. La sua Ginny si stava tristemente svuotando... Avrebbe dovuto comprarne un'altra. Merda, aveva quasi finito le scorte personali, e il suo precario e misero conto in banca non era compreso nel budget per l'alcool. Forse si sarebbe dovuta trovare un lavoro dopo la scuola. 
<< Hey Elly, che te ne pare? >> 
Quella voce le rimbombò nella testa per qualche secondo. Alzò lo sguardo, frastornata. << Eh? >> 
Jepha scoppiò a ridere. Chissà cosa ci trovava di così divertente, fino a prova contraria il bassotto con la chitarra non era lei. Oh, il basso. 
<< Ti abbiamo chiesto se ti sono piaciute le canzoni. >> ripeté il ragazzo nuovo, quello che sarebbe dovuto essere il batterista. Si chiese perché se lo fossero portato dietro, se intanto non avevano una batteria -ovviamente- in quella stanza; per tutto quel tempo, aveva solo tenuto il tempo con un paio di bacchette in legno sul bordo della scrivania. Oh, sì, estremamente utile.
Ellison ci pensò un attimo su. Le erano piaciute? No, domanda sbagliata. Le aveva ascoltate? 
Concentrati Elly.
Non lo sapeva, a dire la verità. Era da ore che suonavano e cantavano, fermandosi dopo ogni 'canzone' per scolarsi qualche bottiglia di birra o rubare sorsi dalla sua Ginny. Era difficile stare a sentirli, poi, quando loro erano i primi a non ascoltare lei; aveva passato ben sette secondi a chiamare Bert ripetutamente, senza ricevere nemmeno uno straccio di risposta. Quindi non aveva motivo di sentirsi in colpa per non averli minimamente calcolati. Alzò lo sguardo su Bert. Sembrava euforico, con le guance arrossate dall'alcool e un sorriso ebete stampato in faccia. Improvvisamente, non se la sentì di deluderlo; le sarebbe dispiaciuto, dopotutto Bert aveva un bel sorriso.
<< Uhm >> deglutì, cercando le parole. Perché il Gin non l'aiutava, ora? Di solito l'alcool la rendeva loquace.
Andiamo Ginny, non fare la stronza.
<< Be... >> tentennò, guardando i ragazzi con un'espressione letteralmente disperata. << Siete forti, insomma, non so, ma... >> 
<< Elly dice che siamo forti, ragazzi! >> sbraitò Quinn, saltandole praticamente addosso, abbracciandola, o meglio, stritolandola. Tra tutti, lui sembrava quello messo peggio, seppur non avesse bevuto molto. 
Si liberarono del basso e della chitarra, staccandoli dai piccoli amplificatori, e si sedettero per terra, recuperando qualche bottiglia non del tutto vuota e provvedendo diligentemente a svuotarla. 
Ellison rimase al suo posto, vicino al letto di Bert, con a fianco la sua bottiglia. Non vedeva l'ora che quei quattro se ne andassero, ne aveva davvero fin sopra i capelli delle loro stupide risate sguaiate e dei commenti poco fini che il tipo nuovo continuava a rifilarle. Era irritante e altamente snervante, era sicura che se avesse continuato ancora per molto gli avrebbe spaccato Ginny in testa. Quasi si sentì in colpa a quel suo stesso pensiero, e si girò verso la bottiglia, guardandola con compassione, come a scusarsi. No, non l'avrebbe mai fatto, Ginny ormai era sua amica. 
E l'alcool ormai era arrivato al sistema nervoso. 
<< Senti, dolcezza >> iniziò il biondo, ridendo ad ogni parola. Era palesemente ubriaco, come tutti, d'altronde. << Ce l'hai il ragazzo? >> le chiese, puntando gli occhi chiari nei suoi, in attesa che rispondesse. Ellison lo fissò sconvolta. 
<< Cosa? >> fece, tra una risata e l'altra. Perché stava ridendo? Non lo sapeva, non voleva ridere davvero, non lo trovava divertente, eppure non riusciva a smettere. 
<< Hai il fidanzato? >> ripeté il ragazzo, continuando a ridere come una iena. Ellison ci pensò su un attimo. Aveva il ragazzo? No, non credeva. Scosse la testa, in risposta. Il biondo sembrò compiaciuto della sua risposta, e batté la mani vivacemente. 
<< Fantastico! >> quasi lo urlò, poi riprese a tracannare birra, dimenticandosi di nuovo della sua presenza. 
Sì, fantastico.
Si guardò intorno, spaesata. Perché, perché era lì con quei quattro coglioni, e non in camera sua, buttata sul letto, abbracciata a Ginny, mentre leggeva il suo amato Poe? Scosse la testa, contrariata. No, non doveva stare lì. Ora se ne andava. A fatica, sciolse le gambe dalla scomoda e attorcigliata posizione in cui le aveva costrette e, cercando di non cadere, si alzò, facendo leva sul materasso per aiutarsi. 
Gli altri si girarono a guardarla. 
<< Dove vai? >> le chiese Bert, confuso. 
<< Sì, dove vai Elly? >> ripeté il biondo senza nome, annuendo alle parole dell'amico. 
<< Nel Paese delle Meraviglie. >> rispose lei, recuperando la sua bottiglia. Se la stava quasi per dimenticare lì; se l'avesse lasciata in balia di quei quattro animali, non se lo sarebbe mai perdonata.
Quinn rifletté per qualche secondo sulla sua risposta. << Mm, è un bel posto? >> domandò, con lo sguardo perso. Ellison annuì con convinzione, ma in realtà stava ancora pensando alla sua Ginny. E a quanto quei quattro fossero completamente sbronzi. Andiamo, era palese che li stava prendendo per il culo, il Paese delle Meraviglie era roba per marmocchi. 
<< D'accordo, allora se è un posto affidabile ci puoi andare! >> concesse molto gentilmente Bert, con una serietà che quasi la sconvolse. Facevano sul serio? 
<< Però portaci un souvenir! >> 
A quelle parole, scoppiarono tutti a ridere. Ellison sospirò. Barcollante, uscì dalla stanza di Bert ed entrò nella sua. Sperò con tutto il cuore di non prendere la mensola dritta in faccia, ma le sue preghiere non vennero esaudite, perché sentì un dolore acuto alla tempia. Vide lo spigolo della suddetta mensola traballare, sdoppiarsi e ricomporsi davanti ai suoi occhi. Ma forse traballava, si sdoppiava e si ricomponeva solo per la botta che aveva preso. O perché era un po' brilla. O forse un po' più che brilla. O forse stava pensando troppo. Chissà dov'era Gerard. Chissà cosa stava facendo. Magari anche lui era brillo, o un po' più che brillo. Magari anche lui aveva preso una mensola traballante, che si sdoppiava e si ricomponeva, in testa. Forse era completamente ubriaco. Forse era fatto. Forse si stava scopando la rossa. Forse era collassato in mezzo alla strada. Forse stava pensando troppo. Di nuovo.
Si buttò a fatica sul letto, senza lasciare neanche per un secondo la bottiglia. Ormai ci si era affezionata, non avrebbe potuto abbandonarla neanche se l'avesse voluto. Ginny. Era un bel nome, poi. Ginny. Anche discretamente piacevole alla pronuncia. Ginny. 
Il basso soffitto sopra di lei cominciò a vorticare. Aveva un soffitto girevole? Non ricordava di avere un soffitto girevole. Forse era nuovo, magari Bert le aveva fatto un regalo per il compleanno. Che poi, quand'era il suo compleanno? Lei aveva un compleanno? E, cosa più importante di tutte, un compleanno, si poteva avere? 
Guardò Ginny con intensità. Tutto sommato, era anche una bella bottiglia. Cosa se ne faceva lei di Gerard, quando aveva una bottiglia come quella nel letto con lei? Avrebbe potuto darle un bacio, magari sull'etichetta. Sicuramente, se Gerard sarebbe venuto a saperlo, sarebbe morto di gelosia. Era una bella idea, comunque. 
Stanca di seguire il filo dei propri pensieri, stappò la bottiglia e se la portò alle labbra, sperando solo di non morire soffocata nel temerario tentativo di bere da sdraiata. Tossì per qualche secondo, e un po' di Gin le andò di traverso, ma non morì. Era viva, o almeno credeva. Il soffitto ora girava più veloce. Un soffitto girevole veloce. Un veloce soffitto girevole. 
Ma poi, dove diavolo era Gerard? Adesso lo chiamava e glielo chiedeva. Se fosse stato con la rossa, gli avrebbe rotto l'osso sacro a suon di calci in culo. Era una promessa, e lei le promesse le manteneva; più o meno. 
 
 
Davvero, avrebbe voluto chiamarlo, ma il telefono era troppo lontano, e Ginny chiamava a gran voce il suo nome. No, seriamente, lo stava urlando. Alla fine, l'aveva svuotata, completamente. Ora il soffitto non girava più, in compenso però era diventato fluorescente. Bert la stava prendendo per il culo, ne era certa. Prima il soffitto girevole, ora il soffitto fluorescente. Doveva smetterla di cambiare continuamente soffitto mentre lei non c'era, non era carino. Ma poi, quando lei non c'era? Era sicura di non essersi mossa da lì, non avrebbe potuto abbandonare Ginny, anche se ora era vuota. Insomma, era comunque una bottiglia, aveva anche lei dei sentimenti. Un po' come le falene. Non le erano mai piaciute le falene. Nemmeno i coccodrilli. Non le ispiravano molta simpatia. Invece i lupi erano belli, e anche i pipistrelli. Ora che ci pensava, non le piacevano neanche le persone, ma cosa ci poteva fare? 
Ora però stava male. Sentiva i conati di vomito arrampicarsi su per la gola, e la confusa bambagia in cui era immersa fino a neanche un quarto d'ora prima aveva lasciato il posto al malessere. Tutto girava, si confondeva, si allargava, si deformava, si restringeva. Le girava la testa in maniera terribile, e lo stomaco implorava pietà. Bene, era colpa di Gerard. Fanculo. Si tirò di scatto su dal letto, procurandosi un giramento di testa più violento degli altri. Senza neanche sapere come, si ritrovò sul pavimento, a contatto con la moquette per niente morbida che lo ricopriva. 
Bene, me lo merito. 
Soffocò un singhiozzo, poi un altro, e un altro ancora. Il quarto non riuscì a trattenerlo, e scoppiò a piangere. Non sapeva neanche perché piangeva, a dire la verità, ma era così liberatorio. Avrebbe solo voluto che tutto quello finisse. Voleva solo chiudere gli occhi, e non riaprirli mai, mai più. Era solo una causa persa, non valeva la pena di sopravvivere. Strinse tra le dita i pelucchi della moquette, fino a farsi sbiancare le nocche; sentiva il ruvido del tappeto a contatto con la sua guancia sinistra graffiarle la pelle, e qualcosa di bagnato e salato entrarle fastidiosamente in bocca. Odiava il sapore delle sue lacrime.
Gee...


 
 
 
Frank guardò sconvolto la ragazza che parlava in tv, continuando a sgranocchiare pop corn di qualità decisamente scadente. Era da più di un'ora che si dedicava allo zapping più sfrenato, senza però trovare nulla di interessante. Ecco perché odiava quella scatola col cavo; solo un mucchio di stronzate che ti fottevano il cervello, mentre tu te ne stavi buono buono a sorbirti quiz a premi e telenovelas dall'elevato tasso diabetico. 
La tipa aveva cominciato a dire qualcosa riguardo a quanto la sua vita fosse deprimente e quanto fosse frustrante sapere che suo marito la tradiva senza però poter reagire per paura di rovinare il matrimonio. 
Frank prese un'altra manciata di pop-corn, una delle ultime; li aveva quasi finiti, ed anche le scorte in cucina erano tragicamente esaurite. Merda.
<< Frank, oh, lui è così... carino, perfetto... >>
Alzò la testa di scatto, sentendosi tirato in causa. Con stupore -ed una punta di malcelata delusione- realizzò che era la tv; sempre la solita ragazza bionda travestita da casalinga disperata in crisi coniugale. Il suo presunto maritino si chiamava Frank, dunque. Rimuginò qualche secondo su quanto e come quell'informazione gli potesse essere utile, ma alla fine decise che non gli serviva e la scartò. Il suo cervello ultimamente era sufficientemente sovraffollato da altri pensieri, non aveva certo bisogno di quelli superflui. 
Con uno sbuffo, spense la tv. Ne aveva basta, poteva sentire chiamaramente i suoi neuroni implorare venia. Abbandonò il pacchetto ormai vuoto di pop corn sul divano e si alzò, camminando pigramente verso la sua stanza, trascinandosi su per le scale. 
I suoi erano andati a passare il fine settimana dai suoi zii, a New Yark, e lui ne aveva approfittato per passare un paio di giorni in pace. Snobbò la pianta grassa che sua madre coltivava con tanto amore da prima che lui nascesse ed entrò in camera sua. Nonostante l'indicibile disordine, si sentì immediatamente a suo agio. Non vi era altra parte della casa -o di qualunque altro posto nel mondo- che lo facesse sentire al sicuro come quelle quattro mura ricoperte di poster e manifesti dall'aspetto punk. Nessuno lo vedeva, nessuno lo sentiva, nessuno lo disturbava. C'erano solo lui, Henry Rollins che lo guardava da uno dei suoi poster, e la sua chitarra. Una bianchissima e bellissima Epiphone Les Paul. Bè, bianchissima non proprio, considerando che l'aveva ricoperta di adesivi, ma rimaneva comunque il suo gioiellino. Aprì l'armadio in cui la teneva e la prese delicatamente in mano, imbracciandone la tracolla. 
Ora si sentiva davvero bene. 
Attaccò il jack all'amplificatore e prese a suonare qualche accordo a caso, senza una precisa logica. Era piuttosto bravo ad improvvisare, qualche volta aveva tirato giù qualche breve assolo e qualche motivetto discretamente orecchiabile. Amava suonare, era una delle poche cose che lo facessero davvero sentire se stesso; il senso di libertà che provava quando faceva scorrere più veloce che riusciva le dita sulla tastiera non era uguagliabile da nient'altro. Si sentiva invincibile. 
Invincibile. Già. A dire il vero, lui non si sentiva mai invicibile, in altre occasioni. Nella vita reale, quando non c'era la sua chitarra con lui, era uno sfigato. Uno sfigato fatto e finito. Ormai quella parola se l'era sentita dire così tante volte che aveva perso di significato. Era basso, troppo basso, e troppo debole per difendersi. Taylor Smith era stato il suo carnefice fin dal primo anno, persino alle medie lo aveva perseguitato. Smith e i suoi tirapiedi erano quel tipo di persone da cui Frank avrebbe dovuto tenersi alla larga: alti, grossi, pompati, aggressivi, assolutamente vendicativi. I primi anni si erano accontentati di un semplice e parzialmente innoquo lavaggio di testa nei cessi della scuola, poi avevano deciso che non era abbastanza soddisfacente, così avevano cominciato a pestarlo, letteralmente. Zigomi ammaccati, aloni violacei e doloranti intorno agli occhi e lividi su braccia e gambe erano all'ordine del giorno, neanche ci faceva più caso. Le cose stavano così, e non sarebbero mai cambiate: lui avrebbe continuato a rimanere basso e sfigato, e loro sarebbero stati sempre più forti, grossi e popolari di lui. Ma, anche se non lo avrebbe mai ammesso a sè stesso, la cosa che più gli faceva male di tutto quello, non erano i graffi o i lividi, ma le loro parole, le loro umiliazioni. L'anno precedente, il primo giorno di scuola, Ronny e Matt -i tirapiedi preferiti e più pompati di Smith- lo avevano bloccato all'entrata, prendendolo per le braccia e tenendolo fermo, senza un reale motivo; poi, era arrivato Taylor e, dopo avergli girato intorno come un avvoltoio per un minuto buono, gli aveva tirato giù i pantaloni, e lo stesso avrebbe fatto con i boxer, se solo non fosse suonata la campanella. Tutta la scuola aveva visto i suoi boxer con una stampa degli X-Man. Fu imbarazzante; in quel momento, si era sentito oltraggiato. Ma la cosa che più lo ferì, fu l'urlo divertito di una cheerleader. << Frocio! >> gli aveva detto, indicandolo. Tutti erano scoppiati a ridere, qualcuno aveva ripetuto l'appellativo con vocetta effemminata, poi erano entrati a scuola, e lui era rimasto fuori per tutta la durata delle lezioni. 
Da quel momento, avevano cominciato a chiamarlo Pansy. Non male come nomignolo, davvero, avrebbe dovuto complimentarsi con loro per la mirabolante fantasia, un giorno o l'altro. Magari quando avrebbero smesso di innaffiargli i capelli nel cesso e di accanirsi sui suoi zigomi. Smith picchiava duro, non ci andava per niente leggero, e non era di certo piacevole ricevere pugni su pugni da un colosso di un metro e novanta. Matt, il quaterback, non era da meno; una volta lo aveva visto accanirsi su un ragazzino del primo anno, lo aveva praticamente caricato a mo' di toro, e lo aveva steso con un unico colpo. In quel momento, si era ripromesso di non fare mai incazzare Matt Sanders. Poteva capire che fosse abituato a placcare gli avversari durante le partite di Football, ma fino ad un certo punto. 
Rabbrividì a quel pensiero. Come al solito, si era perso nei suoi stessi pensieri. Era un vizio, una sorta di abitudine, un qualcosa che non riusciva a smettere di fare. Avrebbe davvero voluto che quegli scimmioni palestrati sparissero dalla sua vita per non tornarci mai più, ma era un sogno impossibile. 
Il giorno prima, Smith gli aveva fatto lo sgambetto nel corridoio, facendolo inciampare e rovinare a terra davanti a tutta la squadra di football e pallanuoto. Un paio di ragazze dell'ultimo anno avevano assistito alla scena divertite, ridacchiando e osservando i suoi vani tentativi di rialzarsi.
<< Sempre in mezzo ai piedi, Pansy? >> lo aveva appostrofato Ronny. Tra tutti, era il più innoquo, non tirava nè pugni nè calci, solo spintoni. Giocava in difesa nella squadra di Matt, ma a differenza sua non aveva il brutto vizio di placcare -e/o caricare- la gente al di fuori del campo di football. 
Frank si era rialzato senza dire una parola, e ancora una volta la campanella lo aveva salvato dall'ennesima umiliazione. Per fortuna non lo avevano picchiato. Ora che ci pensava, era da un po' che non succedeva più, e ultimamente ci andavano leggeri. Forse si erano stufati di lui, magari avevano trovato una vittima più giovane ed impaurita di lui. Magari uno più basso.
Mentre rimuginava sugli ultimi eventi scolastici, continuava a suonare. Era un toccasana, terapeutico a livelli inimmaginabili, gli permetteva di ordinare i pensieri. Aveva preso a suonare un pezzo dei Black Flag, con rabbia. Era incazzato, lo era ogni singola volta che pensava a Smith e alla sua banda di coglioni, e non riusciva a fare altro se non accanirsi sulle povere corde di quella chitarra.
Ora che ci pensava, avrebbe dovuto darle un nome. Non era carino chiamarla sempre e solo 'chitarra'. Certo, era la sua chitarra, ma in quanto tale aveva bisogno di un nome, un vero nome. Ci pensò distrattamente mentre continuava a muovere rapidamente le dita sulla tastiera. Avrebbe potuto chiamarla Franky. Dopotutto, quella chitarra gli ricordava lui; erano uguali, in fondo: facevano un gran rumore, ma bastava pizzicare le corde giuste e il rumore diventava melodia. Lui si sentiva un po' così. Forse sì, l'avrebbe chiamata Franky, anche se non lo convinceva molto. 
Continuò a suonare fino a che non sentì un altro suono, più acuto e ripetuto, sommarsi a quello prodotto dalla sua chitarra. Si fermò e si concentrò sui suoni della casa, fino a che non lo risentì: era il campanello. Scese la scale quasi di corsa, chissà da quanto tempo stavano suonando. Si chiese chi mai potesse essere a quell'ora, era mezzanotte passata ormai. Diede un'occhiata veloce all'orologio mentre attraversava il salotto: era l'una meno venti minuti. Decisamente fuori orario per le visite. Sbirciò dallo spioncino, per poi ritrarsi, sorpreso. 
Aprì la porta di scatto, a metà tra l'incazzato e il felice. Insomma, era pur sempre l'una di notte ed era nel bel mezzo di una canzone dei Flag!
<< E tu che cazzo ci fai qui? E come cazzo ti sei vestito? E perché caz- >> 
<< Ti piace il Whiskey? >> lo interruppe Gerard, sollevando una bottiglia piena di liquido dorato e guardandolo con uno strano sorrisetto stampato in volto.
Ci mancava solo questa. 
 
 
<< AHAHAHAHAHAH! >> 
Le risate dei due si sovrapponevano, confondendosi, e nessuno dei due sembrava conscio del fatto che ormai fossero le tre del mattino. 
<< E ti ricordi quando quel coglione di Sanders si è fatto sbattere fuori dalla squadra di Football? >>
<< Si era fatto beccare gli steroidi, il cazzone! >>
Altre risate.
No, a quanto pareva, a Frank non piaceva il Whiskey ma, come aveva lui stesso affermato, le sue papille gustative potevano sopportare di tutto dopo i pasti cotti al microonde che gli rifilava sua madre. Indi per cui aveva ritenuto opportuno trangugiare un quarto della bottiglia; gli era sembrato maleducato da parte sua non aiutare Gerard a berlo, ecco.
<< Mmm >> mugolò Gerard, tirandosi a sedere con la schiena malamenta appoggiata ai piedi del divano; il freddo pavimento sotto di lui gli ricordava che non si era ancora alzato da terra da quando, qualche mezz'ora prima, era rovinosamente caduto a terra davanti alle risate incontrollate di Frank. 
<< Amy Iero è una puttana. >> sentenziò, con voce impastata. L'altro si girò a guardarlo.
<< Cosa? >> fece, ridendo. 
<< Quella troia di tua cugina, ecco, è una puttana! >> 
Frank ci pensò su per un attimo. << Ma l'hai detto due volte, che è una troia... >> osservò, probabilmente trovandolo molto divertente perché riprese a ridere subito dopo. 
<< Lo dico anche tre, se vuoi! >>
<< No, lascia perdere... >> un'altra risata. << Perché è una troia? >>
<< Sono andato a prenderla, l'ho portata in quel cazzo di ristorante e abbiamo mangiato cotolette alla francese... Cosa cazzo sono poi, le cotolette alla francese? >> fece una pausa e prese un lungo sorso dalla bottiglia. Frank pendeva dalle sue labbra, in attesa che continuasse; non sembrava intenzionato a rispondergli e a dargli delucidazioni sulle fantomatiche cotolette. << Bè, in auto mi si è spalmata addosso... Avevo questa cravatta, sì, l'ho rubata a mio padre, e lei diceva che il nodo era fatto male, e mi è salita a cavalcioni -a cavalcioni, capisci?- mentre guidavo e poi mi ha praticamente sbattuto le tette in faccia... cioè non è che mi dispiacciano le sue tette, però io stavo guidando, e non so se voglio davvero scoparmela, ma lei mi ha proposto questo, ed io ho dovuto accettare... >> 
Frank continuava a fissarlo come se fosse una sorta di apparizione divina. 
<< Cazzo Gee, non ho capito un cazzo. >> fece poi, con un'espressione abbastanza sgomenta. 
<< Smettila di dire cazzo, porca puttana! >> lo riprese Gerard, lievemente infastidito. << Io ti ho solo raccontato quello che è successo prima... Ma sei sicuro che sia tua cugina? A me sembra più la figlia di qualche lord... No, di un conte! Ma, che poi, esistono ancora i conti? Non li hanno bruciati tutti? >> 
<< Gerard, stai farneticando! >> disse Frank, tra una risata e l'altra; si teneva la pancia per il troppo ridere, e aveva cominciato a rotolarsi sul tappeto del salotto. << Farneticando... >> ripeté poi, riflettendo su quella parola. << È una bella parola, secondo me. >> decise alla fine, annuendo alla sua stessa affermazione. 
Gerard guardò distrattamente l'ora. Nonostante le lancette fossero sei, anziché tre come di consueto, riuscì a distinguere a fatica i numeri che indicavano. Dovevano essere le cinque e un quarto. O forse le tre e venti. Non lo sapeva ma, in entrambi i casi, era tardi. Doveva tornare a casa, in qualche modo, o sua madre avrebbe chiamato la polizia, come minimo. Si alzò a fatica, traballando come un birillo e ridendo. In effetti, il paragone con un birillo era veramente azzeccato; si sentiva un birillo, in effetti. Stava solo aspettando la palla che lo avrebbe buttato definitivamente giù. 
<< Hey, dove vai? >> gli chiese Frank, a metà tra il divertito ed il confuso. In effetti, gli dispiaceva lasciarlo lì, ubriaco e solo, ma non poteva più trattenersi e, in verità, neanche voleva. Aveva bisogno di stare solo, non gli era mai piaciuto bere in compagnia. Se doveva sbronzarsi, lo faceva in camera sua, chiuso a chiave, con della buona musica di sottofondo; possibilmente della musica forte, qualcosa che fosse incazzato almeno quanto lui. 
<< Penso che andrò a casa... sì. >> rispose. 
<< E guidi? >>
Che domanda era? Certo che avrebbe guidato, a piedi di certo non ci tornava. 
<< Sì. >> 
<< Oh >> disse solo Frank. Sembrava triste, ora. Gerard sperò solo che non gli fosse presa la sbronza triste, o si sarebbe sentito in colpa a vita per averlo lasciato solo. Se lo immaginò buttato sul pavimento, aggrappato al divano, a piangere come un disperato in attesa di qualcuno che lo sollevasse da terra. Scosse la testa scacciando quel pensiero, e recuperò la sua giacca. Molto probabilmente se l'era infilata al contrario, ma non era poi così importante. Lanciò uno sguardo famelico alla bottiglia di Whiskey che aveva portato. Tutto sommato non l'aveva pagata neanche molto, era roba scadente quella; per il Jack Daniel's non aveva abbastanza soldi, aveva optato quindi per qualcosa di più economico. E poi, il Whiskey era pur sempre Whiskey. Decise che gliel'avrebbe lasciata, una sorta di regalo. Si sentiva in colpa a lasciarlo solo in quelle condizioni, regalandogli la sua bottiglia avrebbe avuto la coscienza pulita. 
<< Hey Franky, ci vediamo a scuola... io... io penso che andrò. Ti lasciò la bottiglia, okay? >> 
Frank annuì, un po' spaesato; guardò con un po' di disgusto la bottiglia che Gerard gli aveva indicato. Non aveva intenzione di toccarne un altro goccio. Proprio non capiva come potesse piacergli quella roba, era rivoltante, gli faceva venire le lacrime agli occhi solo a sentirne l'odore. 
<< Oh, grazie Gee... >> si finse riconoscente. 
<< Figurati amico >> 
Barcollò fino alla porta di ingresso, l'aprì dopo un paio di tentativi e raggiunse la macchina. Il freddo pungente della notte lo colpì in pieno. C'era un leggero venticello, freddo ma non eccessivamente fastidioso. Trovò le chiavi dell'auto e, quando l'aprì, ci si buttò praticamente dentro. Gli girava la testa, ma pensava di poter essere abbastanza lucido per guidare. Afferrò il volante con entrambe le mani e strinse, facendosi sbiancare le nocche; magari in quel modo avrebbe smesso di muoversi. Scosse la testa e mise in moto. 
Tutto sommato non stava andando male, sbandava solo un po' ogni tanto. Gli piaceva guidare, si sentiva padrone di quel che faceva, e non era una sensazione poi così ricorrente, per lui. 
Passò in una via che conosceva bene. Rallentò, accanendosi sul freno che sembrava non voler funzionare a pieno dovere. L'auto si fermò proprio davanti alla casa cupamente illuminata da uno dei lampioni. Forse avrebbe potuto salutare Bert. Gli andava di salutare Bert, sì. Quel pomeriggio se l'era svignata, liquidandoli tutti quanti con una scusa che nessuno si era bevuto. Quando mai Bert McCraken era stanco? 
Ridacchiò da solo, poi spense l'auto con una serie di movimenti automatici e aprì la portiera. Erano solo le cinque e un quarto, dopotutto, non era poi così tardi. O forse erano le tre e venti. 
Superò barcollante il vialetto e raggiunse il portone. Aveva un paio di rampe di scale ad attenderlo, e il pensiero non poteva fare altro che scoraggiarlo. Ogni gradino era una sofferenza, le pareti non stavano ferme e la testa girava vorticosamente. Per fortuna, era ancora discretamente lucido da capire che era solo un po' ubriaco. In altre circostanze, si sarebbe messo a battere i pugni contro i muri, gridando e piangendo di frustrazione.
Si accanì contro il campanello, ma nessuno venne ad aprirgli. 
<< Dai, cazzo... >> imprecò a bassa voce. Colto da un'ispirazione improvvisa, provò a girare il pomello della porta. Quella si aprì leggermente. Per poco non esultò di gioia.
<< Guarda quel figlio di puttana che lascia la porta aperta... >> commentò divertito, entrando. L'interno era buio, eccezion fatta per una delle stanze. 
<< Ehilà? C'è nessuno? >> chiamò, per attirare l'attenzione. Nessuno gli rispose. Forse Bert dormiva. 
Decise di andare verso la stanza illuminata. 
Segui la luce, Gerard, segui la luce.
Inciampò un paio di volte, ma alla fine arrivò davanti alla porta della stanza. Sperò segretamente che, aprendo, ci avrebbe trovato Ellison. Spalancò la porta con forza, quasi rischiando di sbilanciarsi e cadere in avanti; riacquistò l'equilibrio ed entrò. Dentro non c'era nessuno, solo due custodie per chitarre aperte abbandonate sul letto e circa due dozzine di bottiglie vuote sul pavimento. Si avvicinò barcollante al letto; le chitarre non c'erano. Non sapeva che Bert suonasse. Ma poi, perché avrebbe dovuto suonare due chitarre? Non ne bastava una? Credeva servissero due mani per suonare una chitarra, anzi ne era quasi sicuro. Quasi. 
Qualcosa di rosa fosforescente attirò la sua attenzione. Strinse gli occhi, e distinse un post-it tra le lenzuola mezze sfatte del letto. Lo afferrò, avvicinandolo agli occhi, e cercò di leggere le piccole lettere. Stavano praticamente ballando sul foglio, ma riuscì a distinguere le parole. Diceva: Heey Elly, noi siamo andati tutti quanti al bar, ma è colpa di Jeph, quindi non ti incazzare domani! Fai la brava, Bob ti saluta e dice che ti ama alla follia, buon pomeriggio e a domani. 
Buon pomeriggio? Erano le quattro del mattino, diamine! E noi siamo andati? Lui e chi altri? Scosse la testa, cercando di mettere ordine tra i pensieri. Pensava che gli sarebbe seriamente esploso il cervello. A quanto pareva, non c'era nessuno in casa. Lasciò perdere, con una punta di malcelata delusione, ed uscì dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Fece per tornare sui suoi passi, fino all'ingresso per poi uscire, quando sentì un rumore strano. Gemiti strozzati, qualche singhiozzo. Sì, qualcuno stava singhiozzando. Si avvicinò alla fonte del rumore, era la stanza di fronte a quella di Bert. Forse era successo qualcosa... I singhiozzi ora erano più deboli, si stavano affievolendo. Aprì la porta lentamente, quasi con timore. Si sentiva un intruso, e aveva un'immotivata paura. Non capiva perché, di solito gli piaceva il buio. Senza un reale motivo, si ritrovò a canticchiare il motivetto di Fear of the dark. Dio, se amava quella canzone. 
Si avvicinò al letto. Qualcuno stava respirando pesantemente. I suoi piedi si scontrarono contro qualcosa di duro; abbassò lo sguardo, cercando di distinguere cosa fosse, nel buio. Sentì un brivido percorrergli la spina dorsale, gelandolo. Ora aveva davvero paura. 
Non fare il coglione, Gerard. 
Quando quel qualcosa contro il quale si era scontrato si mosse, scattò in avanti, guidato dall'urgenza del terrore, e cercò disperatamente l'interruttore della lampada vicino al letto. La piccola e debole luce si accese, illuminando fiocamente la stanza. Non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. Il whiskey di certo non aiutava a dominare le emozioni. 
Abbassò lo sguardo, di nuovo, prendendo coraggio. Una piccola figura era rannicchiata in posizione fetale sul pavimento, ai piedi del letto. Nella penombra, riconobbe Ellison; stava piangendo, ma non sembrava molto cosciente. A fianco a lei, una bottiglia da lui non meglio identificata, completamente vuota.
<< Cristo, Elly! >> imprecò Gerard. In quel momento fece appello a tutta la lucidità che gli era rimasta. Si accucciò sulle ginocchia, arrivando all'altezza della ragazza, e la scosse prendendola per le spalle. << Elly? >> chiamò, ma senza ottenere risposta. << Ellison! >> ripeté, quasi urlando. Fu quasi tentato di chiedere aiuto, mettersi a urlare, ma si ricordò che a casa non c'era nessuno. Lei continuava a non rispondere. Ora aveva anche smesso di singhiozzare, se ne stava in silenzio, per terra, con le dita frebbilmente strette sulla moquette rossa. 
<< Elly... >> mormorò, sconsolato. Non sapeva cosa fare, gli girava la testa e non riusciva a ragionare del tutto lucidamente; sapeva solo che era preoccupato a morte e che, se non avesse ripreso conoscenza entro sessanta secondi, l'avrebbe presa a schiaffi fino a che non gli avrebbe risposto. 
<< Elly... Elly. >> 
Lei mosse impercettibilmente una mano, stringendo la presa sul tappeto. 
<< Elly! Cazzo Elly, ti prego, apri quei fottuti occhi, non è difficile! >> 
Si sentiva un disperato. Mezzo ubriaco, stava urlando contro un'altra persino più ubriaca di lui collassata sul pavimento. 
Era un disperato.
<< Elly... Oh cazzo Elly! >> 
Aveva voltato leggermente il viso verso di lui. Teneva gli occhi semi aperti, quasi avesse paura di aprirli del tutto e vedere la realtà che la circondava; erano ancora pieni di lacrime. Gerard si accucciò su di lei e, non senza una certa fatica, le sollevò la schiena da terra, cercando di rimetterla su, in qualche modo. Lei mugugnò qualcosa, come per protestare, ma alla fine si abbandonò sul suo petto e scoppiò di nuovo in lacrime.
<< Io non volevo... Gerard, te lo giuro, non volevo, io non volevo... >> non stava semplicemente piangendo, gli stava praticamente urlando addosso, istericamente, mentre si aggrappava alla sua cravatta e gli bagnava la giacca di lacrime copiose. Lui la strinse con forza, incurante di poterle fare male. Non gli importava neanche, ormai si facevano così tanto male da soli, che quello inflitto da altri neanche più lo sentivano. 
<< Elly, ascoltami... non è colpa tua, okay? Non è colpa tua. >> ripeté con finta convinzione. Ora sembrava lei la disperata: piangeva e si dimenava contro il suo petto, ancora poco e avrebbe preso a testate il pavimento. 
<< Non mi merito niente, Gee... Vattene via, non mi merito neanche la tua presenza >> biascicò tra le lacrime, stringendo sempre di più la presa sul colletto della sua camicia; sembrava ci si stesse aggrappando, quasi avesse paura di cadere. 
<< Non è vero, sì che te lo meriti invece... Smettila di scalciare però, cazzo! >> 
Non avrebbe voluto -e soprattutto non avrebbe dovuto- urlarle contro, ma stava cominciando a diventare difficoltoso tenerla ferma ed evitare che si facesse male. 
<< No... non mi merito niente, devo morire... >> fece lei, ignorando le sue parole. 
<< Porca puttana! Giuro che se non la smetti di dire stronzate ti prendo a schiaffi, e stanne certa che lo faccio davvero, Cristo! >> glielo urlò praticamente in faccia. Di nuovo, non avrebbe voluto, ma non riusciva a sentire quelle parole e rimanere calmo. Non era concepibile. E, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva una paura fottuta che lei stesse davvero così male da poter morire, quella notte.
<< Sì, fallo, me lo merito... >> rispose lei, tra un singhiozzo e l'altro. << Fallo, cazzo, fallo! Tirami quel cazzo di schiaffo, è l'unica cosa che merito! >> gli urlò a sua volta, ai limiti dell'isteria. << Tiramelo! >> gridò.
Gerard scosse la testa, rassegnato. Non ne poteva più di tutta quella storia. 
Con decisione, la prese in braccio e la buttò sul letto, non curandosi troppo della delicatezza; non seppe neanche lui come riuscì a sollevarla senza rovinare a terra, ma in qualche modo ce la fece. Cercando di calmare il girare impazzito della sua testa, le si abbandonò accanto, sul letto, e cercò di tranquillizzarla in ogni modo possibile. A dire il vero, non aveva idea di come poterla tranquillizzare, non faceva altro che raggomitolarsi più volte sul letto, contro di lui, e piangere, piangere e piangere ancora, farneticando su quanto fosse inutile la sua esistenza e su quanto volesse essere morta.
Già, sarebbe fantastico se fossimo tutti morti.
Certo Gerard, certo.
Sarebbe fantastico anche puntarsi una pistola in testa e...
Idiota, tu devi consolarla, non incoraggiarla a mangiarsi una pallottola. 
Scosse la testa. Fantastico, ora parlava anche da solo e si rispondeva anche. Non c'era che dire, ottimo davvero. Uno psicopatico al suo cospetto si sarebbe sentito inutile. 
<< Elly, ascoltami, per favore, io non voglio che tu muoia... >> le mormorò vicino all'orecchio; aveva paura che non lo sentisse, e lui desiderava con tutto se stesso che lei lo sentisse. Aveva bisogno che sentisse quelle parole. E, ancor prima, avrebbe avuto bisogno di sentirsele dire.
<< Lo dici solo perché sono stupida e ubriaca e... >>
<< E terrorizzata, e sola, e triste, e incazzata, e bellissima, e tante altre cose, ma no, non lo dico solo per quello. Lo dico perché, probabilmente, senza di te, non saprei cosa fare. >> 
Lei scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore con forza. Le uscì un rivolo di sangue, ma non demorse e continuò a torturarsi le labbra.
<< Perché dici queste cose... >>
<< Perché è quello che penso... Quindi, per favore, resta con me. >> le disse, accorato. Si sentiva un idiota, non sapeva perché stava dicendo quelle cose, ma era vero: era ciò che pensava, non era solo l'alcool a parlare.
La ragazza smise di singhiozzare per un secondo, e lo guardò negli occhi. Strano, non lo faceva mai. Non lo guardava mai davvero, non negli occhi. Gerard pensava che avesse paura dei suoi occhi, in qualche strano modo, per qualche strano motivo. 
<< Va bene >> disse solo, a voce così bassa che lui a stentò riuscì a sentirla. Gerard si sentì sollevato da quelle parole. Come più leggero. Non se ne sarebbe andata, sarebbe rimasta lì, con lui, a tenergli la mano. Come guidato da un istinto che non gli apparteneva, sporse lievemente il viso verso il suo, fino a toccare le sue labbra con le proprie. Le sfiorò solo, quasi timoroso. Poi, l'avvolse con le braccia, stringendola, e rimboccò le coperte del letto sopra di loro, per coprire i loro corpi. Lei andò avanti a piangere ancora per molto tempo, rannicchiata contro il corpo del ragazzo, soffocando i singhiozzi nell'incavo del suo collo, stringendogli forte le braccia, fino a quasi fargli male. 
Ma, alla fine, non le importava neanche. Si facevano già così tanto male da soli.
Si facevano così tanto male da soli.



 
  
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