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Autore: avalon9    26/09/2007    8 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 44

A chi, anche da lontano,

ha saputo essermi

vicino.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 44

TRAPPOLA

 

 

“Manterrai la promessa?”

 

Yaone sorrise, indugiando con lo sguardo sulla fiammella che andava estinguendosi. Sorrise appena. Quasi con rassegnazione. Con malcelata ironia. Sorrise socchiudendo gli occhi. Una smorfia di malinconica aspettativa. Una promessa...Era riuscito a strapparle quella promessa. Maledettamente snervante. Avere finalmente in mano quello che aveva desiderato, cercato per anni...e non poterne usufruire. Vincolata. L’aveva obbligata al giuramento. E ancora non si fidava.

 

Si passò una mano alla base del collo, risalendo lentamente verso la nuca. Su su fino agli aghi di madreperla e argento che le fermavano i capelli ormai scomposti. Strinse di più la base del collo, massaggiandosela leggermente con i polpastrelli. Gettò indietro la testa, rilassando le spalle provate e liberando un sospiro. Scocciato. Esasperato. Deluso. Rassegnato.

 

Non era possibile definire quel respiro. Non era mai stato possibile delineare con esattezza cosa passasse nella mente della yasha. Enigmatica. Proteiforme. Ti sorride accondiscendente, finge di ascoltare ogni tua parola, di sorbire ogni tuo pensiero...e all’improvviso sei tu, ad esser avvinghiato nella sua rete. Stretto. Intrappolato. Catturato. Dal suo sorriso astuto. Dai suoi occhi inquieti. Dalla sensualità del suo indice che le accarezza il contorno delicato del mento quando sta pensando.

 

Yaone è come la sua alchimia: complessa, inafferrabile se non per spruzzi che ti bagnano appena. Instabile. Può reagire in ogni istante, ma è impossibile prevedere l’esatta natura della sua reazione. Pericolosa, affascinante, ammaliatrice, suadente, mortale...Inclassificabile. Yaone non accettava definizioni. Non voleva costrizioni di nessun genere. Da sempre. Da quando l’aveva incontrata la prima volta, nei corridoi di un’antica scuola. Un cucciolo di demone che saltellava vivace nelle stanze austere, incurante di etichette e rigore. L’espressione curiosa che le aveva visto dipinta sul viso di fronte alle eleganti e complesse decorazioni della carta di riso l’aveva sorpreso. L’aveva seguita nella sua escursione proibita, in stanze precluse agli allievi, attraverso i giardini tinti di oro e rosso, nei laboratori riservati ai discepoli più anziani. L’aveva vista soffermarsi con attenta curiosità sulle ampolle soffuse di tenui luminescenze; studiare con occhio quasi critico l’intensità delle fiammelle accese sotto gli alambicchi; sollevare con due mani un pestello di legno, scuro e pesante. Yaone aveva riso. Stringendosi al petto quel pestello, aveva iniziato a ridere e girare su se stessa. Contenta. Entusiasta. Appagata. Sembrava perfettamente a suo agio in quel laboratorio tetro e pregno dell’odore di mille composti.

 

Quanti anni erano passati, da quel giorno? Da quella prima volta che l’aveva avvicinata, afferrandola senza tante cerimonie per un braccio e trascinandola via prima che uno dei maestri la sorprendesse. Non avrebbe saputo dire neanche lui perchè lo avesse fatto. Gli era venuto naturale. Spontaneo. Forse per innata complicità cameratesca, forse per inconscio desiderio di protezione verso una compagna più giovane e ancora inesperta delle severe regole. Una smorfia gli stiracchiò le labbra secche. Aveva agito d’impulso, e ne era nata una corsa a perdifiato per i corridoi della scuola, un nascondino estenuante in ogni anfratto, in ogni ombra che incontravano. Prima di fermarsi davanti ai corridoi dei dormitori, con il fiato corto e una voglia irrefrenabile di ridere. Avevano dovuto premersi le mani sui sorrisi per non scoprire.

 

Il sorriso di Yaone...Il Sensei lo ricordava bene. Ingenuo e infantile. Curioso. Assomigliava molto al sorriso della bimba umana che viveva nel palazzo di Sesshomaru. La stessa sicurezza nella vita; la voglia di conoscere e scoprire; la sensazione di poter osare perchè, comunque, voltandosi, ci sarebbe sempre stato qualcuno alle spalle, pronto a sostenere e aiutare. Il Sensei lo sapeva bene: per anni aveva guidato Yaone, ne aveva fatto la sua protetta, la sua piccola allieva come lui amava chiamarla. L’aveva messa a parte delle spiegazioni e delle lezioni che i maestri riservavano a loro allievi più grandi; l’aveva seguita nei suoi progressi e spronata quando era sul punto di rassegnarsi. L’aveva costretta a non arrendersi mai, a stringere i denti e rialzarsi sempre, per quanto dolorosa potesse esser stata la caduta.

 

Anche adesso, Yaone aveva bisogno di lui. Per non cedere alle sue false speranze, alle sue sbagliate illusioni. Aveva già sbagliato una volta, chiudendo gli occhi davanti al suo progetto. Credeva che scherzasse quando gli aveva confidato di voler provare a ottenere quella che chiamava la conoscenza. Aveva sorriso scuotendo la testa al suo ambizioso progetto. Sapeva benissimo che era attratta dalle arti umane. Sapeva che adorava mescolare i composti e ottenere risultati strabilianti senza far nessun affidamento sulla sua youki. Ma quell’idea proibita, la voglia di scoprire il connubio fra chimica e arti demoniache, di infrangere il tabù...quello che lui aveva creduto il delirio di un momento si era rivelato l’anticamera della condanna di una vita.

 

Ashitaka non riusciva a perdonarsi di non averla fermata allora. Di non esser stato con lei in quel maledetto momento, a fermare quella mano stretta su un pugnale. Aveva solo potuto vederla sorridere in modo strano davanti al consiglio degli anziani. Le vesti discinte e imbrattate di sangue; i capelli scarmigliati. Aveva visto quel sorriso quasi di scherno e il rilucere innaturale dei suoi occhi. Occhi di due colori. Yaone aveva dato lo smeraldo di un suo occhio in cambio di un qualcosa di quasi divino.

 

“Niente inganni, Yaone”

 

Non questa volta. Non lo avrebbe permesso. Tollerato. La vide annuire e poi voltarsi verso di lui con una smorfia di malcelato disappunto. C’erano momenti, come quello, in cui gli sembrava di tornare indietro nel tempo. Secoli indietro. Ad una stanza di studente. Ad un tempo in cui Yaone gli sorrideva in quel modo, indispettita per un suo rimprovero. Stiracchiò a sua volta le labbra. Era felice di aver potuto condividere con lei quei mesi. Di esser riuscito a salvarla come non aveva fatto secoli prima.

 

In corpo di Yaone, adesso, era caldo, e nelle sue vene il sangue aveva ripreso a scorrere. La sospensione del tempo era finita. Aveva ripreso a vivere. Probabilmente, il segno sul seno non si sarebbe mai cancellato, ma ormai non aveva più importanza. Sarebbe rimasto quale spettro di secoli vissuti in un limbo di rassegnata e frustrante impotenza.

 

Non era stato affatto facile convincere Sesshomaru a incontrarsi di nascosto, una sera di mesi prima. Il Principe non si fidava molto del Sensei. Anzi, non si fidava praticamente di nessuno. Un atteggiamento che non aveva di certo ereditato dal padre. Ashitaka ricordava benissimo la fiducia quasi eccessiva che Inutaisho dava a chi lo circondava. Ma la sua era stata un’altra infanzia, con altre persone al fianco, con altri maestri. Nessuno dei suoi figli, aveva dovuto riconoscere il Sensei, aveva avuto un’infanzia serena. Il maggiore pressato da una corte che continuava a sbattergli davanti i successi e la forza di un padre pressochè assente e vedovo di ogni più piccolo affetto. Il secondogenito costretto fin da subito a confrontarsi con la realtà del rifiuto cui la sua origine ibrida lo costringeva. Se il Sensei non biasimava, a differenza di molti altri demoni, la scelta del suo allievo di rischiare anche la vita pur di salvare la donna che amava e il figlio che ne aveva avuto, tuttavia non riusciva proprio a capire il motivo che aveva spinto Inutaisho a trascurare il suo erede. Sesshomaru era cresciuto solo. Senza amici, senza genitori, senza il più piccolo gesto di affetto. Nelle rare occasioni in cui si erano visti, Inutaisho gli aveva confidato più volte di essere preoccupato. Il Principe stava crescendo fiero e potente, ma non c’era modo di avvicinarlo. Rifuggiva il contatto fisico come un disonore; condannava un sorriso o una risata come la peggiore delle umiliazioni.

 

Inutaisho riconosceva di esser colpevole del fatto di averlo abbandonato ai precettori, e che quando si era accorto dell’errore commesso era forse troppo tardi. Sesshomaru era diventato un estraneo. Un ragazzo taciturno e introverso con cui era quasi impossibile conversare. Era diventato molto simile alla madre. A com’era prima del matrimonio con il Principe dell’Ovest. Quando i pochi sorrisi che le percorrevano le labbra erano di sprezzante superiorità. Un’armatura dura e impenetrabile, ideale per proteggerla e affermare la forza dell’unica erede del regno di Nishi.

 

Sesshomaru aveva esasperato quell’atteggiamento. Ne aveva guadagnato in rispetto fra i demoni, ma non avrebbe mai ottenuto l’approvazione del padre. Ashitaka se ne era accorto. Il giovane Principe rincorreva l’esempio del padre come se ne fosse ossessionato. Per lui che aveva visto Inutaisho crescere e diventare lo splendido generale e il superbo Principe che tutti conoscevano, Sesshomaru era un libro aperto. La postura delle spalle, la fermezza del viso, i movimenti precisi e letali, la durezza dello sguardo nelle situazioni critiche, il fascino malinconico e solitario. Il Principe cercava in tutti i modi di ripercorrere le impronte paterne, senza accorgersi di quanto già gli assomigliasse e condannando le differenze che lo avrebbero reso davvero, in linea teorica, più potente del padre.

 

“Sesshomaru-sama non era molto contento di accogliermi”

 

Yaone sorrise alla smorfia del Sensei. In effetti, quando si erano incontrati fuori dal palazzo, mesi prima, Sesshomaru non l’aveva uccisa subito probabilmente solo per un recondito istinto. Altrimenti, non si sarebbe di certo fatto sfuggire l’occasione di eliminare l’alchimista del suo nemico. Aveva ringhiato in modo pericoloso quando aveva saputo che era stata lei a fornire a Naraku il composto che lo aveva accecato, e ce n’era voluto perchè accettasse di ingoiare quello che poteva essere l’unico rimedio.

 

Un sospiro stizzita. Nonostante il tempo passato, Sesshomaru continuava a restare cieco, e il suo antidoto non sortiva effetto alcuno. Tuttavia, nonostante il pessimo biglietto di presentazione, Sesshomaru l’aveva accolta al suo seguito, assegnandole un incarico in ambito medico. Con la ferma consegna di obbedire all’archiatra di corte senza possibilità di discutere sulla questione.

 

In effetti, all’inizio Yaone ammetteva a se stessa che l’idea di lavorare come sottoposta di una ningen non l’aveva entusiasmata. L’unica nota positiva sarebbe stato il fatto che finalmente avrebbe potuto vedere in faccia la donna che aveva saputo fronteggiare il suo composto. Si era aspettata una ragazza boriosa e arrogante per la posizione ricoperta. Era rimasta piacevolmente sorpresa di doversi rapportare con una ragazza modesta e pronta ad imparare da lei, riconoscendole una maggiore competenza e preparazione. Yaone si era accorta che, fra i demoni presenti, lei era l’unica che Alessandra trattasse con rispetto. I guaritori di corte le obbedivano, e lei era sempre corretta nei loro confronti, una fredda cortesia, ma era palese che non aspettavano altro che un suo passo falso. E Yaone odiava gli arrivisti.

 

Per questo si era subito schierata con Alessandra. Seguendo l’istinto. E quel cuore che adesso pompava sangue. Perchè l’accordo era stato quello: un fendente di Tenseiga in cambio di quello che sarebbe potuto essere l’unico antidoto. Nessuna garanzia che funzionasse, almeno nell’immediato, ma la sicurezza che, se davvero esisteva un composto capace di ridare la vista al Principe, altri non era che quello.

 

“Scenderai in campo con lui, Ashitaka?”

 

Il Sensei annuì, mentre un sorriso gli storceva le labbra. Morigawa era una faccenda che lo riguardava più di quanto avesse mai lasciato intuire al Principe. A palazzo, solo Kumamoto sapeva realmente il peso di quello che aveva fatto più di quattrocento anni prima. Si passò una mano sul viso scarno e rinsecchito dal tempo. Era ridicolo! Lo chiamavano con quel titolo altisonante, si era ritrovato nella situazione di far la predica a Yaone per aver infranto un divieto atavico, era indicato come uno dei più grandi demoni ancora viventi e in realtà lui per primo portava dentro di sè un marchio infame. Lo aveva fatto a fin di bene, ma una legge violata rimane violata.

 

“Saresti pronto a morire per espiare quella colpa?”

 

Yaone giocherellava con un pestello, indecisa se riprendere il suo lavoro o continuare quella conversazione. Alla fine, afferrò il piccolo mortaio di legno e iniziò a battere. Con rabbia. non le importava nulla del fatto che avesse commesso il suo stesso errore. Lui lo aveva fatto per il bene di tutti, non per egoistico interesse. Non le importava un accidenti che il suo onore si fosse infangato. Si vive benissimo anche senza, maledizione! Ma non era mai riuscita a inculcarglielo nella testa. E sull’onore il Sensei aveva fondato parte dei suoi insegnamenti.

 

“Sarò pronto ad accettare ciò che accadrà”

 

“Testardo fino alla fine. Gli anni non hanno giovato alla tua cocciutaggine”

 

Era un rimprovero, esasperato e stanco. Inutile combattere con lui. Partita persa. Ashitaka aveva deciso che per ristabilire se stesso doveva affrontare Morigawa. Sconfiggerlo senza ricorrere, questa volta, alla corruzione della youki con l’alchimia. Sconfiggerlo e basta. A qualsiasi costo.

 

 

*****

 

Sciocchezze.

Ecco cos’era tutto quel ridicolo, convenzionale rituale. Solo un pesante, inutile, contorto insieme di sciocchezze. Una fissazione partorita dalla mente nei secoli passati, solo un barlume di facciata. Solo inutili sciocchezze. Fastidiose. Tediose. Deprecabili.

 

Gli avevano sempre dato fastidio. Non era mai riuscito a cogliere il loro senso, la loro utilità. Un lento, continuo, snervante affaccendarsi ad ottenere la protezione divina. Il favore degli dei. Ridicolo. Gli dei...agli dei non importa nulla della loro vita. Certo, ne può accettare l’esistenza, ne percepisce il respiro nel mondo che lo circonda, accondiscente che possano popolare il cielo. Per il resto, li ignora. Come loro non si curano di lui. Non avrebbe senso, curarsi dei demoni. Sono così simili e al contempo così lontani. Gli dei sono l’armonia, l’ordine, l’equilibrio, la luce. Gli youkai sono il disordine, il caos, l’oscurità.

 

Un sorriso gli storse le labbra, mentre faceva ricadere sulle spalle l’asciugamano umido. Aria fresca e saporita di ortensie. Albeggiava appena. Si gustò il tepore lieve dei primi raggi che gli carezzavano il viso. Non gli era mai importato della realtà che lo circondava. Era ovvia. E benchè lui non fosse eterno, la lunghezza della sua vita gli consentivano di non indugiare sulle malinconie del tempo che scorre. Il rimpianto della vita che si consuma è dei ningen. É la loro esistenza ad essere labile, rapida come il battito d’ali di una farfalla. Insignificante. Sopratutto se paragonata alla sua vita. Al suo tempo.

 

Sono i ningen a rincorrere certezze, a costruire rituali apotropaici e haniwa di terracotta per fissare il tempo e storcere il buio dell’angoscia. Gli ha sempre compatiti. Con superiore indifferenza. Lui basta a se stesso, non abbisogna di ricercare conferme o smentire fantasmi notturni. Lui esiste. Punto. Conosce la sua forza, è capace di calibrare la sua potenza. Controlla un territorio che copre quasi tutto Nihon, domina sui demoni come già suo padre prima di lui. Lui è. Questa è una certezza. La sua più grande sicurezza. Perfetto, fiero, orgoglioso, capace, potente, sicuro...

 

...incompleto. Sesshomaru si concesse un sorriso di scherno. Quella parola gli suonava strana. Non aveva mai soppesato la possibilità che gli potesse mancare qualcosa. Qualcosa che suo padre sembrava conoscere e che lui stava scoprendo per qualcosa di diverso da quello che aveva sempre ritenuto. Si era sempre considerato superiore a qui sentimenti che animano i ningen. Li aveva disprezzati, classificandoli come facili punti di debolezza su cui far leva per ferire e colpire. Non ne aveva mai avuto bisogno. La sua potenza smisurata era sempre bastata, concedendogli il privilegio di non abbassarsi mai all’inganno. La mente acuta calibrava ogni azione senza costringerlo a ricorrere a espedienti che gli risultavano fastidiosi.

 

Amore, dolore, passione, tristezza, anche il semplice desiderio carnale... bisogni non necessari, come lo erano il nutrirsi e il riposare. Da appagare sporadicamente per concedersi una distrazione, una piccola rottura nella normalità della sua vita. Un fluire certo e diritto, privo di qualsivoglia deviazione. Per nulla in grado di riscaldare la sua pelle, di far accelerare il suo respiro. Di perderlo.

 

Eppure...eppure, qualcosa era successo. Qualcosa di simile ad un incantesimo, che lo aveva avvinto con fili sottili, capaci di stringersi attorno a lui con sadica, malinconica, languida lentezza. Qualcosa che lo faceva infiammare di collera e bruciare di desiderio. Qualcosa che aveva costretto il suo cuore ad accelerare il suo battito, che aveva cosparso di sudore il suo corpo, che aveva acceso di passione i suoi occhi spenti. Irrazionalità. Abbandono. Annullamento. Violenza. Brama. E anche consapevolezza e ...paura. O un sentimento che poteva avvicinarsi a quello che lui credeva la paura. No. Meglio. Doloroso stupore. Come quello che aveva provato quando si era accorto della dipartita di suo padre.

 

Aprì e chiuse le mani. Gli sembrava di sentire ancora sotto gli artigli la morbidezza delle forme di Alessandra, il fruscio della stoffa, la sottigliezza dei suoi capelli. L’aveva stretta come mai prima di allora, l’aveva baciata, toccata, desiderata con una forza, con una voglia che non credeva che avrebbe mai potuto provare. Considerava impossibile per lui anche solo elaborare la volontà di volere una donna. Una schiavitù della carne da cui si proclamava orgogliosamente immune.

 

Le labbra di Alessandra, invece, erano state la perdizione, il suo respiro nelle orecchie eccitante, le sue mani sul suo corpo gli avevano strappato brividi intensi, più profondi dell’adrenalina che lo percorreva prima di un confronto degno di questo nome. Alessandra...i suoi denti fragili, il suo seno morbido, il pulsare veloce della giugulare sotto il tocco dei suoi artigli, l’ansimare contratto e il suo profumo. Quell’odore di acqua che aveva sentito in lei fin dalla prima volta. Un profumo che non era un’essenza distillata ad arte, ma che era sua. L’odore del suo essere umano. L’odore dell’essere donna. Un afrodisiaco innocente e intenso. L’odore della sua pelle, mescolato a quello del sudore e della trepidazione. Odore di donna che viene desiderata, stuzzicata, bramata.

 

Si passò la lingua sulle labbra, schiudendo appena la bocca. Un movimento lento e seducente. Lo stesso che aveva imparato a concedersi dopo che la baciava. Un tentativo di catturare meglio il suo sapore, di imprigionare a sè la sua bocca. Gli sembrava di risentirle quelle labbra morbide e carnose, bagnasi sempre di più, inaridirsi e poi tornare umide. Eccitanti. Dannatamente eccitanti. Se non fosse stato per la guerra incombente, se non fosse stato perchè...Non lo sapeva bene neanche lui, il perchè. Non riusciva a capirlo. Si ostinava a non volerlo capire. Accettare. Sapeva solo che in quel momento qualcosa, nella sua testa, dentro di lui, gli aveva detto: fermati. E lui aveva ubbidito. A fatica. Con molta, estrema fatica. Ma aveva ubbidito. E si era ritratto da lei. Doveva ringraziare la sua consueta abitudine nel dominare istinti e moti dell’animo. Perchè si era accorto di volerla come mai prima di allora, e che, probabilmente, se non fosse stato per il suo autocontrollo e la sua educazione, avrebbe per la prima volta lasciato libera la sua parte più istintiva. Più passionale. Più...umana.

 

Scrollò le spalle con eleganza, e riprese a frizionarsi i capelli ancora leggermente umidi. Alessandra gli aveva fatto qualcosa. Qualcosa che lo attraeva e lo impensieriva. Tuttavia, sapeva anche che non lo infastidiva, e che non aveva intenzione di sciogliere qualsiasi laccio la ragazza gli avesse gettato addosso. Almeno, non prima di averne realmente capito la natura.

 

Curioso. Non lo avrebbe mai pensato, ma era curioso. Voglioso di capire, interessato a comprendere. Voleva saper perchè la vicinanza di Alessandra lo tranquillizzava; perchè i suoi baci erano capaci di accendere ogni nervo del suo corpo, infiammandogli le vene e facendogli bruciore la mente. Voleva scoprire cosa lo spingesse verso di lei, verso quella che, in definitiva, non era altro che una semplice, insulsa ningen. In nulla dissimile da mille altre che aveva incontrato nel corso della sua vita, che erano morte sotto i suoi artigli senza un motivo valido. Senza una spiegazione che andasse oltre il semplice fatto che avevano incrociato la sua strada.

 

Ningen, donne, ragazze...Le aveva uccise incurante delle loro lacrime, infastidito dalle loro urla acute che gli avevano ferito l’udito sottile. Le aveva viste riversarsi a terra, la bocca congelata in un urlo privo di voce, gli occhi inesorabilmente vuoti. Aveva visto i loro corpi nudi, i seni floridi o cadenti, la pelle avvizzita o tonica, i ventri morbidi o sformati dalle numerose gravidanze. Le aveva viste. E le aveva ignorate. Come se davanti a lui ci fosse stato il nulla. I corpi di quelle donne non gli avevano procurato nessuna emozione, nessun brivido di macabra eccitazione. E nemmeno quelli delle demoni. Nessuna, fra le yasha degli altri Clan, aveva mai attirato l’attenzione del Principe. Le aveva incontrate poco e nelle occasioni ufficiali, avvolte in magnifici kimoni della stoffa più pregiata, pudiche e remissive come conviene ad una donna quando si mostra ad un uomo, e al contempo aveva visto balenare nei loro occhi l’orgoglio della loro razza d’appartenenza. La sicurezza della propria superiorità demoniaca. Nulla. Nessuna sensazione, nessuna emozione.

 

Aveva dormito stringendo fra le braccia Alessandra, aveva accarezzato e assaggiato il suo corpo, l’aveva baciata e fatta gemere. Il corpo della ragazza, il suo pudore, la sua ingenuità, il contatto anche solo con la stoffa che la avvolgeva erano più eccitanti e coinvolgenti do ogni altro contatto, di ogni qualsivoglia concessione. Un lampo nella memoria. Sesshomaru ricordò una notte di pochi anni prima. Una notte di estate, una delle rare che aveva trascorso a palazzo. Un ritorno inaspettato, inatteso anzi. Il Principe non è solito rientrare quando la stagione è particolarmente propizia agli spostamenti. Ciononostante, Sesshomaru ricordava perfettamente che, alla sera, quando era rientrato nei suoi alloggi, lo attendeva nella tenue luce di una andon una yasha. Bellissima e fiera nella sua sfrontata e provocante nudità. Aveva sperato di diventare l’amante del Principe e forse, un giorno, la sua consorte. Erano stati i cortigiani anziani a fargliela trovare nel letto, con il preciso scopo di avere finalmente in mano un’arma per meglio controllare quel Principe inavvicinabile e orgoglioso. Non avevano ottenuto altro che irritarlo. Sesshomaru aveva gelato la yasha con uno sguardo di sufficienza ed era uscito dai suoi appartamenti. Era ripartito il giorno dopo, all’alba.

 

Non gli era interessato il piacere carnale. Non si era mai curato di nulla che non suscitasse la sua attenzione, e anche in quel caso erano momenti veloci e difficili da cogliere. Attrarre il Principe era impresa estremamente difficile. Sesshomaru amava il confronto, la battaglia, l’adrenalina dell’azione che però sfuma troppo rapidamente in battaglia. É arduo sedurlo con le movenze del corpo, con la floridezza dei seni e la morbidezza dei fianchi. Labbra carnose e occhi bramosi non hanno mai avuto presa su di lui. Sesshomaru è consapevole che nulla ha mai smosso la sua parte maschile, la sua parte istintiva. Nulla, prima di Alessandra.

 

Scoprì i canini appuntiti. Un ringhio, o un sorriso di sfida. Non avrebbe neanche lui saputo dirlo. Era...eccitante. doveva confrontarsi con un nemico che, probabilmente, era l’unico capace di tenergli testa. Se stesso. Si era scoperto animato da differenti sentimenti, da volontà che cozzavano fra loro. Fino a quella sera, si era semplicemente lasciato investire dagli eventi, assecondandoli senza neanche rendersi conto fino a che punto stava entrando in lui un qualcosa di sconosciuto.

 

Alessandra era importante. Di questo era certo. Il punto era un altro. Cosa voleva dire quella parola: importante. Perchè lo sfidava, non si piegava? Sbagliato. Erano mesi che, se si incontravano nelle stanze pubbliche, Alessandra si rivolgeva a lui con una deferenza che non gli aveva mai usato, aggiungendo il suffisso onorifico al suo nome. Gli aveva provocato...qualcosa come di disagio. La prima volta che lo aveva sentito, pronunciato con una voce che suonava così forzata, artificiosa, falsa alle sue orecchie, era stato tentato di dirle di smetterla. Non lo sopportava. Perchè? Era normale che tutti si rivolgessero a lui in quel modo. Nemmeno Rin aveva mai messo in discussione quell’appellativo. Perfino Kumamoto, che si permetteva un rapporto anche meno formale, che svicolava dal rigido cerimoniale, era pronto a ristabilire le distanze se solo si formava il sospetto che al Principe non era portato il dovuto rispetto. L’ossequio gli era proprio e, ammetteva a se stesso, lo aveva irritato non poco, all’inizio, il fatto che Alessandra si ostinasse a dargli del tu. Allora aveva preferito non replicare; la ningen, come la chiamava, gli serviva per Rin. Ma in seguito...In seguito il sentirla pronunciare il suo nome in quel modo era diventata un’ovvietà. Un malinconico ricordo. Una sensazione forse piacevole. Anche se non lo avrebbe mai accettato.

 

Lasciò scorrere la mano sulla manica del braccio sinistro. Nonostante fossero passati già dei mesi, le capacità sensoriali erano ancora minime. Faticava a distinguere le sensazioni che gli arrivavano come ovattate. E quel fastidioso formicolio non accennava a passare. L’unica nota positiva era che il braccio aveva assunto un certo calore. Lontano da quello del resto del corpo, ma almeno non era più freddo come all’inizio. Lo mosse, sincerandosi di nuovo che ne era in possesso. Aveva provato più volte a sostituirlo, e alla fine non gli era più importato. Era comunque in grado di esprimere la sua forza anche menomato.

 

Adesso, però, il braccio gli era stato restituito, e tremava al solo pensiero di poter di nuovo stringere Alessandra. Scosse la testa. Aveva sperato che il bagno che aveva dovuto prendere lo aiutasse a ritrovare la lucidità. La trepidazione per uno scontro può giocare brutti scherzi, anche a lui, che da sempre misurava la sua vita sulla forza e sul duello. Aveva accolto quell’obbligo quasi come una liberazione. E, avvolto nei vapori termali, aveva lasciato vagare i pensieri, cercando di elaborare e rivedere la strategia decisa in precedenza. Non era del tutto persuaso che il piano di quel nemico, di Shin, avesse successo, e gli risultava decisamente sgradevole il pensiero di aver dovuto ricorrere all’aiuto di quel ningen, di quel monaco. Tuttavia, Sesshomaru sapeva quando era il caso di domare il suo orgoglio e di accondiscendere con superiore freddezza. Quasi non gli fosse offerto aiuto, ma fosse lui a concedere che gli fosse dato.

 

Alla fine, però, nonostante i suoi sforzi, la sua mente lo riportava sempre ad Alessandra. E a quelle sensazioni che gli erano esplose dentro all’improvviso. Era stato cosciente del fatto che, con il tempo, qualcosa in lui si era formato, qualcosa che non capiva da dove avesse origine e che si intestardiva nel non voler indagare. Ma poche ore prima, lo sapeva bene, aveva perso il controllo come mai si era aspettato che potesse accadere. Corrugò più volte la fronte, aggrottando le sopraciglia sottili. Fastidio. Un tremendo fastidio. Che davanti a lui, in lui, si scatenasse qualcosa che non riusciva a comprendere, a domare, stuzzicava la sua poca propensione alla pazienza.

 

Sbuffò appena, concedendosi quel piccolo sfogo nella sicurezza di essere solo. Se li concedeva di rado, quando era certo che nessuno lo stesse osservando. Non gli era concesso mostrare un tentennamento, un attimo di debolezza, di stanchezza, se la poteva chiamare così. Lui doveva sempre essere perfetto e intoccabile, inavvicinabile. Era quello che si era sempre prefissato, quello che gli era stato insegnato e di cui era andato fiero. E adesso, inspiegabilmente, iniziava ad andargli stretta. Claustrofobia. Quasi i panni che indossava da secoli fosse divenuti all’improvviso troppo stretti. Costrittivi.

 

Strappò dalle spalle l’asciugamano con uno schiocco secco. Avrebbe avuto tempo per districare quella confusione che gli irritava la mente. Tempo per capire e provare molte cose. Tempo per avere Alessandra e scoprire, finalmente, cosa gli aveva fatto. L’avrebbe avuto, questo era certo. Appena tornato vincitore dallo scontro. Dei festeggiamenti che ne sarebbero seguiti non gli importava nulla. L’avrebbe presa e trascinata nelle sue stanze con la forza se avesse opposto resistenza. La voleva e non le avrebbe permesso di sottrarsi. Questa volta, niente avrebbe potuto e dovuto impedirgli di capire se quello che sentiva era solo giovanile, normale in definitiva, desiderio fisico o se...se...c’era qualcos’altro. Qualcosa che lui non ricordava di aver mai provato.

 

Sì. L’avrebbe avuta. Ad ogni costo. Le avrebbe afferrato i polsi, l’avrebbe premuta sul futon, l’avrebbe baciata, avrebbe gettato lontano quel maledetto kimono dal taglio maschile, le avrebbe sciolto i capelli, l’avrebbe...Sorrise. Tristemente. Scernendosi di se stesso. Quelli erano solo pensieri. Sbagliati. Insensati. Perchè sapeva benissimo che, per quanto la desiderasse, se Alessandra si fosse mostrata contraria o anche solo impaurita, se non l’avesse sentita pronta, lui si sarebbe fermato. Lui non l’avrebbe costretta. Avrebbe potuto, ma inspiegabilmente sapeva che non l’avrebbe fatto. Era un atteggiamento che era nato in lui lentamente, e che aveva riservato solo a lei. Senza senso. Senza un vero perchè. E lo infastidiva non avere le risposte.

 

Avere Alessandra. Non era facile. Significava mettere in conto l’ostilità della corte. Significava considerare la reazione che i suoi subordinati avrebbero avuto e il pericolo cui sarebbe stata esposta la ragazza. Per se stesso, non aveva nessuna preoccupazione. Se solo avessero provato a sfidarlo, gli incuti sarebbero morti immediatamente. Senza esitazione. Perchè nessuno può azzardarsi a opporsi al suo volere.

 

Il problema, in fondo, era uno solo. Nessuno si sarebbe lamentato se avesse avuto un’amante umana. Non ne sarebbero stati entusiasti, ma non avrebbero nemmeno avuto reali motivi per opporsi. Gli eventuali problemi si sarebbero potuti sopprimere in fretta e lo spauracchio che potesse avere dei figli bastardi da un’eventuale amante erano dissipati dalla consapevolezza della sua repulsione per tutto ciò che non fosse di sangue puro. L’odio che nutriva verso il suo fratellastro era una prova più che sufficiente.

 

Alessandra, però, non sarebbe mai diventata la sua amante. Non lo avrebbe mai voluto lei, e lui stesso, lo sapeva bene anche se non voleva afferrarne le reali motivazioni, non lo avrebbe mai permesso. Alessandra non era mai stata e non sarebbe mai divenuta la sua amante. La voleva la suo fianco, voleva esser certo della sua presenza al castello, e sapeva che avrebbe dovuto trovare una soluzione. Qualcosa che la rendesse indispensabile. E non solo a lui. Non avrebbe potuto far reggere la scusa dell’archiatra ancora a lungo. Yaone si era messa al suo servizio, e la disparità fra la yasha e la ningen era spesso evidente. Palese.

 

Arrotolò l’asciugamano attorno al braccio. Basta. Ci avrebbe pensato. Adesso, la priorità era metter fine a quella dannata guerra. Era chiudere i conti con Morigawa e dimenticarsi dell’ombra di suo padre. Liberarsene sarebbe stato impossibile, ormai lo sapeva. Per prima cosa, però, doveva eliminare il problema del Principe del Kansai. Gli aveva arrecato già troppi guai, e causato una cecità che ormai non sembrava più avere soluzione. S sarebbe vendicato anche di quello. Naraku era il primo responsabile di quanto gli era successo, ma sfogarsi a quel proposito anche con Morigawa sarebbe servito a sfogare tutta la rabbia che aveva dentro. E la ferocia in battaglia, la fredda, letale ferocia che lo aveva sempre caratterizzato era la sua arma migliore per sfogare la carica di morte e distruzione che lo avvolgeva.

 

Ansimare sommesso. Qualche piccolo gemito. Sesshomaru si fermò davanti alle sohji chiuse. Il suo udito non poteva ingannarlo, e quelli erano proprio lamenti. Sussurrati, soffocati. Ingenui. Delicati. Infantili. Fece scorrere la porta sul telaio. Non era la prima volta che sentiva Rin lamentarsi nel sonno, ma era passato molto tempo da quando Rin aveva fatto un incubo. Nonostante l’assedio continuo che ormai durava da quattro-cinque mesi, la bimba si era sempre addormentata abbastanza serena nel duo futon, sotto la guardia vigile di Kiba.

 

Il lupacchiotto, appena riconobbe Sesshomaru dall’odore, smorzò il ringhio leggero della gola e riabbassò il capo sonnacchioso. Sapeva che il Principe non voleva far del male alla sua padroncina, e sapeva che la bimba gli era molto legata. Nei pomeriggi che il cucciolo aveva trascorso con lei, Rin aveva intrecciato più volte coroncine di fiori. Tante. Una per ogni suo amico. E una era sempre riservata all’inuyoukai, benchè Rin non lo vedesse quasi mai e sapesse per certo che non l’avrebbe mai indossata. Non importata. Rin la faceva sempre, per poi lasciarla sul tavolino nello studio privato di Sesshomaru-sama. Le bastava che il suo signore la pensasse anche solo così.

 

Kiba si stiracchiò pigramente, concedendosi un grande sbadiglio e rotolandosi meglio nelle coperte. Arrivò vicinissimo al corpo di Rin e le leccò piano una manina. Non gli piaceva quando la sua padroncina aveva gli incubi. Piangeva e di muoveva nel sonno, girando la testa da una parte all’altra. Sudava e si dimenava. Più di una volta l’aveva vista svegliarsi terrorizzata e allora lui le si accucciava in grembo e si lasciava stringere forte. Rin soffocava i singhiozzi nella sua pelliccia, assieme al nome di una persona per lei importantissima.

 

Sesshomaru sedette accanto al futon. Rin non smetteva di agitarsi. Ansimava e si arrotolava nelle coperte, preda di un incubo. Della più grande delle sue paure. La sera prima, il Principe si era recato nella stanza della bimba per augurarle la buona notte. Un comportamento davvero inusuale, almeno per quanto riguardava gli ultimi mesi. Nemmeno prima Sesshomaru degnava di apparente attenzione Rin, ma almeno, alla sera, le rivolgeva il suo sguardo indecifrabile. E Rin si addormentava con il sorriso sulle labbra, sicura che se avesse fatto un incubo ci sarebbe sempre stata una mano pronta a raccogliere la sua per tranquillizzarla. Non aveva mai visto Sesshomaru-sama avvicinarsi a lei e stringerla per consolarla; conservava solo il ricordo confuso di una percezione. Sicurezza. Ed era certo che fosse dovuto all’inuyoukai.

 

Quando Rin aveva visto Sesshomaru-sama entrare nella sua stanza aveva gettato via le coperte ed era corsa ad abbracciargli una gamba. Era strano. C’era qualcosa di strano in quella visita inaspettata. Di stonato. Lo sapeva Rin, ma ne era cosciente anche il demone. La bimba non rideva, non lo tempestava di domande. Non faceva nulla. Si limitava a stringere la stoffa degli hakama e a premere sempre di più la testa contro la sua gamba. Stava piangendo. Non sapeva neanche lei perchè, ma aveva voglia di piangere. Un desiderio fortissimo. Irrefrenabile.

 

“Perchè volete lasciare Rin sola, Sesshomaru-sama?” aveva pigolato fra i singhiozzi, stringendo ancora di più la presa. Non sapeva il motivo, ma quella visita le suonava tanto di addio, di abbandono, di solitudine. Sentiva che c’era qualcosa che non andava, che non era come le altre volte. Sesshomaru-sama era andato in battaglia molte volte, ma non si era mai recato a salutarla per quello. Il demone, invece, adesso era davanti a lei, impassibile, insensibile alle sue lacrime e ai suoi singhiozzi.

 

Sesshomaru aveva aspettato che il pianto di Rin si placasse, che i singhiozzi diventassero flebili e che le lacrime trascinassero con sè le forze della bambina. Solo allora le aveva posato una mano sulla testa, in una carezza un po’ rozza e imbarazzata, prima di prenderla in braccio e depositarla nel suo futon. Non lo aveva mai fatto. Non si era mai preoccupato di mettere realmente Rin a letto. Glielo ordinava, e la bimba eseguiva. Avrebbe potuto farlo anche in quel momento, ma qualcosa dentro di lui gli aveva urlato di tacere e stringere quel corpicino stanco.

 

Rin gli aveva gettato le bracci ala collo. Non voleva lasciarlo andare. Non voleva che uscisse dalla sua stanza. Non le era importato che il demone si arrabbiasse per esser toccato, perchè lo abbracciava. Non le era importato se l’avrebbe sgridata, se l’avrebbe schiaffeggiata. Andava bene lo stesso. Le sarebbe andato bene tutto, purchè Sesshomaru-sama non se ne andasse. Invece, il Principe l’aveva stretta forte e cullata come Rin non ricordava avesse mai fatto. Mostrandogli una gentilezza, un affetto che solitamente teneva ben celati nel suo cuore. Rin avrebbe voluto che cantasse quella canzoncina che le gli aveva sentito mesi prima. Era bello sentire la voce di Sesshomaru-sama intrappolata in parole inusuali. Era molto bello.

 

Sesshomaru non aveva parlato. Aveva avuto timore che Rin avrebbe colto l’inflessione roca, spezzata, della sua voce. Aveva avuto timore che si accorgesse di quello che provava. L’aveva fatta addormentare, e poi aveva trovato Alessandra nelle stanze di sua madre. Aveva trascorso con lei alcune ore, riaccompagnandola nella sua camera alla fine. Anche se la voglia di portarla nei suoi appartamenti, nel suo letto, era stata forte. Troppo forte. E adesso era di nuovo seduto accanto al futon di Rin. A immaginare il viso della bimba arrossato e bagnato da lacrime. A ricordare i capelli perennemente spettinati e le mani troppo piccole per riuscire ad afferrare qualcosa di più grande di un suo dito.

 

Sesshomaru si voltò verso le shoji che aveva lasciato aperte. Il silenzio innaturale lo tranquillizzava. Finchè non avesse sentito risuonare gli horagai risuonare nell’aria, poteva illudersi che il tempo si dilatasse e lui poteva concedersi un attimo di debolezza. Di quell’arrendevolezza che gli risultava, con irritazione fasulla, così necessaria.

 

Si sdraiò accanto a Rin e l’avvicinò al suo petto, avvolgendola nelle sue braccia e permettendo ai suoi capelli di sfiorarla e coprila come un velo. La sentì agitarsi ancora per u po’, prima di abbandonarsi al calore rassicurante che sentiva. La percepì cercare la sua mano in un gesto di inconscio desiderio di sicurezza e protezione. Rin strinse un dito del demone, avvicinandoselo al petto come se volesse custodire quell’attimo di intimità, di famigliarità, che il suo signore le concedeva. Si rannicchiò di più contro di lui, mentre la mano di Sesshomaru era scivolata nei suoi capelli, in una carezza continua. Sesshomaru non vide il leggero sorriso che arcuò le labbra della bimba, mentre le faceva scivolare nelle orecchie la melodia di una nenia antichissima. Non vide il sorriso di una bimba che ormai lo vedeva come un padre.

 

 

*****

 

 

Alessandra.

Ne percepì l’odore fresco, femminile. E non gli piacque. Non era pronto a incontrarla. Non così presto; non di nuovo. Non con ancora nella mente le sensazioni di poche ore prima, e il fresco dell’acqua sulla pelle. In quel momento, seppe che il bagno che aveva fatto non gli era servito a molto. Lo aveva rilassato, ma bastava solo l’odore della ragazza a risvegliare in lui qualcosa di istintivo e passionale. Qualcosa che non sapeva come giostrare, e che non era sicuro di poter controllare.

 

Sesshomaru si era aspettato di trovare un attendente. Kumamoto o forse un semplice subordinato. Chiunque. Non avrebbe avuto importanza. Ma non lei. Lei vicino alla mado, lei che si volta e gli sorride in modo strano, con una punta di rossore che la renderebbe ancora più desiderabile se l’inuyoukai la potesse vedere. Lei che veste quel suo solito kimono dal taglio maschile, con i capelli raccolti e l’assenza di ogni elemento prettamente femminile. Lei che cela la sua natura umana, che cerca di apparire sicura e impeccabile, che si ostina a rasentare una perfezione che non possiede solo per lui. Perchè nessuno possa rimproverargli il fatto di averla portata a palazzo, perchè lui non debba preoccuparsi, perchè lui resti intoccato da voci e dicerie velenose.

 

Sesshomaru richiuse lentamente la fusuma alle sue spalle. La stanza dell’armatura. Dove si è mostrato remissivo per la prima volta, dove le ha chiesto scusa. Non riesce a capire perchè è lì. Sa solo che è pericoloso. A momenti deve arrivare qualcuno che lo aiuta nell’indossare la corazza che è stata di suo padre. Perchè ha scelto di vestire quell’armatura per l’ultimo scontro. Ha rifiutato l’idea di indossare la sua abituale corazza e ha optato per quella paterna, più pesante e complessa, ma anche più spettacolare. Sarà ben visibile da lontano, da ogni parte del terreno di scontro. I suoi uomini sapranno che si sta battendo con loro, in prima fila. E Morigawa lo avrà sempre davanti agli occhi. Assieme ai fantasmi che quell’abbigliamento portano con sè.

 

Non lo entusiasma l’idea. Vestire la corazza di suo padre, dei suoi antenati non lo alletta per nulla. Rievoca ricordi molto spiacevoli. Ha dovuto indossarla una sola volta, duecento anni prima. Il giorno in cui è salito al trono del suo Clan. Ricorda ancora nitidamente il senso di claustrofobia, di pesantezza che le vesti e il metallo gli avevano trasmesso. A quel tempo, la corazza era troppo grande per lui. Era stato costretto a tenerla ferma con un complicato sistema di cinghie che gli avevano legato i movimenti. Togliersela era stata una liberazione. Ma quello che non era mai riuscito a scrollarsi di dosso era il ricordo di suo padre, l’ombra della sua figura.

 

Socchiuse gli occhi. Non aveva tempo per pensare. Non aveva più molto tempo. La piana decisa per lo scontro distava alcune ore di marcia, e l’esercito si stava già allineando nella piazza d’armi in attesa di essere passato in rivista. Prima della battaglia. Sesshomaru sapeva che a breve sarebbe uscito dalla porta del suo palazzo, sapeva che vi avrebbe lasciato all’interno una bambina che gli aveva regalato sorrisi e aveva addolcito gli spigoli della sua anima dilaniata. E sapeva anche che avrebbe lasciato una donna senza averla amata. Che avrebbe corso il rischio di non vederla più senza prenderle qualcosa che il suo corpo desiderava. Il calore di quell’abbraccio, la perdizione di quelle labbra. Per la prima volta in vita sua, nonostante la consapevolezza della sua forza, il Principe si sentiva insicuro. Scendeva in battaglia senza la consapevolezza se sarebbe tornato vincitore. Non aveva mai messo in dubbio la sua vittoria; l’annientamento di Morigawa era un dato certo nella sua mente. Eppure, in quel momento, si accorse che davvero la cecità avrebbe potuto essere il peso decisivo sui piatti della bilancia del suo futuro. Per la prima volta, lo sfiorò il pensiero di non tornare. Che sarebbe potuto morire in quello scontro. Non da solo; Morigawa sarebbe caduto con lui, ma il suo cervello elaborò velocemente la possibilità che per abbattere il nemico il suo corpo sarebbe dovuto divenire preda dei suoi artigli e del suo furore.

 

D’altro canto, su chi avrebbe potuto contare per elaborare una strategia diversa? Non c’era più tempo, e comunque, anche se ce ne fosse stato, non era da lui ricercare l’aiuto di qualcuno. Di chi, poi? Koga e Kumamoto erano suoi alleati, ma non si sarebbe mai abbassato a chieder loro appoggio in battaglia. Fare affidamento sul Sensei era del tutto inutile. Appariva e spariva come vento, inconsistente nelle sue decisioni, evanescente. Sarebbe stato capace di accompagnarlo fin nelle fauci di Morigawa per poi lasciarlo lì. Abbandonato a se stesso, solo per un capriccio di una mente troppo imperscrutabile. Irritante l’idea di potersi appoggiare al ningen che sarebbe andato con loro. Eresia.

 

Chi gli restava, allora? Se ci fosse stato suo padre, almeno. No qualcuno gli restava. Qualcuno che aveva sbraitato come un ossesso nel sapere che gli era impedito di prender parte ad uno scontro con Naraku; qualcuno che gli aveva urlato contro rabbia e forse anche delusione. Frustrazione e impotenza. Qualcuno che aveva perso pazienza e contegno davanti alla corte e a lui come il Principe non aveva mai fatto. Qualcuno che, per un istante, un solo istante, aveva destato in lui una specie di malinconica invidia. Qualcosa di assolutamente disdicevole e irritante. Inuyasha.

 

Sesshomaru era cosciente che solo con lui avrebbe potuto attuare un attacco combinato, ma eliminato l’idea appena si era formata. Non avrebbe mai permesso al suo fratellastro, all’onta che infangava l’onore suo e di suo padre di scendere sul campo al suo fianco. Lo aveva tollerato fin a quel momento, aveva, in certe occasioni, assunto nei suoi confronti un atteggiamento che lui stesso riusciva razionalmente a spigare, ma non gli avrebbe mai messo in mano la possibilità di insinuarsi ancora di più nella mente dei veterani. Avrebbe estirpato le voci che paragonavano suo fratello al padre alla radice. Precludendogli lo scontro con quello che era il suo più acerrimo nemico. Quasi a sottolineare che un dannato hanyou non sarebbe mai riuscito a sconfiggerlo. Per rimarcare la sua potenza di demone puro. E perchè, in definitiva, Naraku era un argomento che lo riguardava da vicino. Aveva cercato più volte di servirsi di lui, lo aveva coinvolto suo malgrado nei suoi intrallazzi cervellotici, aveva avuto l’ardire di pretendere di usare lui. Sesshomaru. Principe dei demoni. Gliel’avrebbe fatta pagare. Cara. Carissima.

 

Mancanza. La sensazione di esser stato privato di qualcosa lo ricondusse alla realtà. Inclinò la testa di lato, aggrottando appena il viso. Alessandra era davanti a lui. le mani della ragazza erano scivolate all’ hanhaba obi del suo yukata. Sciolto. Con lentezza esasperante, con gesti audaci. Lo stava ripiegando sulle mani. Una fascia di cotone, sottile, bianca. Risaltava nettamente contro l’indaco della stoffa. Alessandra lo rigirò fra le mani per tutta la sua lunghezza, prima di lasciarlo cadere sul tavolino laccato.

 

Appoggiò le mani sul petto del demone, lasciandole scorrere lungo il lino fino a risalire alle sue spalle, premendo sulla stoffa in modo eccitante, sfiorando i muscoli nascosti e la pelle ancora leggermente umida per il bagno. Socchiuse gli occhi quando Sesshomaru le accarezzò il viso con il dorso della mano. Lasciò che le esplorasse le gote, gli zigomi, le labbra. reclinò la testa sul suo petto quando la mano raggiunse la sua nuca, accarezzandola in modo maledettamente seducente. Gli schiuse le braccia attorno al collo mentre i capelli ricadevano sciolti sulla sua schiena e le braccia del Principe la catturavano, stringendola possessivo al suo corpo.

 

Alessandra assaporò il respiro di Sesshomaru fra i suoi capelli, l’eccitazione di mani che la esploravano con bramosia sempre maggiore. Il volto del demone che scendeva lungo il suo, fino al collo, alitandole all’orecchio, sulla gola, affondando nell’incavo del collo. Non lasciò che le denudasse le spalle. Gli sollevò in viso e lo baciò con forza. Con rabbia. Con desiderio. Non poteva perderlo. Non voleva che andasse a combattere. Voleva che restasse con lei. voleva che la stringesse fra le braccia e l’amasse. Voleva risentire il suo respiro eccitato, le sue mani che la sfioravano. Voleva i suoi artigli sulla pelle, la sua bocca sul corpo. I capelli che si confondono, l’imbarazzo e la sfacciataggine che li aveva avvolti solo poche ore prima. Il rossore del suo viso e il desiderio dei suoi occhi. Voleva che la guardasse ancora in quel modo. Con le iridi d’oro liquide per il passione, per la voglia che aveva di lei.

 

Insinuò le mani nello scollo dello yukata. Non credeva che la paura di perderlo le avrebbe dato una simile sfacciataggine. Nessuna vergogna. Nessuna inibizione. Costrinse la stoffa a scivolare dalla spalle del demone, aprendosi leggermente a scoprire l petto glabro. Scendeva lungo braccia dai tendini guizzanti e con le vene appena accennate. L’addome leggermente scolpito, con l’arcata epigastrica che sottolineava quella muscolatura conturbante. Le gambe tornite, agili. Lo yukata rimase a terra, mentre Alessandra percorreva con l’unghia i contorni di quel corpo. Quel corpo eterno, quasi divino. Quel corpo così diverso dal suo. Miserevolmente umano e soggetto al tempo.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi quando Alessandra accostò le labbra al suo petto, schiudendo le labbra. Secco. Aveva la bocca arida e la lingua di pietra. Ma le labbra della ragazza ero umide, calde, coinvolgenti. La sentiva ansimare leggermente, accaldata, eccitata. E si accorse lui pure di essere sul punto di non rispondere più di sè. Le mani gli scivolarono al corpo della ragazza, s’insinuarono sotto il corto kinomo, andando ad accarezzare la pelle della schiena. Dapprima uno sfiorarsi leggero, quasi indistinguibile da quello della stoffa. Poi sempre più audaci. Le esplorarono la colonna vertebrale, le scapole, scendendo fino alla fascia degli hakama. Sesshomaru costrinse il viso di Alessandra alle sue labbra assetate. Le premette la nuca contro di lui, assaggiandola con violenza. Pelle, capelli, respiri...Si confusero in un bacio passionale e rabbioso. Irrazionale. Un demone pressochè nudo che stringeva fra le braccia un corpo umano. Fece scivolare una mano sul seno della ragazza. Alessandra si appoggiò maggiormente a lui, ma non si ritrasse. Gli artigli si fecero strada fra le pieghe della veste. Raggiunsero la pelle leggermente accaldata e la sfiorarono in un brivido che fece ansimare la ragazza. Il respiro sempre più violento e irregolare. Una mano affamata di donna, di carne, di scoprire. Sesshomaru le sfiorò un seno, e Alessandra si risveglio d’improvviso.

 

La sua mano fermò quella del demone che la guardava con una punta di sorpresa e delusione. Sesshomaru non capiva se era stata la sua audacia a metterla in imbarazzo, o se c’era dell’altro. Cercò di impedirle di allontanarsi, rimpossessandosi della sua bocca e imprigionandola con le sue braccia. Non poteva. Non poteva stuzzicarlo a quel modo e poi ritrarsi così, senza un vero motivo. Non poteva portare la sua mente alla follia, al delirio dei sensi, e poi...poi ritrarsi come scottata. Alessandra gli bruciava sulla pelle, nella carne. Lo infiammava in modo doloroso, facendogli gemere ogni fibra del corpo.

 

“Devi...prepararti...”

 

Sesshomaru scosse la testa. Non gli importava della battaglia, non gli importava del suo orgoglio, del nemico che lo aveva umiliato. In quel momento, la sua mente riusciva solo a elaborare l’immagine di Alessandra, a gustare l’idea di restare stretto a lei, di affondare nel suo calore e sentirla finalmente sua. Sua e di nessun altro. Non gli importava cosa avrebbe pensato la corte, non gli interessava la morale che gli era stata impartita, l’onore che avrebbe macchiato. Alessandra non era una donna, una ningen, un essere umano. Alessandra era Alessandra e basta. E la voleva con ancora più desiderio, più passione, più voglia di poche ore prima. Adesso che l’aveva fra le braccia, non l’avrebbe fatta andar via di nuovo.

 

“Se vuoi fermarmi, dovrai essere molto convincente”

 

Glielo soffiò all’orecchio, prima di tornare a baciarla. Di soffocare una sua possibile risposta con la sua bocca affamata. La costrinse quasi a dimenticare il respiro, sentendola sempre più eccitata e desiderosa. Vogliosa. Quella non era la ragazza che aveva incontrato mesi prima. E lui non era il demone freddo e insensibile che tutti conoscevano. C’era qualcosa di diverso adesso. Qualcosa che impediva a entrambi di pensare razionalmente.

 

“...il tuo orgoglio...”

 

“...non basta...”

 

Sesshomaru riuscì ad allentare lo scollo del kimono, e fece scivolare la bocca lungo le scapole, seguendo una linea immaginaria che lo portava sempre più in basso. Alessandra era rimasta pressochè vestita, mentre lui era coperto solo dal fundoshi. Sentì il calore del sole di maggio sfiorargli la pelle sudata, allungarsi sul corpo suo e di Alessandra. Avrebbe voluto poterla contemplare nuda in quella luce, bearsi dei riflessi bruniti che il sole le avrebbe donato. La trascinò con sè sul pavimento, afferrandole i polsi e bloccandoglieli sopra la testa. Piegandosi fino a soffiarle sulle labbra. Una mano le solleticava la gola. Artigli vicino alla giugulare. Un pericolo che per la ragazza non esisteva. Sesshomaru le fece stringere con le gambe i suoi fianchi, prima di sprofondare nel suo seno. Lasciò che gli accarezzasse i capelli ormai spettinati e scomposti, che scendesse lungo la sua schiena nuda, lungo le spalle e le braccia.

 

“...ti stanno...aspettando...”

 

“...non importa...”

 

Si sollevò sulle braccia. La sovrastava. Alessandra gli passò le mani attorno al collo e lo rovesciò sul pavimento. Sesshomaru non aveva opposto resistenza. Quella situazione inusuale lo eccitava in ogni recesso del corpo. Alessandra era sopra di lui. Le mani ai lati della testa e i capelli che ricadevano disordinati lungo il collo e sul suo petto. Le gambe attorno al suo addome e il corpo quasi riverso sul suo.

 

Sentì qualcosa di umido bagnargli il viso, e poi ancora. E ancora. E un lieve tremore scuotere il corpo che lo premeva a terra. Alzò una mano fino al viso di Alessandra. Umido. Bagnato. Salato. Come le lacrime che gli erano cadute sulle labbra. Non capì. Quelle lacrime non avevano senso per lui. adesso che era con lei, che era stretto fra le sue braccia, che non voleva altro che quella ragazza...lei piangeva.

 

“Non mentire…”

 

Lacrime più copiose.

 

“Non mentire”

 

Un piccolo pugno sul petto.

 

“Non mentire!”

 

Un secondo colpo. E un terzo. Pugni sempre più forti. Lacrime che ormai le solcavano la pelle. Rabbia, dolore, rassegnazione. Continuava a ripetere quelle parole come una cantilena snervane. Ribellandosi quando lui cercava di calmarla, cercando il suo corpo se lo sentiva allontanarsi. Alessandra agitava la testa e i capelli frustravano il suo viso e il petto di Sesshomaru. Lo colpiva e lo graffiava, per poi baciarlo e riprendere a picchiarlo.

 

Sesshomaru non sentiva male. Non sentiva nulla. Solo il respiro roco e spezzato di Alessandra, e l’odore sempre più forte delle sue lacrime. Era crollata. Dopo tutti quei mesi, era caduta la maschera che si era imposta. E adesso gli vomitava contro rabbia e solitudine, i macigni che aveva dovuto tenere dentro di sè per non allarmare e insospettire la corte.

 

Sesshomaru, all’ennesimo pugno, le afferrò le spalle e la costrinse sul suo petto. La strinse e non la lasciò nonostante Alessandra si dimenasse e scalciasse, urlasse e piangesse facendolo dolere per l’udito sottile. Allentò la stretta quando fu certo che non lo avrebbe di nuovo aggredito e che si era realmente calmata. Alessandra sentì le braccia del demone scivolare lentamente sul suo corpo. Le ci vollero minuti eterni per trovare la forza di rialzarsi prima sui gomiti e poi a sedere. Si ricompose come potè e raggiunse carponi gli abiti da battaglia del demone. Sesshomaru doveva andare. Doveva aiutarlo a vestirsi come aveva prefissato. Solo quello. Tutto il resto, era successo senza che lei avesse il controllo del suo corpo. Lasciando che la passione, il desiderio, l’irrazionalità e la paura avessero il sopravvento.

 

Si trascinò in piedi e afferrò il hadajuban. Cotone bianco e morbido. Lo strinse al petto. Adesso, doveva farglielo indossare. Doveva lasciarlo scorrere sulla pelle e lisciarne le pieghe. Sesshomaru era in piedi dietro di lei. L’abbracciò alla vita e le poggiò la testa sulla spalla. Voleva confortarla e rassicurarla.

 

“Posso vestirmi da solo”

 

Alessandra scosse la testa, e mentre le lacrime ritornavano a scendere, avvolse il corpo dell’uomo che amava con quella stoffa bianca. Il sole si infrangeva sulla pelle diafana, nei capelli d’argento, negli occhi d’ambra. Nuovo pezzo. Il nagajuban. Sistemò la sottoveste blu di seta, indugiando su ogni piega per imprimersi bene nella mente i contorni di quel corpo. Strinse il nodo del koshihimo e lasciò scivolare le braccia attorno alla vita del demone. Aveva bisogno di un attimo, prima di continuare. Sesshomaru si limito a stringerla a sè, accarezzandole la nuca. In quel momento, non gli interessò che avrebbe già dovuto passere l’esercito in rivista. Dimenticò il fragore della battaglia e il sapore del sangue. Nella sua mente c’era solo il dolore cui costringeva Alessandra. Lei fragile, insicura, ferita, umiliata, irrisa. Lei che aveva reagito creandosi una corazza, che aveva allontanato tutto e tutti, che aveva mostrato una sicurezza quasi arrogante e una forza invidiabile.

 

Sesshomaru la conosceva bene. Alessandra aveva sempre venduto fumo alla corte. Che non fosse una smidollata lo sapeva, ma aveva anche imparato che poteva crollare. Più facilmente di quanto si era aspettato. Aveva imparato che, per riuscire a riposare la notte, anche quando era con lui, aveva bisogno di ricorrere a infusi calmanti. Si era accorto che mortificava se stessa in abiti anonimi e maschili non semplicemente per sviare l’attenzione dalla sua figura, ma perchè non sopportava di essere osservata. Voleva apparire invisibile perchè si considerava invisibile. Si sfiniva con gli impegni all’ospedale pur di non esser costretta a pensare, tuffava tutta se stessa in un qualcosa che la assorbiva e la drogava. L’unica cosa che era mutata era il contatto fisico. Adesso, sembrava averne bisogno sempre. Lo ricercava con la stessa trepidazione con cui lo rifiutava. Alessandra aveva allontanato più volte il corpo del demone, in passato. Adesso, quando lui si coricava al suo fianco, lo abbracciava in modo possessivo, affamato. Non voleva altro. Solo quel calore.

 

Sesshomaru riconobbe le mani di Alessandra sul collo. Stava cercando di sistemane l’han-eri. Sovrappose le loro mani e la guidò nei movimenti, prima di risalire a quel viso che adesso piangeva in silenzio. Sesshomaru si piegò per baciarla, ma Alessandra gli negò la sua bocca, limitandosi a intrecciare la mano fra i suoi capelli. L’inuyoukai scivolò con il viso lunga la guancia, risalì alla fronte e accostò le labbra alla tempia.

 

I movimenti erano vuoti. Il kimono bianco avvolse il demone, e poi gli hakama, e ancora l’haori. Ogni volta, Sesshomaru cercava di ricondurla a sè e ogni volta Alessandra concedeva sempre meno. Ma bastava che lui fosse più discreto, e allora era la ragazza a risvegliare ogni suo centro nervoso. Lo desiderava, lo eccitava e poi si ritraeva come pentita. Sentiva le lacrime scendere sempre. Non si preoccupava nemmeno del kimono umido e della sgradevole sensazione che avvertiva sul collo. C’era solo il demone. La sua pelle, il suo corpo, il suo calore. E la consapevolezza che lo stava allontanando da sè. Avrebbe voluto spogliarlo di nuovo, e amarlo. Avrebbe voluto il suo respiro, la sua bocca audace. Sesshomaru, invece, si limitava a immaginare ogni suo movimento, sostituendosi alle sue mani per meglio fissare i vari pezzi della corazza.

 

Alessandra si allontanò appena da lui. Era bellissimo. Il sole faceva risplendere le eleganti cesellature degli schinieri, del pettorale. Le spade rifulgono sospese al fianco, avvolte dalla fusciacca di seta blu con ricami in argento. L’ultimo particolare: la pelliccia bianca. Alessandra faticò a sollevare l’ampio mantello. Aveva l’odore del vento e di uomo. Un odore intenso, simile a quello di Sesshomaru, e così diverso. Forse era l’odore del padre. Forse era il profumo dell’età antica di quella pelliccia. La fissò sotto gli spallacci, e si trovò in trappola.

 

Sesshomaru aveva cercato disperatamente di riacquistare lucidità, analizzando con freddezza ogni gesto di Alessandra. Aveva tentato di mettere a tacere il suo istinto, di domare il suo desiderio. Era convinto di esser nuovamente riuscito a riportare l’autocontrollo su se stesso, ma erano bastate le braccia della ragazza attorno al suo collo e il suo respiro troppo vicino per sgretolare i suoi intenti. La strinse al petto, la premette all’armatura. Alessandra si aggrappò a lui come un naufrago, bagnando il metallo e i broccati di sale. Avrebbe voluto trattenerlo. O andare con lui. Non lasciarlo. Mai. Mai. Mai.

 

Sesshomaru la spinse contro una parete, affondando nella sua bocca, premendole la testa sulle sue labbra, scarmigliandole i capelli. Scese sul collo in una scia di baci e morsi sempre più eccitanti e irriverenti. Le leccò la clavicola, mentre faceva scivolare il kimono dalle spalle. La morse piano, in un brivido intenso che la fece tremare. Si aggrappò di più a lui, reclinando la testa all’indietro, mentre le mani di Sesshomaru erano scese all’obi. Rumore di stoffa lacerata. Gli artigli tagliarono velocemente la seta pregiata. La bocca del demone era all’attaccatura del seno. Vogliosa. Irrefrenabile. Affamata. Pericolosa.

 

Lo vide schiudere la bocca in un sorriso malizioso, leccandosi le labbra e i canini appuntiti. Era eccitante. Maledettamente eccitante. Ingabbiato in quella corazza, il suo viso accaldato, leggermente bagnato di eccitazione, gli occhi brillanti e attraversati da ombre di istinto, i capelli leggermente spettinati che ricadevano sulla fronte, sul collo, sul petto. Era a un passo dell’estasi. Sembrava un dio. Una divinità travolta d qualcosa che non può controllare e da cui si lascia guidare.

Sesshomaru decise. Non voleva più ragionare. Ha Alessandra fra le braccia. La desidera. La brama. La vuole. Sente ogni fibra del suo corpo ricercare la pelle della ragazza, la sua bocca intrappolare quelle labbra, stingerle fra i denti e morderle come se aspettasse di gustare un frutto carnoso. La premette di più contro la parete, affondando il viso nell’incavo del suo collo, mentre una mano scivolava sui suoi fianchi, scendendo verso la coscia. Strinse fra gli artigli la bretellina che univa gli orli del kimono. La solleticava con gli artigli, stuzzicando assieme la pelle che sfiorava. Bastava una leggera pressione dell’unghia affilata, e Alessandra sarebbe rimasta a seno nudo davanti a lui.

Le sorrise. uno di qui rari, suadenti, conturbati sorrisi che aveva imparato a formulare. Per lei. Solo per lei. Chiuse gli occhi, mentre riprese a baciarla. Sentì la bretellina assottigliarsi lentamente. Un crepitio leggero.

 

“Padron Sesshomaru”

 

Sesshomaru ignorò la voce sgradevole. Se la stava solo immaginando. Impedì ad Alessandra di allontanarsi dalla sua bocca, racchiudendole in viso fra gli artigli, accarezzandole la pelle sudata e calda.

 

“Padron Sesshomaru! Mi perdoni, ma la stanno aspettando”

 

L’odore sempre più vicino e il lieve, appena accennato scorrere del legno lungo i canaletti. Sesshomaru fu costretto a scostare la testa per prendere respiro e fermare quello che, ai suoi occhi, appariva come un intruso da eliminare subito. Jacken era arrivato, con la sua voce gracchiante, a riportarlo alla realtà dello scontro imminente. Aveva già esitato troppo. E il fuoco che Alessandra riusciva a versare nelle sue vene aveva quasi piegato le sue precauzioni, incendiando e distruggendo.

 

“Arrivo”

 

Jacken bofonchiò qualcosa e si allontanò. Sesshomaru sospirò dentro di sè. Il demonietto non aveva notato il tono inusuale della sua voce. Benchè avesse cercato do modularla, gli era uscita roca e aggressiva. Gli aveva risposto, ma il suo viso non si era mosso. Restava inchiodata a quello di Alessandra, al sale che scorreva e gli bagnava le dita. La baciò un’ultima volta, mentre le risistemava sulle spalle il kimono.

 

“Aspettami”

 

Glielo soffiò in un orecchio, staccandosi da lei con disperata violenza. Si strappò da lei quasi a forza, incapace di toglierle gli occhi di dosso, impossibilitato a formulare un pensiero realmente coerente. Doveva costringersi a ritornare il demone spietato e freddo di sempre. Doveva chiudere alla mente le sensazioni e l’istinto. Alessandra si lasciò scivolare lungo la parete, svuotata. Raccolse le ginocchia al petto e continuò a fissare la schiena del demone. L’argento dei capelli che riluceva contro il bianco del mantello e il bronzo del sole. Lo vide tentennare davanti alla porta ancora chiusa e si accorse di parole che le uscivano dalle labbra. Con una voce rotta dal pianto e dai singhiozzi.

 

“Tu sei per me padre, e nobile madre, e fratello, tu sei...”

 

Sesshomaru si fermò aspettando la fine di quei versi in una lingua mai sentita. Non capiva cosa volessero dire, ma sentì il peso che dovevano avere per Alessandra. Una confessione, un riconoscere in lui qualcosa che le era necessario. Vitale. Aprì lentamente la fusuma, sperando di sentire ancora la sua voce. Chiuse gli occhi mentre vacava la soglia, obbligandosi a non sentire lo scorrere assordante delle lacrime sulla pelle della ragazza, i singhiozzi soffocati dalle mani, il respiro annodato in gola.

 

Alessandra fissò la fusuma richiudersi e si rannicchiò di più su se stesso, rovesciandosi al suolo e stringendosi le braccia al seno. Aveva paura. Una folle, disperata paura. Di perderlo. Di non vederlo più tornare. Di non esser abbastanza forte per affrontare la corte mentre lui non c’era. Paura di restare sola. Di nuovo. Miserabilmente sola. Abbandonata.

 

Strinse forte lo yukata abbandonato sul pavimento. Sapeva di lui. Di muschio. Di demone. Di uomo. Lo stinse affogandovi il respiro e i singhiozzi che le squassavano il petto. Battendo con rabbia rassegnata un pugno sul pavimento, maledicendosi per non avere la forza, le capacità per seguirlo in battaglia. Imprecando contro se stessa per esser solo una donna. Una misera, insulsa donna umana. Inutile a lui. Incapace di aiutarlo davvero. Affamata di lui. Necessaria di Sesshomaru.

 

...tu sei il mio sposo fiorente

 

 

*****

 

 

Tenebra.

Di che colore sono, le tenebre? Che razza di domanda! Le tenebre sono nere, buie, profonde. Le tenebre sono…Accidenti! Ma che cosa gli importa, delle tenebre? Quello che prova è diverso. Non sono le tenebre. Non sente niente. Non riesce a distinguere nemmeno il suo corpo. Sempre se ce l’ha ancora, il corpo. Potrebbe benissimo esser morto. Un colpo più forte, un ferro che affonda di più nella carne…e tanti saluti al mondo. Ucciso in un buco di prigione. In uno squallido, disdicevole buco nella roccia.

 

Patetico. Vorrebbe ridere, ma non sa neanche se ha ancora una bocca per farlo. Suo fratello sarebbe fiero di lui. Ha resistito bene. Ha resistito a lungo. Non si è fatto cavare nulla di bocca. E poi…cosa diavolo doveva raccontare?! Che avevano deciso di metter fine a quella follia? Inutile. Lo sapevano già. Lo avevano ingabbiato proprio per quello. Che odiava a morte quel rivoltante hanyou e che gli avrebbe volentieri stappato le interiora? Minacce. Vuote e futili minacce. Ridotto com’era, non era nemmeno in grado nemmeno di difendersi dai colpi dei suoi carcerieri.

 

Lo avevano torturato a dovere. Con sadismo. Compiacendosi degli spasimi dei suoi muscoli, dei solchi sanguinolenti che i ferri roventi tracciavano nella sua carne. Ricordava che a un certo punto non aveva più sentito le braccia, né il sangue che colava dalle abrasioni delle catene, né le sferzate. Aveva sentito solo voci, e il dolore, la follia erano diventate lontane. Sapeva di non esser svenuto subito, ma nemmeno in quel momento avrebbe potuto dire se era cosciente o se invece era solo la sua mente a ragionare.

 

Dannazione! Dannazione! Se solo non fossero ricorsi a quel maledetto trucco per prenderlo i demoni di Naraku se lo sarebbero sognati di potersi far beffa di lui. E invece…Invece lo avevano incastrato proprio per bene. Usare sua madre come dissuasore era stata una mossa maledettamente scorretta, e maledettamente efficace. Non poteva certo arrischiarne la vita. Lo sapeva che avrebbe preferito morire piuttosto che cedere a quelle braccia che la immobilizzavano, ma lui non ce l’aveva fatta. Lui non era forte. Non lo era mai stato davvero. Finchè al suo fianco c’era suo fratello, il discorso era un altro. E, forse, se si fosse trovato da solo avrebbe rischiato anche il tutto per tutto. Al diavolo anche la sua vita. Gli faceva schifo ogni giorno di più. Voglia di sputarsi addosso e prendersi a schiaffi.

 

Pazienza. Ormai, sembrava tardi anche per l’autocommiserazione. Erano nei guai. In grossi, grossissimi guai. E disperava che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarli. All’accampamento, la parola di suo padre era legge e Naraku aveva agito su suo ordine. Il padre che imprigiona e uccide i figli per non perdere il potere. Credeva che potesse succedere solo in Clan di infimo livello. Credeva che il suo Clan si sarebbe sempre mantenuto al riparo da simili farneticazioni dinastiche. Morto suo padre, l’erede era già stato designato da tempo. E lui non si sognava di certo di muovere mari e monti per prenderne il posto. Gli andava bene così. Sarebbe stato il naturale svolgimento delle cose. Non gli interessava minimamente una responsabilità opprimente, una gabbia dorata che lo avrebbe costretto a dominare un carattere troppo impulsivo e acceso. Non era fatto per la diplomazia, lui. Se qualcosa non gli andava bene, ricorreva alle mani. Testardo, impulsivo, avventato, irresponsabile…Risentiva tutte le sfuriate di suo fratello dopo che lo aveva aiutato a uscire dai guai in cui si cacciava. Altro che uno dei principi! Il suo comportamento assomigliava piuttosto a quello del più infimo dei demoni. Se ne sarebbe anche vergognato, se non avesse saputo che ai suoi fratelli andava bene così. Che gli volevano bene anche con quel carattere indomabile e la sua cocciutaggine.

 

Deprimente. Stava conversando con il nulla. O con qualunque cosa fosse quel nero che aveva davanti agli occhi. Gli montava il sangue alla testa solo al pensiero che, forse, non avrebbe mai potuto rifare i connotati a quei maledetti demoni che gli avevano riservato quel trattamento certosino. Facile vincere contro un principe, contro uno inuyoukai se lo si droga e si tengono in ostaggio davanti ai suoi occhi i suoi famigliari. Certo, ad un demone forse non dovrebbe importare nulla. A suo padre, arrivati a questo punto, non importava di certo. Ma non era quello che gli era stato insegnato. Non erano state quelle le parole che Takakuni aveva impartito loro. All’inizio aveva sogghignato. I sentimenti importanti per i demoni…Che assurdità! Al loro maestro doveva esser partita qualche rotella. I demoni non provano sentimenti. Provano piacere nell’uccidere, godono del sangue e delle urla, amano il confronto in battaglia. Ma anche tutte quelle sensazioni, prima o dopo, era convinto, sarebbero venute a noia. E, alla fine, avrebbe consumato l’esistenza in un superiore e indifferente contemplazione fugace del mondo.

 

Bravo! Bravissimo! Poche volte aveva detto una stupidaggine più grande! E ci era andato a sbattere contro prima di capire davvero la veridicità di quelle parole. Perché, in definitiva, non era un sentimento anche quello che lo legava ai suoi fratelli, a sua madre? Non era un sentimento l’adorazione che aveva avuto verso suo padre e l’odio, la frustrante rassegnazione che gli rivolgeva adesso? Non era forse per quei stramaledetti, odiosi, soffocanti, necessari sentimenti se si trovava in quelle condizioni, a delirare e spremersi il cervello per capire dove accidenti si trovasse e se si potesse, in qualche modo, tornare indietro. O andare avanti o…Insomma! Per tornare ad aprire gli occhi e sogghignare davanti alla faccia stupita dei suoi carcerieri nel vederlo fissarli con sfida, con ironia da sotto gli occhi gonfi e imbrattati di sangue.

 

Storse la bocca in una smorfia. Un sorriso tirato. Aveva sentito male. Aveva sentito qualcosa. Che assurdità! Era felice di sentir dolore, che i suoi muscoli continuassero a tormentarlo con fitte lancinanti che quasi gli facevano venir voglia di piangere. Era soddisfatto della pesantezza che avvertiva, della pelle che bruciava e tirava in modo fastidioso. Anormale. Sentire il petto alzarsi al suo respiro. Sentire aria fredda raschiare la gola secca e screpolata dopo tante urla e tante maledizioni. Si era sgolato, mentre lo torturavano. Aveva vomitato addossi a quei demoni tutto la sua rabbia e, se solo non fosse stato così debole e con davanti agli occhi i suoi cari in ostaggi, gliela avrebbe fatta vedere chi era. Li avrebbe annientati, squartati. Avrebbe riso lui della loro insignificante debolezza. Della loro nullità. E invece, si era limitato a urlare la sua rabbia, per nascondere il dolore che gli strumenti di persuasione sulla sua pelle gli producevano.

 

Aprì a fatica gli occhi. O almeno, credette di averli aperti. Nulla. Buio. Nessuna differenza. Non vedeva assolutamente niente. E nella mente gli balenò il sospetto che lo avessero accecato. Non ricordava come si era conclusa quella che, ironicamente, aveva definito una simpatica seduta. Doveva aver perso i sensi ad un certo punto, e nulla impediva che i suoi aguzzini non avessero continuato ad infierire sul suo corpo, ormai anestetizzato dal dolore. Iniziò a sudare freddo. Se davvero lo avevano accecato, allora era nei guai. In grossi guai. La vista era uno dei sensi che aveva più sviluppati, e gli era pressochè necessaria per muoversi. Senza gli occhi, come accidenti avrebbe fatto a capire come uscire da quel buco in cui era stato rinchiuso? Si concesse un sorriso amaro. Non credeva che il solo sospetto avrebbe potuto spaventarlo a quel punto. Sapeva benissimo che in battaglia può accadere di tutto, e che un accecamento nella mischia non era affatto casuale. Tuttavia, non si era mai preoccupato dell’eventualità. L’aveva sempre ritenuta inverosimile. Peccato che, adesso, ci fosse dentro fino al collo.

 

“Come ti senti?”

 

Voci. Voci conosciute. Non hanno un volto, un corpo preciso. Ma le conosce. Ne ha la certezza. Si sforzò di mettere a fuoco il buio che lo avvolgeva. Forza. Un piccolo sforzo. É troppo presto per cedere al buio, è troppo presto per rassegnarsi alla cecità. Un riverbero rosso prese lentamente corpo, assieme ad una sagoma indistinta. No. Due sagome. E la sensazione della testa poggiata su qualcosa di morbido, di liquido freddo che brucia le ferite sul volto. Ustiona e da refrigerio.

 

“Mai...stato...peggio...”

 

Koji sorrise. Suo fratello non perdeva la sua ironia in nessuna occasione. E se aveva anche la forza di essere ironico voleva dire che si sarebbe ripreso in fretta. Quando i loro carcerieri avevano riportato Yashi in cella gli si era gelato il sangue. Lo avevano trascinato di peso fino all’inferriata, per poi gettarlo a peso morto nella loro cella. Yashi era uscito baldanzoso e con le sue gambe. Vederlo rientrare in quello stato era stata una pugnalata al cuore. Aveva avuto paura ad avvicinarsi a quel fagotto sanguinolento. Paura che non respirasse, che fosse alla fine. Paura di stringerlo fra le braccia e restare lì, impotente, mentre il respiro di suo fratello agonizzava, si riduceva sempre di più, spariva.

 

Alla fine, aveva aiutato Kyoko a distenderlo e avevano cercato di medicarlo come meglio era stato in loro potere. Il corpo era disastrato da ferite, ustioni e lacerazioni che lo avrebbero portato a morte se non avesse avuto una così forte resistenza. Lo avevano picchiato selvaggiamente, e doveva esserci stato un perchè se Yashi non aveva reagito. Di certo, avesse potuto, Koji era sicuro che non si sarebbe lasciato ridurre in quello stato. Ma la cosa che gli faceva ribollire il sangue nelle vene era che tutto quello che stava loro accadendo avveniva con il consenso di Morigawa.

 

Era stato per suo ordine che Naraku aveva sguinzagliato i suoi demoni. Era stato per suo ordine che loro erano stati catturati e condotti lontano dall’accampamento, imprigionati e umiliati. E ci avrebbe scommesso che anche la trovata delle torture riscuoteva il consenso di loro padre. L’idea doveva esser partorita da Naraku, per carpire loro di bocca informazioni circa un nemico che poteva rivelarsi scomodo con l’avvicinarsi dell’ultimo scontro. Koji scompiglio affettuosamente i capelli si suo fratello e si lasciò scivolare contro la roccia. Aveva perso il conto dei giorni che erano trascorsi da quando erano stati imprigionati. Dovevano essere come minimo due settimane.

 

Dapprima, si erano limitati a rinchiuderli e costringerli a patire la fame e la sete. Tuttavia, loro tre erano comunque demoni molto potenti e simili mezzucci non servivano certo a fiaccare la loro resistenza in breve tempo. Allora, ecco la nuova trovata. Torturare i prigionieri. Ottenere con la forza quelle informazioni che erano restii a dare. Koji si tastò la spalla. Rimetterla a posto dopo che gliela avevano slogata non era stato certo facile, e se la muoveva male fitte gli straziavano i nervi e i legamenti. Dannazione. Lo avevano legato ad una fune e alzato grazie a duna carrucola. Non ricordava più quante volte era stato fatto precipitare al suolo e rialzato bruscamente. Avrebbe giurato di sentire tutte le sue articolazioni frantumarsi. In definitiva, era stato fortunato ad essersela cavata solo con una spalla lussata e una caviglia slogata. Nonostante tutto, comunque, quando i suoi aguzzini lo prendevano dovevano faticare parecchio per tenerlo fermo. A volte, erano arrivati addirittura a tramortirlo pur di portarlo nella stanza di tortura.

 

Con Yashi, però, avevano davvero esagerato. Sembrava che non importasse più molto il fatto che Naraku aveva detto di non ucciderli. Almeno, all’inizio valeva quell’ordine. Se era mutato, nessuno si sarebbe certo preso il disturbo di comunicarlo loro. Sospirò, facendosi scorrere la lingua sulle labbra spaccate e secche. Aveva una maledetta sete. Lo avevano costretto a inghiottire acqua bollente, e davvero a quel punto era stato convinto di morire. La gola era bruciata, e anche adesso, nonostante la sua forza demoniaca gli avesse concesso una guarigione abbastanza veloce, parlare e anche solo respirare era uno strazio. C’erano notti, o giorni, non lo sapeva bene, perchè lì non arrivava mai la luce del sole, in cui si artigliava la gola dal bruciore, in cui le sue urla d’agonia sotto i ferri roventi erano roche e dalla bocca, assieme alla voce, colava sangue.

 

Socchiuse gli occhi. Suo fratello riposava tranquillamente con la testa in grembo a sua madre. Si sarebbe ripreso. Come sempre. Quei brevi intervalli che concedevano loro servivano a recuperare energie. Tuttavia, non avrebbero resistito ancora a lungo. Erano al limite. Senza nutrimento, seviziati di continuo, impediti nel riposare quel tanto che sarebbe stato sufficiente a recuperare le forze necessarie a sbranare i carcerieri e fuggire. Erano completamente nelle loro mani. E la cosa gli faceva rodere il fegato di rabbia. E con l’andar del tempo si infittiva il timore che la farsa che avevano mutamente eretto, il silenzio di stoica resistenza dietro cui si trinceravano sarebbe venuto meno, prima o dopo. Sia lui che Yashi non avrebbero retto ancora a lungo; forse i carcerieri avrebbero capito che davvero non avevano le informazioni che Naraku e Morigawa desideravano. E allora...allora... Scosse la testa. Non ci voleva neanche pensare.

 

Kyoko. Allora, ad esser esposta alle barbarie di quei maledetti youkai sarebbe stata sua madre. La yasha che ormai chiamava per nome, e che restava ad essere la madre che lo aveva allevato per anni, che gli aveva offerto il seno per calmare il pianto di bambino, che aveva sorriso orgogliosa dei suoi risultati. Loro due avevano cercato in ogni modo di precluderla alle torture, ma non ce l’avrebbero fatta. Non per molto ancora. Kyoko era una yasha potente, e fra loro forse sarebbe stata l’unica che avrebbe potuto tentare la fuga. Eppure, Koji era certo che non li avrebbe mai abbandonati. Rabbrividì. Il solo pensiero del corpo nudo della donna, lasciato alla mercè di quei diavoli, lo riempiva di disgusto. Non si sarebbero limitati a umiliarla, non si sarebbero limitati a torturarla nel fisico. Alle donne riservavano anche dell’altro. Una violenza psicologica che su un demone avrebbe avuto meno presa.

 

“Kyoko-sama”

 

La yasha rialzò la testa. Non si era opposta quando Koji aveva iniziato a rivolgersi a lei in quel modo. Poteva capire che chiamarla madre, in quel momento, fosse qualcosa di troppo difficile. Non le aggradava il nuovo titolo, ma lo sopportava. Come sarebbe stata pronta a contrastare qualsiasi umiliazione, fisica e psicologica, che i demoni di Naraku avessero voluto infliggerle. Avrebbe mostrato loro che le yasha di Yezo non si lasciano piegare facilmente. Avrebbe volentieri affondato nella giugulare di quei cani le sue zanne, ma ormai era troppo tardi. Anche se fosse riuscita a costruirsi una via di fuga, avrebbe dovuto abbandonare i suoi figli, e questo non era un pensiero da prendere in considerazione. Benchè sapesse benissimo che, se fosse dipeso da loro, Yashi e Koji avrebbe fatto di tutto, sarebbe anche morti, pur di liberarla.

 

“Non ho risposte”

 

Non serviva che suo figlio chiedesse. Kyoko aveva capito benissimo cosa volesse sapere. E, purtroppo per loro, non c’era una risposta. Hidesuke avrebbe dovuto trovarsi a Nikko già da tempo; avrebbe dovuto calare con il suo esercito sull’accampamento dei signori del Kansai e offrire aiuto a Sesshomaru. Volente o nolente che fosse il Principe di Nishi. Invece...il suo messaggero era stato intercettato, la missiva caduta in mano a Morigawa, i suoi tentativi di abbattere suo marito e insediare sul trono Yashi svaniti in una bolla di sapone. Era stata troppo incauta, e precipitosa.

 

Kyoko si sfiorò la guancia destra. Il segno non era più visibile, ma dentro, nel cuore, ardeva al solo ricordo del livido che Morigawa le aveva procurato settimane prima. Aveva subodorato qualcosa fin da quando era stata convocata nel padiglione del Principe. Per un consiglio, aveva detto l’araldo. Sospetto. Morigawa non chiedeva il suo consiglio da troppo tempo ormai. La convocazione doveva nascondere dell’altro. I suoi timori si erano rivelati fondati. Appena varcata la soglia del padiglione, Kyoko aveva percepito un’aura maligna carica di rabbia e furore, e aveva avuto appena il tempo di sussultare che si era ritrovata per terra. La guancia bruciava terribilmente e il sangue colava dal labbro spaccato. Morigawa troneggiava sopra di lei, con indosso solo gli hakama. Una luce troppo pericolosa negli occhi perchè fosse solo furore a muoverlo. Follia. Follia e delirio puri.

 

Kyoko ricordava solo confusamente i pochi minuti che avevano separato la sua entrata nella tenda del marito e l’irrompere dei suoi figli. Urla, ingiurie, accuse, schiaffi, pugni. Vesti che si strappano, capelli che si confondono, corpi che si annodano, che rotolano per terra, che lottano. Si sfiorò gli occhi. Morigawa l’avrebbe violata. Se non fosse stato per l’intervento di Yashi e Koji, suo marito, quello che aveva considerato suo marito fino a quel momento, l’avrebbe violata e umiliata, costretta a sè con la forza solo per rabbia, per toglierle dalla testa l’idea di spodestarlo e farle ricordare chi era il Principe.

 

“Si è ripreso?”

 

Kyoko scruto nella semioscurità, mentre Koji si alzava faticosamente in piedi per fronteggiare l’intruso. Avrebbe difeso suo fratello se erano venuti a riprenderlo. Tuttavia, il tono sommesso con cui era stata rivolta la domanda lo faceva ben sperare. Infatti, rilassò i pugni e si lasciò scivolare nuovamente a terra appena riconobbe la figura di una yasha alla luce delle torce.

 

Kagura fece scattare la serratura ed entrò nella cella con un recipiente in mano, andando a sedersi accanto a Yashi. L’ookami non si mosse, ma come Kyoko seguì con attenzione i movimenti della yasha mentre osservava lo stato miserevole in cui era stato ridotto il demone. Kagura sbuffò contrariata. Non l’aggradava affatto l’incarico cui Naraku l’aveva costretta. Far da carceriera a quei demoni era la prova che il suo signore non si fidava di lei. Soprattutto dopo che si era lasciata sfuggire Sesshomaru. La scusa aveva retto, ma non era bastata a debellare sospetti che serpeggiavano già da tempo. Probabilmente, Naraku non l’aveva ancora uccisa perchè, in qualche modo, aveva ancora bisogno di lei. Comunque fosse, esser costretta in quel buco nella roccia, lontana dall’aria e impedita di muoversi liberamente era già di per sè un supplizio.

 

“Vedete di far sparire il recipiente dopo che vi siete dissetati. Se lo scoprissero, sarebbero guai”. Socchiude gli occhi, prima di continuare in un soffio. “Per tutti”

 

Si rialzò sistemandosi il kimono. Non era da lei un simile gesto: portare dell’acqua a quelli che erano i suoi prigionieri, con il rischio di esser sorpresa e finire, possibilmente, lei stessa in catene. Si passò una mano nei capelli. Doveva esser impazzita. Non poteva aspettarsi nulla da loro, eppure rischiava molto.

 

“Perchè ci aiuti?”

 

Kagura si fermò sulla porta della cella. Era una buona domanda. Anzi, un’ottima domanda. Peccato che non conoscesse la risposta. O, forse, non volesse ammetterla. Non poteva certo riconoscere che lo faceva per gratitudine. Per cercare di ripagare un debito che non avrebbe, altrimenti, più potuto saldare. Eppure, quando aveva ricevuto l’ordine da Naraku di controllare i prigionieri e accertarsi che i demoni non eccedessero nelle sevizie, qualcosa dentro di lei si era mosso. Lo aveva ignorato a lungo. Due settimane. Per due settimane aveva fatto a pugni con la sua coscienza. E adesso aveva raggiunto il limite.

 

Tuttavia, non si sarebbe mai abbassata a confessare che prestava loro aiuto solo per ringraziare il gesto che mesi prima gli aveva mostrato Shin. Strinse con forza il ventaglio. Quella notte, la gelosia, la frustrazione, la rabbia di aver trovato Sesshomaru con una ningen, stretto da lei, sdraiato accanto a lei l’avevano spianta a concedersi al Principe del Kansai. Una rivincita. La possibilità di sbattere in faccia all’inuyoukai il fatto che l’aveva persa. Si sarebbe concessa per ripicca, per gelosia, per squallido piacere carnale.

 

Shin l’aveva rifiutata. Avrebbe potuto infischiarsene e prenderla, e poi trattarla come una pezzente. Una squallida prostituta. Invece, non l’aveva toccata con un dito e l’aveva cacciata. L’aveva onorata. Le parole del demone all’inizio l’avevano fatta fremere, di rabbia e vergogna, perchè le sbattevano in faccia la realtà del suo gesto. Alla fine, le aveva accettate. E a modo suo cercava di ricambiare quel favore.

 

“Non mi piace avere debiti”

 

 

*****

 

 

Strinse più forte le redini, cercando di mantenere la postura rigida cui l’armatura lo costringeva. Non era affatto facile cavalcare quello stambecco. Soprattutto per lui che non era abituato e con in più l’ingombro del metallo che lo cingeva da ogni parte. Sotto un sole di maggio che presto avrebbe raggiunto lo zenit. Si asciugò non visto il sudore che gli imperlava la fronte. Ma come diavolo facevano i demoni a muoversi con addosso tutto quel peso senza risentirne minimamente?

 

Miroku arricciò le labbra. No. Proprio non era a suo agio. Mille volte meglio il suo abito cerimoniale e il suo shakujo alla sicurezza ingombrante delle spade. L’unica nota positiva era che aveva potuto portare più fuda del normale, nascondendoli nelle innumerevoli tasche che si formavano nella veste. Se il piano non avesse funzionato, non aveva alcuna intenzione di rimetterci la pelle senza muovere un dito. In effetti, ammetteva a se stesso, era passato molto tempo da quando vagabondava da solo e faceva affidamento solo sulle sue forze. L’incontro con Inuyasha aveva risvegliato in lui la necessità di vivere in gruppo e la sicurezza di aver accanto sempre qualcuno di cui potersi fidare. Non aveva mai avuto intenzione di essere un peso per i suoi amici, ma il sapere che c’è qualcuno che conta su di te, che fa affidamento sulla tua forza anche senza fartelo pesare era uno stimolo a continuare a lottare anche quando le forze vengono meno e gli occhi vorrebbero chiudersi.

 

Si umettò le labbra secche. Aveva sete. Una maledetta sete, e sapeva che non poteva fermarsi per un capriccio così infantile. Un demone non avverte la sete. E nemmeno il freddo, e il caldo, e la stanchezza...Sospirò rassegnato. Immuni da troppe cose, i demoni, per i suoi gusti. Soprattutto se a dover emulare uno youkai era lui, sotto un sole rovente. Era già un’ora che erano partiti dal castello, e la piana distava ancora diverse miglia. Sarebbero arrivati nel primo pomeriggio, con il sole a picco e l’aria molle per il caldo. Quell’anno, sembrava proprio che la stagione delle piogge avesse deciso di anticipare i tempi. L’umidità, soprattutto nel primo pomeriggio, era soffocante, e benchè i demoni ne risentissero meno era comunque un detrattore nello scontro che sarebbe avvenuto. L’unica speranza era che piovesse, sebbene il cielo non desse segni di annuvolarsi. In realtà, Miroku non sapeva se augurarsi la poggia o meno. Non conosceva la configurazione del territorio, e se da un lato l’acqua avrebbe portato refrigerio, dall’altra avrebbe potuto compromettere i movimenti e rendere troppo scivoloso il terreno.

 

Sbuffò. Avrebbe preferito che almeno uno dei suoi amici fosse con lui. Tuttavia, l’idea di saperli al sicuro a palazzo lo rincuorava. Inuyasha aveva strepitato per la volontà del fratello di escluderlo dalla battaglia, aveva minacciato di fare di testa sua e seguirli a costo di doversi difendere anche da Sesshomaru e non solo dai demoni di Morigawa. Ce n’era voluto per farlo ragionare, per riuscire a costringerlo al castello. Kagome ce l’aveva messa tutta, e alla fine Inuyasha se ne era andato chissà dove a sbollire la rabbia. Ma almeno aveva promesso, e loro erano certi che avrebbe mantenuto la parola.

 

Quando stavano per partire, l’hanyou lo aveva raggiunto. Lì. Alla testa dell’esercito. Davanti a demoni che lo squadravano con sospetto e lo canzonavano malignamente. Davanti a suo fratello che si ostinava a fissare il vuoto davanti a sè. Inuyasha aveva tentennato un attimo, prima di chiedergli una promessa. La sola cosa che, gli aveva assicurato, lo avrebbe persuaso a non seguirli.

 

“Non dovrai mai usare il vortice. Hai capito, Miroku? Mai! Per nessuna ragione!”

 

Aveva colto come trepidazione nella sua voce, e allora gli aveva messo una mano sulla spalla e aveva annuito con un sorriso. Gli aveva fatto uno strano effetto montare lo stambecco che gli era stato assegnato mentre l’hanyou ne reggeva le briglie. Non aveva potuto esimersi dal formulare il pensiero di quanto fosse grottesca la scena. Avrebbe dovuto esser lui a reggere la staffa al principe cadetto, e non il contrario. Invece, Sesshomaru non lo avrebbe mai permesso.

 

Si passò una mano sul collo. Caldo. Caldo. Maledettamente caldo. Il sudore gli appiccicava al corpo le vesti pesanti e opprimenti. Doveva distrarsi. Occupare la mente con qualcosa che gli impedisse di prestare attenzione al sole che picchiava sempre più forte. La figura di Sesshomaru gli balenò davanti agli occhi. Procedeva in testa, montando Ah-Un con una sicurezza invidiabile. La corazza riluceva continuamente e l’ampio mantello di pelliccia era drappeggiato in modo solenne. Miroku ebbe una smorfia che represse a fatica. Quel mantello gli faceva venir caldo solo a vederlo. Però, ammetteva a se stesso, contribuiva a rendere ancora più imponente e austera la figura dell’inuyoukai. Invece, non capiva perchè il demone avesse raccolto i capelli in una coda alta. Aveva supposto per una forma di comodità, ma non era un’idea troppo convincente. Da che lo conosceva, o forse era meglio dire dalla prima volta che lo aveva incontrato, Sesshomaru non aveva mai mostrato segni di disturbo nei combattimenti per i capelli lasciati sciolti. Inoltre, non gli era sfuggito il moto di sorpresa e sconcerto che aveva attraversato le file dell’esercito schierato all’apparire del Principe. E anche Inuyasha aveva avuto una reazione strana nel vedere il fratello. Miroku si gratto il mento. Avrebbe avuto da chiedere alcune cosette all’amico, una volta tornato a palazzo.

 

Un magnifico lupo grigio affiancò lo stambecco. Miroku inclinò appena la testa. Koga cavalcava l’animale come se fosse un tutt’uno con lui, assecondandone i movimenti con ogni parte del corpo. Al fianco portava la spada e nella sinistra reggeva una yari di quasi tre metri. Sembrava davvero uno shinigami. Faceva paura, con i capelli che sferzavano il viso e i canini pronti ad uccidere. Se non lo avesse saputo suo alleato, Miroku avrebbe tremato. Anche perchè l’armatura che indossava e l’ampio mantello nero di pelliccia conferiva al giovane principe degli Yoro un aspetto davvero minaccioso. Ripensandoci, nemmeno Kumamoto sembrava aver più nulla del bonario generale che aveva conosciuto in quei mesi. Era come se la prospettiva dello scontro li avesse completamente trasfigurati. Per il Principe era più difficile fare supposizioni, in quanto Sesshomaru era assolutamente restio a mostrare anche una piccola emozione, mentre il cambiamento nei suoi alleati era evidente.

 

Si concesse un sorriso mentre annuiva a Koga in segno di saluto. L’ookami spronò il suo lupo affiancandosi a Sesshomaru. Miroku li vide procedere appaiati per un tratto, prima che la punta della lancia rifulgesse nel sole e un coro di ululati si levasse dal grosso dell’esercito come unico, profondo sinistro lamento di morte. I lupi e gli ookami al seguito del principe degli Yoro si staccarono dal gruppo, assumendo una conformazione a cuneo che si inerpicò per la collina che costeggiava la strada, seguendo il loro signore. Svanirono alla vista e all’udito. Tuttavia, Miroku era certo che fossero ancora a portata di naso per gli inuyoukai. Koga era l’avanguardia, per la spiccate capacità predatorie che la natura aveva conferito alla sua Famiglia. Se c’era qualcuno che potesse avvicinarsi al nemico tanto da non essere visto e da controllarlo per accertarsi che non i fossero trappole, quello era solo Koga.

 

Miroku cercò di sistemarsi meglio sul dorso dello stambecco. Già gli riusciva difficile montare un semplice cavallo con nomale sella; riuscire a non cadere cavalcando a pelo era davvero un’impresa. Si concesse un sorrisino di scherno. Se lo avesse visto Sango, forse lo avrebbe deriso per bene. Socchiuse gli occhi. La rivedeva nella stanza che condivideva con Inuyasha. Non l’aveva nemmeno sentita entrare, tanto era concentrato a ricordarsi come diavolo si indossasse quell’armatura. Era stata lei a riscuoterlo, chiamandolo in un sussurro.

 

Miroku si era voltato, e trovarsela di fronte gli aveva seccato la bocca. Si era ripromesso di salutarla assieme agli altri, così da evitare situazioni troppo pesanti o imbarazzanti. Invece, lei era davanti a lui. Con le mani strette in grembo e lo sguardo basso. Che bambina. Una dolcissima, ingenua, spaventata bambina. L’aveva vista muovere le labbra a pronunciare parole senza suono, alzare la testa e riabbassarla subito. Era imbarazzata. Era terribilmente imbarazzate. Ed era bellissima. Le aveva afferrato un polso a tradimento e l’aveva attirata al suo petto. Senza pensare che reazione avrebbe potuto avere. Era libera di prenderlo a schiaffi. Ma lui non aveva voluto lasciarsi sfuggire l’opportunità di sentire il suo calore contro la pelle, il suo corpo stretto fra le braccia.

 

Sango era rimasta dapprima immobile, con gli occhi sbarrati. Poi, lentamente, aveva intrecciato le mani dietro alla schiena del monaco, sprofondando la testa nel suo petto e lasciandosi imprigionare da quella stretta possessiva e dolce. Aveva sperato che Miroku le sollevasse il viso e la baciasse. Aveva sperato che le dicesse qualcosa di dolce. Le sarebbe andato bene anche se fosse ricaduto nei suoi comportamenti libertini. Ma, in definitiva, quell’abbraccio era qualcosa che non si erano mai concessi. Non in quel modo. Non con le mani così strette, con i corpi così vicini. Sango aveva sentito una mano di Miroku risalire lungo la sua schiena e insinuarsi fra i suoi capelli, mentre con l’altra la stringeva di più a sè. Il respiro caldo del ragazzo sul collo, le labbra a un soffio dalla pelle erano un qualcosa di mai provato. Di proibito. Di seducente.

 

Sango aveva afferrato il viso del suo monaco e lo aveva costretto a guardarla negli occhi. A fissarla con quel sorriso dolce e irriverente che gli piegava sempre le labbra. Si era avvicinata alla sua bocca fino a sentire il respiro sulla pelle. Fino a sentire il suo odore di incenso e uomo avvolgerla e stordirla. Portarla al delirio. Aveva lasciato la presa; erano rimasti interi minuti a millimetri di distanza, baciandosi senza toccarsi, intrecciando una danza fatta di occhiate e respiri. Alla fine, Sango si era sciolta dal suo abbraccio ed era uscita sull’engawa.

 

“Sango”

 

Caldo. Morbido. Prepotente. Affamato. Le labbra di Miroku l’avevano imprigionata senza alcun preavviso. E l’avevano fatta godere di un qualcosa di nuovo ed eccitante. Leccandole la bocca e stuzzicandole la pelle. Non si era mossa. Era rimasta in piedi sul limite della porta, catturata da un bacio che sembrava dato per scherzo, con il monaco appoggiato con una mano al telaio della porta e l’altra sotto il suo mento.

 

Miroku si sfiorò le labbra con la lingua. Quel bacio che si era ripromesso di non darle fino alla morte di Naraku era stata l’idea migliore che gli fosse mai venuta. Il più bel modo per salutare una persona e andarsene sereno sul campo di battaglia. Raddrizzò d’istinto la schiena quando colse il rallentare dell’andatura di Ah-Un. Sorrise malizioso.

 

Ecco.

 

Si alzava il sipario.

 

 

*****

 

 

“Cicatrice del vento!”

 

Il fendente attraversò il cielo distruggendo un gruppo di demoni prima che potessero calare sul castello. Corpi sanguinanti, pezzi di carne e ossa ricaddero al suolo, in una pioggia grottesca e nauseabonda. L’odore di carne in putrefazione, di sangue e di miasma ammorbava l’aria pesante e afosa del primo pomeriggio.

 

Inuyasha si terse rabbioso il sudore che gli oscurava la vista. Ansimava forte, e con uno sforzo riuscì a risollevare Tessaiga e a lanciare un nuovo attacco. Dannazione. Dannazione. Dannazione! Quei demoni non finivano più. Erano come minimo due ore che combatteva, e sembrava non aver nemmeno intaccato il numero degli avversari. Doveva farsi venire un’idea. E subito, o questa volta non ne sarebbe uscito illeso.

 

Un bruciore lancinante al braccio lo costrinse a smetter di pensare. Chiuse gli occhi soffocando un urlo, e portandosi prontamente la mano al braccio. Il muscolo era stato perforato e quasi strappato, ma l’osso, che biancheggiava fra i ritagli di carne grondanti sangue, sembrava essere intatto. Con un ringhio in gola che si confuse con un urlo, sollevò la spada a distruggere il demone che sogghignava compiaciuto sopra di lui. Non sarebbe stato certamente un colpo simile a metterlo fuori combattimento. Si ritrovò in piedi senza respiro. La testa girava in modo fastidioso e i contorni delle cose sbiadivano lentamente. Fu costretto a piegare un ginocchio a terra per evitare di cadere svenuto.

 

Avvertì l’incombere su di sè di qualcosa, qualcosa di pericoloso. Strinse i denti scoprendo i canini appuntiti e sollevò stancamente la mano. Usare Tessaiga comportava una forza che lui, in quel momento, non possedeva. Avrebbe dovuto far affidamento sugli artigli. Affondò la mano nello squarcio al braccio, lacerando ulteriormente le fibre muscolari e bagnandosi del suo stesso sangue. L’hijin kessou aveva una forza distruttrice maggiore dei semplici artigli, e avrebbe eliminato il nemico. Peccato che, lanciandolo in quello condizioni, lo avrebbe reso incapace di difendersi per un po’.

 

Le lame di sangue squarciarono il corpo del demone davanti a lui, saettarono per il campo di battaglia falciando e mutilando prima di esaurire la propria carica distruttiva. Inuyasha si concesse un ghigno di soddisfazione nel vedere la sorpresa che attraversava i lineamenti dei suoi avversari, ma dovette ben presto portare entrambe le mani a terra per impedirsi di rovinare al suolo. Dannazione. Non vedeva nulla. Bianco. Bianco. Bianco. E poi nero. Un sudore freddo gli bagnò la fronte, lo fece tremare lungo la colonna vertebrale. Il sangue colava dalla ferita al braccio, lungo i muscoli fino al polso, insinuandosi fra le dita e gli artigli, allargandosi in una macchia scura.

 

Sentì qualcuno deriderlo, e da lontano la voce di Kagome farsi strada fra urla e strepiti. Lo stava chiamando. Gli stava dicendo di non mollare. Lo stava chiamando col rischio di esser individuata e trovarsi in pericolo. Avrebbe voluto rispondere, ma anche il solo pensare, in quel momento gli costava grande fatica. Sperò solo che la ragazza avesse il buon senso di non muoversi dal sunoko del corpo principale. Non doveva assolutamente lasciare la sicurezza di quelle mura. Gli venne da sorridere. Kagome non avrebbe mai ragionato in modo razionale, soprattutto se nel discorso entrava lui. Era fatta così, quella ragazza. Impulsiva, avventata, testarda, irresponsabile...In certe cose, avevano un carattere molto simile. Kagome, però, sapeva anche essere dolce, comprensiva, delicata. Tutto il contrario di lui, che era sempre frenato nelle parole e nei gesti da un’eccessiva timidezza.

 

Un nuovo urlo di Kagome lo costrinse ad aprire gli occhi. Non poteva cedere. Non quando avevano bisogno di lui. Raccolse Tessaiga e, usandola come sostegno, si rimise faticosamente in piedi. Il braccio sinistro penzolava inerte lungo il fianco. Pazienza. Doveva solo cercar di pazientare un po’, giusto il tempo che il suo sangue demoniaco facesse coagulare il sangue e iniziar e il processo di guarigione. I fasci muscolari avrebbero impiegato del tempo per riformarsi, ma almeno avrebbe potuto rimuovere il braccio, anche se con fatica.

 

Alzò la testa e si accorse che la battaglia si era momentaneamente spostata. Era solo in mezzo a un mucchio di cadaveri di demoni. Represse un conato. Quella scena era raccapricciante anche per lui che fin da bambino era stato abituato alle uccisioni. Scrollò la mano intrisa di sangue. Ignora, gli diceva la testa. Passerà. Passa tutto. E poi, è la tua realtà. Normale. Brutta, ma normale. Se considerava, inoltre, che facendo strage di quei demoni avrebbe arrecato un possibile dispiacere a Naraku, un moto di soddisfazione gli riempiva l’animo. Perchè i demoni che stavano attaccando in massa il castello erano di quel maledetto hanyou. Inuyasha non aveva dubbi. Sentiva il suo odore in ogni atomo d’aria. Quando gli aveva visti apparire all’orizzonte, minacciosi e infervorati dalla prospettiva di una strage, aveva ordinato a Kagome e Alessandra di prendere Rin e rifugiarsi nel corpo centrale dell’edificio, mentre lui, con Sango, si era gettato all’attacco.

 

O meglio, ci aveva provato. Il generale che Sesshomaru aveva lasciato a capo della guarnigione di difesa era tutt’altro che propenso al suo intervento e a quello della sterminatrice. Lo aveva ignorato concedendogli soltanto una serie di insulti, sogghignando che quei demoni non li avrebbero mai attaccati. Solo dei folli si sarebbero scagliati contro la fortezza di Sesshomaru-sama, e inoltre Morigawa aveva dato la sua parola che lo scontro sarebbe avvenuto solo e esclusivamente nella piana concordata. Inuyasha aveva ringhiato esasperato. Di quello che pensava lui non gli importava un accidente, come non interessava a quei demoni il fatto che potessero violare un accordo. Erano accoliti di Naraku, non del Principe del Kansai, e per Naraku i patti non hanno alcun valore se può arrecare un qualche danno o ottenere un suo obiettivo.

 

Inuyasha non aveva e non capiva ancora cosa volesse ottenere Naraku attaccando il palazzo, tanto più che Sesshomaru non era presente. L’unica spiegazione plausibile era che cercasse di ottenere i frammenti di Sfera che Kagome custodiva. Ma era un suicidio anche solo pensare di riuscirci. Nonostante la superiorità numerica degli avversari e la reazione tarda e disorganizzata dei difensori delle mura a causa dell’ottusità di quel generale, gli uomini di Sesshomaru stava riuscendo a mantenere le posizioni.

 

Certo, se non fosse stato per i veterani che avevano reagito alle sue urla ed erano intervenuti mettendosi ai suoi ordini, infischiandosene altamente degli strepiti e delle rimostranze di quell’ottuso generale, a quell’ora più della metà degli uomini di guardia sarebbe morta e il palazzo violato. Inuyasha avrebbe ricordato a lungo il pungo che uno dei veterani aveva rifilato al suo superiore per farlo star zitto prima di consegnarlo ad alcuni uomini perchè gli impedissero di disturbare e arrecare più danni di quelli che già aveva provocato. Poi, il veterano si era voltato verso di lui e gli aveva mostrato uno strano sorriso. Non sarebbe riuscito a dirne la natura. Orgoglio, nostalgia, sorpresa, soddisfazione.

 

“Guidaci, ragazzo”

 

Aveva ricambiato il sorriso, e si era gettato nella mischia. I demoni non erano stati respinti, ma almeno non erano riusciti a continuare la loro avanzata. Alcuni superavano la linea delle mura dove era stato arrestato il grosso dei nemici, e ingaggiavano scontri con gli uomini lasciati indietro, ma erano solo casi isolati quelli che si avvicinavano in modo preoccupante al corpo del palazzo che affacciava sulla piazza d’armi.

 

Inuyasha sentì una mano posarsi sulla sua spalla, e qualcosa stringere forte la carne, al braccio. Sango aveva abbandonato momentaneamente la sua posizione per sincerarsi delle sue condizioni. Il vederlo immobile in un angolo del campo era troppo strano. Stonava. Invece, con sollievo, si era accorta che Inuyasha aveva, per una volta, fatto lavorare il cervello e non la passione, e si era fermato prima che le sue forze scomparissero di colpo nel mezzo di uno scontro. Si era tenuto fermo dopo il suo ultimo attacco per recuperare un po’ di energia, e l’occhiata che le lanciò quando ebbe finito di contenere l’emorragia valse più di mille parole. Era pronto a ricominciare. A resistere, anche se il suo corpo gli urlava di non muoversi, di fermarsi e concedergli ancora riposo. I muscoli protestarono quando cercò di rimettersi in piedi e, forse, sarebbe ripiombato nella terra se delle mani non lo avessero sorretto e aiutato a ritrovare l’equilibrio.

 

Un veterano, lo stesso che, per primo, aveva preso le sue difese alcune ore addietro, adesso lo stava aiutando. Inuyasha si limitò ad accennare con la testa per rassicurarlo delle sue condizioni, per poi vederlo ritornare a combattere poco distante. Sentiva qualcosa di strano, dentro, nell’anima. Era la prima volta che demoni dal sangue puro lo trattavano in quel modo, che qualcuno se ne fregava della sua condizione bastarda e lo trattava semplicemente come un qualcosa che respira. Scrollò le spalle. Non era il momento, quello, di arrovellarsi il cervello a cercare il perchè di un simile comportamento. Sesshomaru lo avrebbe ammazzato, se qualcuno avesse messo piede nel palazzo. Una smorfia gli deformò le labbra: lo avrebbe ammazzato anche non appena fosse venuto a conoscenza del fatto che avevano rinchiuso il generale cui aveva lasciato la difesa e avevano proclamato lui comandante di quella resistenza. Deglutì a vuoto. Sentiva gli artigli del fratello sulla pelle della gola, e il ringhio che avrebbe represso a fatica. Il Principe aveva sempre cercato di impedirgli di prendere parte ad uno scontro, lo aveva minacciato se solo avesse provato a seguirli per partecipare alla battaglia contro Morigawa, e adesso lui si trovava a capo di quegli uomini, impegnato a dare ordini, a cercare di elaborare una qualche strategia per respingere gli assalti, quando invece l’unica cosa che avrebbe voluto fare era caricare a testa bassa. Non era avvezzo a coordinare uomini sul campo, non era in grado di tenere le file di battaglia, di analizzare ogni situazione, di prevenire le mosse avversarie e prontamente formulare una reazione e insieme continuare a combattere. Dannazione! Lui non era Sesshomaru, lui non era in grado di tenere a freno il sangue che corre veloce nelle vene mentre combatte. Agiva d’istinto, senza premeditazione, senza un preciso piano. Con i suoi compagni ha sempre funzionato. Sango e Miroku sanno cavarsela egregiamente da soli, e lui deve pensare solo che Kagome non si esponga troppo. Con i suoi amici si sostengono a vicenda, ma ormai l’affiatamento era tale che non era necessario parlare per decidere uno straccio di strategia. E se lui sbaglia, si dimostra troppo avventato e impulsivo, ci sono loro a correggerlo, ad aiutarlo.

 

É diverso. É maledettamente diverso. Deve pensare per sè e per mille altri demoni che agiscono solo dopo una sua parola, che si lascerebbero falciare e dilaniare dal nemico se lui non dà loro l’ordine di scansarsi. Per assuefazione, probabilmente. Sono talmente abituati ad ubbidire agli ordini del Principe, non mettendone mai in dubbio la parola e le decisioni, terrorizzati dall’idea di quello che potrebbe capitare loro se solo provassero a opporsi, che in quel momento, senza una guida, sarebbero una preda ridicola. Inuyasha, però, aveva paura. Sentiva addosso la responsabilità di ogni parola, il peso di un comando che non ha voluto e gli è piombato addosso senza preavviso. Lui, in quel momento, vale come il fratello, è come Sesshomaru. Ha quel posto che lo youkai ha sempre voluto negargli, da cui lo ha tenuto in tutti i modi lontano. Il posto che avrebbe ricoperto se suo padre non fosse morto. Ha qualcosa che ha sempre detto non interessargli e che inconsciamente ha sempre bramato. Il suo riconoscimento. Il sentirsi qualcosa nel mondo che era di suo padre, nel mondo che lo ha sempre allontanato.

 

“Ce la fai a continuare?”

 

Sango accarezza nervosa Kirara. Non lo ha ancora lasciato. Non lo farà finchè non sarà sicura che sa cosa vuole fare: ritirarsi o restare. Inuyasha sollevò Tessaiga soppesandola col braccio. Sì. Anche con una sola mano può gestire bene la forza della spada. Continuerà a combattere. Un istante, uno scambio di sguardi, ed entrambi si rigettano nella mischia: Sango riprende la sua posizione a difesa dell’ingresso dell’edificio, davanti a Kagome che imbraccia l’arco, e Inuyasha raggiunge le mura, saltando sul ballatoio e cercando di spronare gli uomini, di articolare una qualche strategia che permetta anche di contrattaccare, e non solo difendersi. Andando avanti di quel passo, altrimenti, rischiano di esaurire tutte le energie e di cedere, alla fine. I demoni di Naraku sembrano non finire più. Oscurano il cielo e il sole con il loro numero. Una cappa pesante. Opprimente.

 

Urla di terrore lo costrinsero a voltare il viso sopra la spalla. Kagome. La voce di Kagome, mescolata a mille altre, a quelle delle yasha e dei cortigiani. Un drappello avversario ha superato le difese, serpeggia fra i cadaveri e sta per avventarsi sulla ragazza e quanti sono nell’edificio. Sango è lontana, impegnata con altri demoni. Le frecce di Kagome non bastano. Scatta. Verso di loro. Verso di lei. Artiglia demoni che cercano di fermarlo, impreca e maledice il sangue perso che lo ha indebolito. Stringe i denti fino a sanguinare. Non farà in tempo. Non ha più tempo.

 

I demoni calarono.

 

Brandelli di carne coprirono il terreno, e il nemico si arrestò. Un istante, prima di tentare una ritirata senza possibilità di salvezza. Morirono tutti, falciati da una luce d’argento. Fra gli squarci nella carne e il fumare del sangue, Shin riprese la posizione eretta. Pallido, sudato e visibilmente provato, ma con una katana ben salda in mano e gli artigli gocciolanti.

 

“Non penserai che basti a pareggiare il conto, vero?”

 

Inuyasha gli era grato, ma non poteva darlo a vedere. Lo vuole canzonare un po’, giusto per salvare le apparenze, ma intanto rinfoderò Tessaiga e si avvicinò per sincerarsi che Kagome non fosse ferita. L’accolse fra le braccia, continuando a guardare di traverso Shin, che respirava pesantemente e si sorreggeva alla spada. Aveva rischiato la vita per difendere quella soglia, quando avrebbe potuto fregarsene o aiutare i demoni di Naraku. Avrebbe potuto approfittare della confusione per fuggire, e invece era restato. Per combattere. Per aiutare.

 

“Metti in conto. Vedremo di saldare la questione quando avremo finito con questa scocciatura”

 

Il sorriso era di provocazione, di scherno. Spavaldo, nonostante il tremore delle membra e la voce roca. Inuyasha annuì. Per prima cosa, andavano eliminati i demoni di Naraku. E definitivamente. Gli uomini erano orami allo stremo. Per un istante, rimpianse che non ci fosse Sesshomaru lì con lui. Lo avrebbe ferito con parole taglienti e gli avrebbe riservato una delle sue solite occhiatacce, una di quelle che neanche la cecità era riuscita a fargli abbandonare, lo avrebbe scansato malamente, storcendo le labbra in uno dei suoi sorrisi pericolosi. Gli avrebbe fatto pesare il fatto che non aveva concluso nulla, ma alla fine avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe riportato l’ordine fra le file dei suoi uomini con poche parole fredde e decise, avrebbe fissato con sufficienza i suoi avversari e snudato Tokijin con eleganza. Sarebbe scattato, e i suoi uomini con lui. Pochi istanti, perchè il terreno di tingesse di rosso, perchè i muri venissero arabescati di sangue e il tanfo di cadaveri bruciati e corrosi dal veleno ammorbasse l’aria. Se Sesshomaru fosse stato presente, tutto si sarebbe risolto in un attimo.

 

Inuyasha piegò la testa sotto il peso di quella consapevolezza. Non sarebbe mai stato degno del fratello. Strinse gli occhi e rialzò il viso verso l’ingresso del palazzo. La porta si socchiuse e la testolina di Rin fece capolino assieme al musetto di Kiba. Quella bimba...Era troppo pericoloso uscire. Scambiò un’occhiata con Shin e Homoe, appena sopraggiunta, e dopo aver afferrato Kagome per la vita saltò sul sunoko. Appena arrivato, Rin gli si aggrappò ad una gamba. Come faceva con Sesshomaru. Era spaventata. Tanto spaventata. E Inuyasha-kun le ricordava tanto il suo signore, la protezione che lui le aveva sempre dato anche se non lo dimostrava mai apertamente. Strinse forte la stoffa degli hakama, strofinandovi contro le testolina arruffata e il viso bagnato di pianto. Voleva che tornasse Sesshomaru-sama, voleva andargli in contro e regalargli il suo sorriso, voleva che la guardasse e poi tornasse a camminare per poterlo seguire, voleva la sua mano sulla testa, in un gesto impacciato e strano.

 

Artigli nei capelli, e un certo nervosismo nell’accarezzare quella testolina scura. Inuyasha non capiva bene nemmeno lui il perchè di quel gesto, ma gli era venuto naturale. Come quando Kagome era triste e lui la voleva consolare. Si sedeva accanto a lei e le accarezzava la testa, quasi che la sua mano avesse il potere di scacciare le sue paure. Si era chiesto se avrebbe funzionato anche con Rin, si era chiesto se si sarebbe spaventata. Aveva allungato la mano, sfiorando appena i capelli per poi premere leggermente. Adesso, Rin lo fissava a metà fra lo stupita e il sollevata. Lui ritrasse lentamente la mano, e la bimba si toccò i capelli, proprio nel punto dove prima c’era la mano dell’hanyou. Lo stesso contatto che ogni tanto il suo signore le concedeva, lo stesso calore della mano che la vuole confortare. Sorrise ad Inuyasha tendendo le mani verso di lui: voleva essere presa in braccio.

 

“Rin è sicura che Inuyasha-kun ucciderà tutti i demoni cattivi. Come farebbe Sesshomaru-sama”

 

Inuyasha potè solo annuire con un leggero sorriso, mentre la bimba gli si stringeva di più al collo. Non aveva alcun diritto di deludere le certezze di Rin. La passò a Kagome e si voltò nuovamente verso la piazza d’armi. Era stufo. non gli piacevano per nulla le cose che andavano troppo per le lunghe. Adesso, voleva mettere fine a tutto. Gettò un’occhiata a Sango, che si stava disimpegnando da alcuni demoni troppo fastidiosi. Alle mura, la resistenza teneva e mentre lui si era allontanato qualche veterano aveva preso il controllo della situazione, anche se continuava a lanciare occhiate nella sua direzione. Sembravano impazienti che lui tornasse fra loro per condurli e comandarli. Per ultimo, si soffermò su Homoe e Shin, che stavano tenendo libero il centro dello spiazzo. In Principe del Kansai stava dando fondo a tutte le poche forze che aveva recuperato per difendere la casa del suo avversario. Senza senso, pensò Inuyasha, ma avrebbe avuto tempo per chiarirsi le idee.

 

Gettò un’occhiata da sopra la spalla a Kagome, che ancora teneva in braccio Rin. La vide annuire sicura, e si sentì riempire di determinazione. All’ultimo, incrociò occhi blu cerchiati di rosso. Uno sguardo smarrito e angosciato che gli fece stringere il cuore. Alessandra. Era il fantasma dei mesi passati, con i capelli scarmigliati e il kimono sgualcito.

 

Quando, poco dopo l’alba, si era recato negli appartamenti di suo fratello per cercare di convincerlo a portarlo sul campo di battaglia, non aveva trovato Sesshomaru, ma Alessandra. Era rannicchiata in un angolo, il kimono scomposto e le mani strette attorno alla testa. Non piangeva, ma gli occhi dilatati erano gonfi e cerchiati di rosso. Aveva pianto. Tanto, anche. Ne ebbe la conferma quando l’aveva sentita pronunciare il nome di suo fratello. Un tono roco, raschiato nella gola. Non si era accorta di non esser più sola nella stanza. E poi, c’era quell’odore. Un odore forte, ferino. Inuyasha aveva percepito distintamente l’odore di suo fratello, ma sembrava più intenso, più violento del normale. Era ovunque in quella stanza, e soprattutto addosso ad Alessandra. Odorava di demone, di Sesshomaru, come non si era mai accorto. Come non era mai accaduto.

 

Si era inginocchiato davanti a lei, costringendola a togliere le mani dai capelli sconvolti. Era terrorizzata. Tremava e respirava pesantemente, una spalla del kimono era scesa lungo il braccio, a scoprire la pelle e il decoltè. Inuyasha aveva inghiottito a vuoto. Sentiva la gola innaturalmente secca. Se Sesshomaru aveva osato farle qualcosa, se Alessandra era in quello stato perchè il demone aveva osato alzare le mani su di lei, cercare di forzarla alle sue voglie, se l’aveva violata lui...lui...

 

Aveva sentito braccia avvolgersi al suo collo, mani aggrapparsi convulsamente alle maniche del kariginu e un respiro violento cozzare sul suo petto. Alessandra, appena lo aveva riconosciuto, si era gettata nel suo abbraccio, affondando le testa nel suo petto e artigliandosi a lui come se fosse l’unica cosa che le impedisse di cadere, di sprofondare in un baratro oscuro. Inuyasha l’aveva lasciata sfogare, e lentamente aveva cercato di stringerla per provare a confortarla. Si era mosso pianissimo, insicuro sulla reazione che avrebbe potuto provocare. Sapeva benissimo che la ragazza rifuggiva il contatto fisico, lo aveva provato sulla sua pelle. Alessandra, però, in quel momento era troppo sconvolta per realizzare le braccia che la cullavano. Sentiva ancora su di sè le mani di Sesshomaru, il suo respiro soffiarle sulla pelle, le labbra sulle sue, nei capelli, lungo la gola, sulla spalla. I capelli scivolare fra le dita, la passione e la rabbia esasperata dei baci, delle carezze. Lo sguardo eccitato e acceso, i barbagli che il sole strappava al vuoto di quegli occhi, la disperata violenza con cui si era staccato da lei.

 

“Alessandra...”. Inuyasha aveva tentennato. Non era certo facile porre una simile domanda. Si era umettato le labbra, aveva schioccato la lingua e richiuso subito la bocca, pentendosi delle parole che sarebbero potute sfuggirgli. Eppure, doveva sapere, cercare di capire.

 

“Sesshomaru...Sesshomaru ti ha...ti ha...”

 

Era difficile. Troppo difficile da dire. Gli era pressochè impossibile pensarlo, figuriamoci chiederlo. Non riusciva a vedere suo fratello perdere il controllo fino a usare violenza ad Alessandra. Un altro demone certamente, ma non lui. Non il Principe. Non il freddo e controllato Sesshomaru. Eppure, non era un pensiero così impossibile. Dopotutto, era un maschio anche lui, e anche se sotto strati di ghiaccio aveva un corpo che rispondeva a pulsioni e sensazioni fisiche. E la vicinanza di una ragazza, di Alessandra, poteva benissimo aver risvegliato in lui il suo istinto...il suo istinto...Inuyasha era arrossito. Oh, insomma! Avrebbe benissimo potuto desiderare di averla nel letto. In modo diverso dalle innocenti notti che Alessandra gli aveva detto trascorrevano.

 

“Tornerà...Tornerà, vero?... Me l’ha promesso...Tornerà da me...Mi ha detto di aspettarlo...Io...Io lo aspetto...perchè...perchè lui mantiene la parola, vero?...Lui non mente, non sa mentire...”

 

Inuyasha l’aveva stretta di più a sè. Iniziava a capire. Il timore di poter perdere Sesshomaru in quella battaglia aveva fatto cedere la maschera che Alessandra doveva essersi imposta in quei mesi per far fronte alla corte e gestire una relazione che era tutto fuorchè semplice. In effetti, la prima volta che l’aveva vista, Alessandra gli aveva fatto una strana impressione. Gli era sembrata...come dire...Perfetta! Ecco, tanto composta e controllata da sembrare falsa. Anche quando aveva litigato con suo fratello il tutto era sembrato artificioso. Per nulla rassicurante e tranquillo, ma come frenato da qualcosa. E quel qualcosa era l’autocontrollo che probabilmente, consciamente e anche inconsciamente, Alessandra si era sempre autoimposta. Adesso, però, era crollata. Era fragile, vulnerabile fra le sue braccia, tremante e spaurita come una bambina. Inuyasha aveva immaginato che Alessandra non fosse nemmeno del tutto lucida in quel momento, che non avesse pienamente realizzato di esser abbracciata a lui e non a Sesshomaru.

 

“Inuyasha...Ti prego, dimmi che non morirà...”

 

No. Si era sbagliato. Alessandra sapeva perfettamente chi fosse, e non si era preoccupata di nascondergli il suo dolore, il suo stato d’animo. Le aveva sollevato il viso, e le aveva asciugato le lacrime; aveva risistemato il kimono evitando di guardarla per non esser colto dall’imbarazzo. Aveva tergiversato per trovare le parole giuste. Non aveva dubbi che suo fratello avrebbe vinto lo scontro, lo conosceva meglio di quanto entrambi ammettessero. Il dubbio era se quella vittoria non gli sarebbe costata più di quanto avesse supposto. Affrontare Morigawa non era uno scherzo già in condizioni normali, ma farlo anche privo della vista, per quanto l’allenamento e l’abitudine lo avessero impratichito, poteva significare comunque la morte per Sesshomaru.

 

“Certo che non morirà!”

 

Non poteva scoraggiarla, non poteva ferirla ulteriormente. Doveva apparire sicuro di se stesso, anche se avrebbe voluto lui stesso sentirsi dire quelle parole. Doveva convincere Alessandra, e se stesso.

 

“E se non torna subito a palazzo, giuro che ce lo trascino io di persona! A costo di infangargli la sua bella stola di pelliccia!”

 

Era riuscito a strapparle un sorriso, nonostante la voce un po’ roca. L’aveva accompagnata all’ospedale e poi...poi era avvenuto l’attacco, e adesso, vedersela davanti come quella mattina gli fece temere che potesse crollare di nuovo. E allora le sorrise. Perchè neanche lui aveva intenzione di lasciarci la pelle, in quello scontro. E meno di tutti Sesshomaru avrebbe permesso che qualcuno lo uccidesse.

 

 

*****

 

 

Soddisfatto.

Sì. Poteva proprio dirlo. Un ghigno gli storse le labbra. Stava andando tutto come nei suoi piani, anzi forse ancora meglio di quanto si aspettasse. Carezzò la katana che gli pendeva dal fianco, ticchettando leggermente sull’elsa con gli artigli. Non era per nulla impaziente; adorava sentire l’adrenalina salire, percorrere ogni fibra del suo corpo a riscaldare il sangue, fino ad infiammare il cervello e anestetizzare ogni altra sensazione. La battaglia era la miglior amante che avesse mai avuto. Compiacente, appassionata, violenta, imprevedibile, eccitante. Adorava la sensazione di euforia che lo prendeva, l’eccesso che sentiva in corpo, gli spasimi e il sudore che lo attraversavano. Meglio di una notte d’amore, meglio della seduzione della più esperta yasha. La battaglia, poi, non è mai fedele, e questo lo conquista ancora di più. Lei c’è sempre, ma cambia amante senza preoccupazioni e senza pensieri. Un istante è al tuo fianco, e l’istante dopo si è concessa al tuo avversario. Un po’ come la vittoria. Va incatenata se la si vuole trattenere. Sedotta e schiavizzata a te. Al vincitore.

 

Puoi ottenere la vittoria, ma la battaglia sarà sempre un’amante. La più appagante delle tue amanti. Con le labbra accese dal sangue dei caduti, con la pelle bianca come i cadaveri, i capelli inariditi dalla distruzione e scarmigliati dal furore, gli occhi infiammati di follia e godimento, il respiro caldo e molle della trepidazione. Una bella donna; anzi, una bellissima donna. Desiderabile, appetibile, e mai conquistabile. Ma il divertimento è proprio quello: attirare la sua attenzione. Si concede, forse anche troppo facilmente. Indistintamente. A demoni e ningen. Non le importa l’amante. Basta che la faccia godere, che le dia tutta la violenza, la rabbia, la perdizione di cui è capace. Lei prende. Prende e basta. Non concede mai. Si lascia toccare, ma non la puoi imprigionare. La senti al tuo fianco mentre combatti, la senti sfiorarti mentre affondi la mano in un corpo, ti bacia sul sangue che ti macchia la pelle, ti eccita con i rantoli di un morente.

 

Morigawa ne era certo: la battaglia è la migliore amante di un demone. E come ogni amante va fatta aspettare, va esasperata e fatta sentire desiderata. Solo così la si può avvicinare, solo così la si può conquistare. E lei, sedotta, presa, ceduta, ti darà il piacere più intenso, il godimento più profondo. Fino a ottenebrarti la mente. Fino a lasciarti con il respiro rotto e la pelle bagnata di sudore e sabbia. In bocca, il sapore dolce e rovente della soddisfazione. Dell’appagamento.

 

Sistemò meglio gli spallacci della corazza, con meticolosa lentezza ed esasperante indifferenza. La battaglia che si consumava nella piana lo entusiasmava e lo lasciava apatico. Non era ancora giunto il suo momento; era ancora troppo presto per scendere in campo e infliggere il colpo di grazia. Voleva farli stancare, prima. Voleva vederli grondare sangue e sudore, ansimare e crollare per poi rialzarsi nel disperato tentativo di resistere. Di illudersi di potercela fare. Di poter ottenere la vittoria. Voleva conceder loro il beneficio dell’illusione. Strappargliela sarebbe stato ancora più soddisfacente. Le loro speranze naufragare, gli occhi dilatarsi nella drammatica consapevolezza e la promessa di una rovina totale a sussurrare nelle orecchie. Godimento puro.

 

Si lisciò il mento mente faceva vagare lo sguardo sullo scontro in atto. I suoi uomini erano dispersi in drappelli, ingaggiando scontri furiosi con gli uomini si Sesshomaru. Cadaveri ammucchiati a terra, lacerati da artigli, armi, corrosi da acidi e veleni. Violenza pura. La forza della loro razza superiore, la potenza distruttiva di loro demoni concentrata davanti ai suoi occhi. Urla, gemiti, lamenti strazianti. Sangue che sgorga, che sprizza nell’aria e imbratta la terra. Si leccò le labbra con gusto. Eccitante. Stimolante. Appagante.

 

Avevano provato a fregarlo, ed era andata male. Il ningen che aveva cercato di impersonare suo figlio, adesso, si dimenava come un leone ferito. Al limite. Ancora poco, e sarebbe crollato. Concedeva loro il fatto di aver ben congeniato quel piano: se fossero stati presenti Yashi e Koji, forse avrebbe anche potuto funzionare. Si sarebbero accontentati dell’odore familiare di cui le vesti di quel ragazzo erano intrise per accorrere da lui e fermare lo scontro imminente. Peccato. Per loro. Lui non era uno stupido. E quello stratagemma era stato del tutto inutile. Un ronzio gli fece sollevare gli angoli della bocca a scoprire i canini appuntiti. I saimyosho. Doveva ricordarsi di ringraziare Naraku per quell’aiuto inaspettato. Senza quegli insetti venefici, forse le cose avrebbe rischiato di andare diversamente. Quel ragazzo, quel monaco, non era mai ricorso al vortice che lo malediva. Si era sempre limitato a erigere una barriere a protezione della breccia che avevano aperto nelle mura. Se il suo alleato non lo avesse riconosciuto nonostante il travestimento e non lo avesse avvertito, benchè lo stratagemma fosse fallito, l’houshi sarebbe riuscito a risucchiare non pochi dei suoi uomini. Aprendo il foro a sorpresa.

 

Scosse la testa. Non era più un suo problema. Gli insetti velenosi lo avrebbero tenuto a bada, impedendogli di usare il vortice, e primo o dopo anche i suoi fuda sarebbero terminati. Assieme alla sua resistenza. Al momento, riusciva a resistere contando su una lancia recuperata da un cadavere e soprattutto sulla protezione di alcuni lupi di Koga.

 

Morigawa cercò nella mischia il figlio del suo vecchio amico. Hidoshi poteva esser fiero del suo erede. Forte e selvaggio, indomito. Dilaniava e uccideva con la furia del vento. Nella velocità riponeva una sicurezza che gli dava non poco vantaggio. Dovette ammettere a se stesso che non gli sarebbe dispiaciuto trovarselo di fronte e doverne saggiare la forza ferina. Koga grondava sangue dagli artigli, passando come un fulmine nero fra gli avversari. Dietro di sè, solo cadaveri squartati e moribondi che i suoi lupi finivano. La schiuma alla bocca per lo sforzo e la tensione, gli occhi assetati. Ogni tanto, un bagliore dorato sembrava attraversare il bulbo di Koga. Era un istante, ma per Morigawa bastava a cogliere lo sforzo del Principe degli Yoro a non abbandonarsi totalmente al suo sangue demoniaco. Patetico. Non voleva trasformarsi. Eppure, in forma animale, avrebbe potuto liberarsi dei suoi avversari con estrema facilità. In fondo, però, si trattava sempre del figlio di Hidoshi. Probabilmente, aveva ereditato dal padre l’inclinazione a non usufruire della sua forza piena se non in caso di estremo bisogno. Un peccato, però. Gli sarebbe piaciuto ammirare la potenza nervosa e guizzante dell’ultimo principe degli ookami.

 

Tuttavia, forse solo intervenendo di persona ci sarebbe riuscito. Ma non era il caso di sprecarsi con lui. Koga sarebbe stato un buon divertimento, un’altro trofeo da aggiungere alla sua vittoria, se fosse sopravvissuto alla morte del suo alleato. Annuì a se stesso. Se dopo aver ucciso Sesshomaru lo avesse trovato ancora vivo, si sarebbe divertito anche con lui. Il ningen lo lasciava volentieri ai suoi uomini, e anche Kumamoto non costituiva una minaccia. Gli scappò un ghigno di commiserazione. Eccolo lì, il principe di Kita. Il braccio destro del grande Inutaisho. Si batteva ancora con vigore, ma ormai era solo un vecchio demone che trascinava la sua carcassa. Non era nemmeno capace di assumere la forma canina per liberarsi dei pochi insetti che lo infastidivano. Davvero penoso. Eppure, se lo conosceva bene, poteva anche trattarsi di una mascherata. Gliela aveva vista mettere in atto una volta, in un combattimento in cui erano ancora alleati.

 

Ricordava bene che lo aveva creduto spacciato, e che aveva cercato in tutti i modi di raggiungerlo per prestargli aiuto prima che gli assalitori finissero a terra o nelle fauci di un superbo cane dal pelo fulvo. Kumamoto sapeva fare della sua apparente debolezza e della sua lucida calma la miglior arma per colpire a sorpresa. Poteva riservare quella carta anche per quel duello. In definitiva, qualunque fosse la realtà, non gli interessava. Non in quel momento.

 

“Sta resistendo bene, ne convieni?”

 

Morigawa voltò appena la testa, accogliendo il suo alleato con un sorriso obliquo. Naraku riusciva a sorprenderlo sempre di più. Aveva smesso la pelliccia di babbuino e la sua aria remissiva e accondiscendente per rivelare un corpo di uomo saldo e affidabile in combattimento. Un corpo artificiale, lui lo sapeva bene; un ricettacolo delle parti migliori dei demoni che era riuscito a inglobare e che lo avevano generato. Una perfetta macchina per combattere. Molto abile, da parte sua, e molto prudente anche, nascondergli fino all’ultimo la sua effettiva potenza. Un ottimo stratagemma per tenersi sempre aperta una via di fuga se le cose si fossero complicate e avessero preso la piega sbagliata. Non si fidava di lui, ma non gli negava di certo amicizia. Dopotutto, se il progetto di spodestarlo non era riuscito e se i suoi figli e sua moglie, in quel momento, non erano più in condizioni di nuocergli, lo doveva a lui. Era stato suo anche il progetto di attaccare il palazzo di Sesshomaru durante quello scontro. Con le difese ridotte al minimo e gli infermi, espugnarlo era un gioco da ragazzi. Nessun pericolo con la Famiglia e il Congresso: l’idea era partita da Naraku senza consultare il suo alleato, e lui non si preoccupava certo di soggiacere alle regole che governano i demoni. Se ci fossero state complicazioni, Naraku era pronto ad accollarsi la responsabilità dell’attacco; in cambio, però voleva la morte del secondogenito di Inutaisho e la donna che era sempre con lui. Morigawa non aveva avuto alcun motivo di opporsi a quella proposta vantaggiosa. Non gli interessava un dannato bastardo e la sua sgualdrina. L’unica cosa che gli premesse, in quel momento, ce l’aveva davanti agli occhi.

 

Sesshomaru affondò maggiormente una mano nel demone che gli si era affondato contro. Raschiò nella carne imbottendolo di veleno e lo trapassò. Se ne liberò con un gesto fluido per poi artigliare l’aria con lame di veleno. Non sembrava dar segni di cedimento, ma la fronte grondava sudore e i capelli erano appiccicati al volto. Con un gesto secco slacciò la pesante pelliccia. Ormai, era diventata solo un inutile ingombro, zuppa di sangue e sudore. Però, dovette ammettere a se stesso, la corazza di suo padre lo aveva salvato più di una volta. Sfiorò il pettorale facendo stridere il metallo. Sentiva le incisioni di denti, artigli, veleni. Lo aveva protetto assorbendo colpi di cui non avrebbe saputo individuare la provenienza. La cecità lo metteva in forte svantaggio su un campo di battaglia di quel genere: attorniato da mille rumori, voci, odori, non poteva far affidamento sui suoi sensi per le lunghe distanze e limitarsi a seguire l’istinto.

 

Continuava a squarciare corpi che gli si avventavano contro, affondando nella carne calda e pulsante con gli artigli, aprendosi la strada con fendenti precisi quando Tokijin recuperava un po’ della sua carica demoniaca, affondando i denti nella giugulare dell’avversario, nella spalla, nella testa se fosse stato necessario. Sentiva il sangue fluirgli in bocca, macchiargli il kimono appesantendolo e appestandolo con un odore metallico. Dilaniò il petto dell’incauto che aveva osato attaccarlo alle spalle conficcandogli i denti nella spalla sinistra, lì dove le giunture della corazza erano più fragili. Il sangue ruscellò dalla ferita, scendendo a bagnargli il petto bagnato di sudore e stanchezza. Rivoli caldi che si portavano via lentamente un po’ di forza.

 

Si sentì trascinare a terra. Un oni probabilmente. Confidando nella sua mole, lo aveva rovesciato e adesso cercava di fracassargli la testa con qualcosa. Percepì il sibilo dell’aria sfiorargli il viso. Peccato. Aveva perso. Costrinse il corpo a scattare verso l’alto, azzannandolo alla gola. Le braccia erano ancora stette a terra. L’oni urlò scuotendo la testa. Strinse di più. Perforò la carotide, spinse le zanne sempre più in profondità, soffiando aria e sangue dalle narici. Chiuse. Strappò. La trachea, l’esofago, la laringe furono recise in un colpo solo, e il demone stramazzò al suolo. Sesshomaru si risollevò in ginocchio. Era consapevole che attorno a lui, in quel momento, il tempo si era fermato e che i suoi avversari lo stavano fissando allibiti. Aveva ancora in bocca frammenti di quella carne. Per un istante, gli balenò l’idea di inghiottire. Di assaporare quella carne sanguinolenta e molle. Avrebbe fatto ancor più impressione della sua figura con l’armatura imbrattata e il viso grondante sangue avversario. Si risollevò in piedi e sputò a terra sangue e carne, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Il solo pensiero di mangiarla gli aveva dato la nausea. E poi, era scattato qualcosa in lui. La consapevolezza che, se lo avesse fatto, non sarebbe più riuscito a baciare Alessandra. Una stupidaggine. Ma lo aveva fermato.

 

Morigawa si era gustato la scena con un sorriso compiaciuto. La violenza e l’efferatezza del principe dei demoni corrispondeva al vero. Non risparmiava nemico che gli si parasse di fronte. Totalmente diverso dal padre. Ammetteva a se stesso che quando lo aveva visto comparire nella piana, con quell’armatura lucente e i capelli raccolti in una coda alta, per un istante si era sentito pietrificare. Come se avesse rivisto Inutaisho. E istintivamente aveva raddrizzato la schiena, mentre un sottile senso di gioia gli aveva attraversato il corpo in un fremito. In quei brevissimi istanti, si era risentito catapultare indietro, a più di quattrocento anni di distanza, in un tempo in cui lo avrebbe atteso schierato prima di dirigersi con lui verso qualche impresa. Verso combattimenti in cui si guardavano le spalle a vicenda. Aveva scosso la testa. In passato era e doveva rimanere tale. Inutaisho lo aveva tradito, offrendogli un’amicizia falsa e irrisoria. Sbattendogli sempre in faccia la sua superiorità. Non aveva nemmeno provato a sostenerlo per testare se fosse stato in grado di controllare Sounga. Si era limitato a guardarlo. Con odioso, intollerabile pietà.

 

Forse, gli avrebbe fatto un certo effetto combattere contro Sesshomaru in quelle vesti. Fisicamente, il Principe assomigliava in modo impressionante al padre. A Inutaisho da ragazzo, quando aveva l’età del figlio. Tuttavia, Morigawa non poteva ingannarsi. A parte la somiglianza visiva, nulla accomunava Sesshomaru al padre. Inutaisho si sarebbe gettato nella mischia con Tessaiga brandita, urlando e infischiandosene di approntare una strategia efficiente. Avrebbe contato principalmente sulla sua tenacia e la sua determinazione a vincere. E di certo di sarebbe ritrovato accerchiato, isolato in mezzo agli avversari che avrebbe atterrato. Non si sarebbe preoccupato di tenersi una via di fuga, sicuro che i suoi compagni sarebbero accorsi in suo aiuto se fosse stato necessario. Sesshomaru, invece, avanzava calibrando bene ogni passo, assicurandosi che alle sue spalle ci fossero i suoi uomini a tenere le posizioni e cadaveri avversari. Non interveniva a difesa di qualcuno, non si affiancava a Kumamoto o Koga nello scontro. Procedeva sicuro e solo. I capelli a frustare l’aria e piccoli righi indispettiti se un avversario si rivelava più tenace del previsto. Ora, con i capelli sciolti per un colpo avversario che aveva reciso il nastro, Sesshomaru appariva davvero un ragazzo. Un ragazzo dell’età di suo figlio. E con una rabbia, un’efferatezza e una freddezza capace di raggelare il più anziano e consumato demone.

 

Lo vide liberarsi di un altro soldato e muovere lentamente la testa. Morigawa ebbe un sorriso ironico. Lo stava cercando. Stava procedendo alla cieca nella speranza di trovarselo di fronte. Se non fosse stato privo della vista, certamente Sesshomaru si sarebbe diretto immediatamente da lui. Perchè non si confà ad un Principe incrociare la spada con inutili, deboli sottoposti. Invece, Sesshomaru si era costretto all’umiliazione di avanzare concedendosi agli uomini del suo avversario. Sentiva il suo odore nell’aria, ma il tanfo di sudore, il metallo del sangue e la confusione che regnava intorno a lui gli impedivano di identificare Morigawa con sicurezza. E non sarebbe stato tanto sciocco da avventurarsi in uno scontro senza esser certo di caso si sarebbe trovato di fronte. Non per paura, ma perchè orami aveva capito che Morigawa non era ancora sceso in battaglia. Che quello scontro era una farsa ideata apposta per stancarlo e fargli consumare energie. Recuperò Tokijin e la soppesò al fianco. Benissimo. Se il suo nemico aveva voglia di giocare con lui come il gatto col topo, la sua pazienza si stava invece esaurendo. Fece scattare gli artigli fino a creare una frusta di veleno che sferzò l’aria e mutilò gli avversari che lo stavano accerchiando. Pesci piccoli. Avrebbe costretto Morigawa a spazientirsi e scendere in campo.

 

Da parte sua, il Principe del Kansai stava fremendo. I suoi uomini cadevano sotto i suoi occhi per effetto del suo avversario, e anche se gli alleati di Sesshomaru erano impegnati su più fronti e lo scontro aveva raggiunto una fase di stasi, il Principe dell’Ovest continuava a mettere un piede davanti all’altro, macchiandosi sempre di più di sangue e lamenti. Non conveniva fargli perpetrare quel massacro con il solo scopo di indebolirlo. Ghignò accennando a Naraku e ricevendone in risposta un risolino compiaciuto. L’hanyou sarebbe rimasto a coprirgli le spalle, nel malaugurato caso che Sesshomaru avesse dovuto ideare qualcosa che gli avrebbe permesso di scampare alla morte. In fondo, interessava anche a lui la dipartita di quel demone che lo aveva sempre guardato con un disprezzo irritante. E poi, era stato l’unico che non era riuscito a raggirare ai suoi scopi. Uno smacco per lui, che faceva della sua abilità di manipolare gli eventi e le menti la sua carta vincente.

 

Sesshomaru si avvide all’improvviso che attorno a lui era sceso un silenzio innaturale. Affondò maggiormente la mano nel corpo che premeva a terra e chiuse la presa sul cuore. Un ultimo spasimo, e sentì il sangue pulsare fra le sue dita. Si risollevò in piedi con calma. Adesso, lo aveva di fronte. Lo sentiva bene. Morigawa doveva distare meno di cinquanta metri da lui. Ci era riuscito: lo aveva fatto uscire allo scoperto. Si concesse un brevissimo sorriso. Affrontare un vecchio alleato di suo padre significava affrontare anche lo spettro del genitore. Dimostrare finalmente a se stesso che era degno di lui; anzi, che lo aveva superato. Mostrare quello che non aveva potuto fargli vedere in quella maledetta notte, sotto la luna che si alzava dal mare.

 

Sfiorò Tessaiga che pulsava al suo fianco, ma si risolse a snudare Tokijin. La zanna, probabilmente, rispondeva al richiamo della youki di suo padre che ancora sopravviveva in quella del suo avversario. Affrontarlo con l’eredità che gli era stata lasciata sarebbe stata un’imprudenza inammissibile: Morigawa era un fantasma del passato, ma in carne ed ossa; non un cadavere resuscitato come quel misero umano di cui si era servita Sounga. Con lui aveva funzionato, ma questa volta era diverso. Peccato solo che non cambiasse quell’inquietudine che gli si agitava nel cuore, quel senso di inadeguatezza e di rimpianto.

 

Morigawa lo vide mettersi in posizione, ma restare immobile. Non attaccava. Suo padre non avrebbe di certo aspettato, anche se non conosceva il suo avversario. Il Principe, invece, si dimostrava meno soggetto alla passione. Ottimo. Ancora più stimolante affrontarlo e sconfiggerlo. Estrasse a sua volta la katana e acconsentì al fatto che doveva fare lui la prima mossa. Sesshomaru era disposto a mantenere quella situazione di stallo anche all’infinito, se smuoverla avrebbe comportato il fatto di esser lui a dover attaccare per primo. Non era uno stupido, e sapeva benissimo che il suo avversario vantava una maggior esperienza di lui e soprattutto aveva combattuto con suo padre. Certi trucchi, certi piccoli insignificanti accorgimenti che a volte gli avevano salvato la vita sarebbero stati, quindi, inutili con Morigawa.

 

Se lo ritrovò addosso senza preavviso, incrociando le spade e socchiudendo istintivamente gli occhi alle scintille e alle scariche di energia. Sesshomaru fu costretto a spostare indietro un piede per aver maggior presa sul terreno e non esser sbilanciato. Sentiva l’elsa fremere nelle sue mani e i menuki tagliargli la pelle, inzuppando di sangue le nastrature di seta e pelle. Morigawa aveva una potenza d’urto di molto superiore alla sua; avrebbe dovuto far molta attenzione perchè avrebbe anche potuto disarmarlo se avesse colpito senza che lui riuscisse a prevederlo e quindi a rinforzare la presa sul piatto o il dorso della katana. Si disimpegnò tagliando l’aria davanti a sè con gli artigli e costringendo il suo avversario a reclinare la testa di scatto per non venir colpito. Aveva l’affanno, ed era solo il primo confronto. Tokijin fumava arroventata dallo scontro delle due youki. Non avrebbe retto a lungo una simile pressione.

 

Morigawa si preparava ad assalirlo di nuovo. Era rimasto piacevolmente sorpreso di non averlo sbilanciato sotto l’impatto del colpo. Sesshomaru era riuscito a recuperare l’equilibrio e lo aveva costretto anche a ritrarsi. Tuttavia, la sua katana, benchè ottima, non avrebbe resistito a lungo. Aveva fatto forgiare la sua spada dai migliori kaji del Continente; solo Sounga, o forse Tessaiga sarebbero riuscite a spezzarla. Ma, a quanto vedeva, Sesshomaru aveva con sè solo Tenseiga, l’artiglio inutile in battaglia. Storse la bocca. Aveva sbagliato a sottovalutarlo a quel modo e a optare per una spada qualsiasi, invece di portare con sè Tessaiga. Gli avrebbe dimostrato che il Principe del Kansai sarebbe stato degno di esser affrontato con la zanna di Inutaisho.

 

Gli fu di nuovo addosso, e si compiacque di avvertire l’opposizione iniziare a indebolirsi. La ferita alla spalla iniziava a fiaccare la resistenza di un braccio, e Sesshomaru ne risentiva, benchè il suo viso non tradisse un’emozione, eccezion fatta per il sudore che gli bagnava la fronte. Stava facendo fatica. Molta fatica a reggere l’impugnatura. Le lame si piegarono verso la testa del Principe dell’Ovest. Sesshomaru avvertì lo sfrigolio del calore sulla sua pelle. Doveva allontanare la lama prima che fosse troppo tardi. Piegò leggermente le ginocchia per dare l’illusione di un prossimo cedimento e raccolse le forze nel disperato tentativo di ricacciare indietro il suo avversario. La mossa riuscì solo a metà. Morigawa, ingannato al principio, aumentò immediatamente la pressione e, approfittando, del fatto che il suo avversario era cieco, concentrò tutta il suo peso in una mano, liberando indisturbato l’altra.

 

Fu un istante. Sesshomaru avvertì un leggero cambiamento nella spada avversaria, ma non riuscì a definirlo. Sentì solo degli artigli perforargli la spalla, insinuandosi nella ferita che già aveva. Gli sentì stringersi attorno alle sue ossa e iniziare a corrodere le carni con dell’acido. La pelle bruciava e il sangue sfrigolava sottoposto a quel contatto. Morigawa ruotò leggermente la mano strappandogli un sussulto. Gli artigli iniziarono lentamente a scendere verso il basso, strappando muscoli e terminazioni nervose, affondando sempre di più. Sulla corazza le decorazioni erano sparite sotto il sangue e l’inuyoukai sentiva il kimono farsi sempre più pesante e bagnato, appiccicato al petto da un qualcosa di vischioso che continuava a scendere lungo il suo corpo Sesshomaru ebbe per un istante l’impressione di esser sul punto di cedere. Non era più in grado di reggere la pressione del corpo di Morigawa e se non si allontanava al più presto il suo avversario lo avrebbe squartato.

 

“Non vali la metà di quanto valeva tuo padre”

 

Morigawa ormai lo aveva costretto in ginocchio. Gli si era avvicinato all’orecchio, compiaciuto della posizione di superiorità che aveva, e gli aveva soffiato nella testa quella verità. Quelle parole che bruciavano la mente e il cuore di Sesshomaru più del veleno che gli stava corrodendo le carni. Perchè erano vere. Maledettamente vere. Suo padre non si sarebbe mai fatto mettere in ginocchio, suo padre non avrebbe avuto difficoltà ad eliminare un demone simile. Ma lui sì. Lui era incapace di controbattere, incapace di finirlo. Anzi, anche solo di resistergli in un confronto corpo a corpo.

 

Sesshomaru strinse i denti in un ringhio greve che gli saliva dalla gola. Era disteso a terra, sotto il suo avversario. Morigawa continuava a premere la katana sempre più vicina al suo petto e intanto la mano nel suo corpo scendeva sadicamente verso il basso. Gli sussurrava all’orecchio la sua debolezza, e iniziò a paventargli davanti quello che avrebbe fatto una volta che lo avesse ucciso. Sentì la sua voce assumere una nota bassa e torbida mentre gli confidava che avrebbe riservato un trattamento speciale alla ningen che teneva a palazzo. A quell’archiatra che era riuscita a trovare un antidoto al veleno di Yaone.

 

Morigawa sollevò leggermente la testa nel vedere per un istante i lineamenti del suo avversario fermarsi nello stupore e poi contrarsi in un furore impotente. Sogghignò compiaciuto di aver trovato qualcosa su cui far presa per smuovere quella maschera di apatica superiorità. Calcò il discorso sulla ningen, con toni allusivi e volgari, fino a quando la sua risata si tramutò in un gridò di collera e dolore. La presa della spada di allentò di colpo così come la mano uscì dal corpo del demone. Sesshomaru approfitto della libertà di movimento per strisciare indietro e mettersi fuori dalla portata di Morigawa.

 

Il Principe del Kansai urlava colto da spasimi di furore e dolore. Non si era aspettato una mossa del genere, e adesso ne stava pagando le conseguenze. Stringendo i denti, afferrò il pugnale e lo strappò con un colpo deciso. Sentì il nervo ottico frantumarsi sotto quella pressione improvvisa, mentre la lama usciva dalla cavità oculare portando con sè il bulbo destro. Sesshomaru, approfittando delle chiacchiere del suo avversario, era riuscito a far scivolare una mano fino alla propria schiena, insinuarla sotto l’arcata dorsale e afferrare il tanto. Lo aveva sollevato all’improvviso e abbattuto sul suo avversario senza preoccuparsi di dove avrebbe colpito. Gli era sufficiente costringerlo ad allontanarsi da lui. Il pugnale era scivolato sull’osso zigomatico e si era conficcato nell’occhio. Adesso, Morigawa ringhiava cercando di arrestare il sangue che colava dall’orbita vuota e scendeva a imbrattagli il volto, le labbra e i denti. Si rannicchiò su se stesso e scattò cercando di afferrare alla gola Sesshomaru. Riuscì solo a strappargli uno spallaccio della corazza e parte del kimono, perchè il Principe, avvertendo un pericolo era rotolato di lato per istinto, sottraendosi all’artigliata che adesso stava corrodendo il metallo.

 

Morigawa si alzò in piedi ebbro di furia, folle di dolore e rabbia, e iniziò a concentrare la propria energia demoniaca. L’unico occhio che gli era rimasto si oscurò, mentre la sclera assumeva una colorazione rossastra. Il viso, le mani, il corpo iniziarono a perdere la forma umana e in pochi istanti Sesshomaru avvertì incombere su di sè la mole di Morigawa, ormai trasformato in un enorme cane nero, con il muso imbrattato di sangue e i denti scoperti in un ringhio assassino. Sesshomaru seppe di avere poco tempo. Doveva allontanarsi da lui subito. Prima che una distrazione lo portasse nelle sue zampe. Sentì l’alito rovente del demone sfiorarlo e ammorbarlo, ma riuscì a mettersi a distanza di sicurezza.

 

Strinse a sua volta i denti. In quelle condizioni, con la spalla lacerata, le energie al minimo e il respiro pesante non sarebbe mai riuscito a batterlo in forma umana, dal momento che doveva anche considerare che, non potendo contare sulla vista, la pericolosità e velocità dei suoi attacchi era diminuita di molto. Doveva affrontarlo in forma canina, benchè trasformarsi con quelle poche energie che gli rimanevano poteva benissimo esser paragonato a un suicidio. Il suo corpo, benchè demoniaco, non avrebbe retto a lungo in quello stato la fortissima pressione del sangue e della youki. I vasi sanguigni si sarebbero rotti, provocandogli un’emorragia interna che non avrebbe avuto il tempo reale di sanare con la sua capacità di autorigenerazione. Inoltre, il molto sangue perso non gli avrebbe consentito di mantenere al massimo per molto tempo la sua capacità offensiva e al contempo il livello di guardia. In definitiva, ammetteva a se stesso, avrebbe avuto a disposizione un solo attacco. Fallito quello, Morigawa lo avrebbe avuto alla sua mercè.

 

Lasciò scorrere la sua youki nelle vene, aumentandola lentamente per cercare di far abituare il suo corpo al cambiamento. Peccato che non avesse troppo tempo. In altre circostanze, forse si sarebbe potuto trasformare dilatando notevolmente i tempi. Ma su un campo di battaglia era superfluo ipotizzare una simile possibilità. I capelli si gonfiarono leggermente per effetto del leggero elettromagnetismo che la sua aura produceva, mentre le zanne si allungavano. Sbarrò gli occhi divenuti vermigli mentre la sclera si assottigliava e assumeva la caratteristica colorazione bluastra.

Era quasi al limite, pronto a cambiare, quando un sottile dolore alla testa lo colse di sorpresa. E più cercava di ignorarlo e continuare la trasformazione, più l’emicrania aumentava, raggiungendo i nervi degli occhi facendoli fremere. Sesshomaru sentì i propri bulbi oculari tremare, arrecandogli un dolore atroce. Peggio dell’acido che li aveva rovinati mesi prima.

 

Fu costretto a fermare la trasformazione, ma il dolore non accennava a diminuire. Al contrario, si faceva sempre più penetrante, artigliandogli il cervello e costringendolo a portare una mano alla testa in un inutile tentativo di bloccarlo. Se continuava così, gli avrebbe tolto tutta la lucidità. Distingueva a malapena i rumori più violenti, ma ormai le sue capacità sensoriali stavano naufragando. Fu sicuro che Morigawa era pronto ad azzannarlo, e che lui sarebbe stato incapace di difendersi. Ne sentì il respiro pesante lambirlo, e poi ringhi, latrati, arti che si spezzano, carni che si lacerano. Prima di esser costretto a piegarsi a terra, la testa che doleva all’inverosimile stretta fra le mani e un ringhio soffocato in gola, stretto fra i denti che si tingevano di rosso per il sangue delle gengive contratte.

 

 

*****

 

 

Paura.

Non sentiva altro. Paura. Paura. Le faceva battere il cuore, pulsare le tempie e accelerare il respiro. Quel sottile strato di agitazione che l’aveva attraversata da quando era arrivata a palazzo, la paura di essere inadeguata, la tensione dovuta alla guerra e agli scontri che si susseguivano sempre, l’ansia di non vederlo più tornare da un uno scontro...Era esploso tutto all’improvviso, trascinato dal precipitare degli eventi, dal timore di perderlo e dal pensiero di precipitare in quel vortice buio di disperazione e depressione in cui era vissuto per anni dopo la morte della sua famiglia.

 

Alessandra strinse di più le mani sul collo possente del cervo. Strinse gli occhi per fermare le lacrime che il vento e la trepidazione le strappavano. Inghiottì a vuoto e storse la bocca. La sua maschera di perfezione, la sua falsa sicurezza erano scivolate via dal suo volto e dalla sua anima insieme alle mani del demone sul suo corpo, alle sue labbra sulla sua bocca. Sesshomaru aveva infranto la sua debole, inesistente forza, annullandola in quelle poche ore che erano appena trascorse. Strofinò il dorso della mano su una guancia sporca e secca di lacrime ormai asciutte. Ricacciò indietro i capelli che sfuggivano allo shignone sfatto. Sentiva freddo nonostante l’aria pesante di maggio le gravasse ogni respiro. Sentiva freddo e brividi percorrerle il corpo. Le braccia che l’avvolgevano si strinsero leggermente attorno al suo corpo, e una voce scese a sussurrarle all’orecchio.

 

“Arriveremo in tempo. Vedrai”

 

Alessandra annuì e premette la schiena al petto di Inuyasha. Il calore dell’hanyou era così simile a quello dell’abbraccio di Sesshomaru, il profumo intenso e maschile, penetrante. L’odore di polvere e sudore, di uomo e della loro cavalcatura. Cercava di rassicurarla, ma anche lui era preoccupato. Le parole di Hidesuke suonavano troppo come un presagio negativo. Tutto quello che avevano dovuto affrontare in quelle ultime ore aveva un’aura di oscurità. L’attacco insensato dei demoni di Naraku, quell’aiuto inaspettato e sospetto, il sospetto che tutto fosse stato architettato per mettere in atto una trappola. Uno stratagemma ordito apposta per ottenere qualcosa. Il punto era cosa Morigawa o Naraku volevano ottenere.

 

Inuyasha strinse di più le redini e conficcò i talloni nel ventre del cervo. Non se ne era andato. Il senso di inquietudine che lo aveva preso non accennava minimamente a scendere. Saliva. Saliva e basta. Assieme all’adrenalina che andava a infiammargli il cervello. Smosse un po’ le orecchiette, cercando di captare i rumori lontani di uno scontro. Inutile. Il suo udito era ancora compromesso, e probabilmente ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo prima che tornasse come prima. In definitiva, doveva ammettere a se stesso, era anche stato fortunato. Quando quel maledetto demone serpente aveva iniziato a suonare quell’ hitoyogiri aveva avvertito un fastidioso formicolio alle orecchie. Poi, più la musica continuava, più il suono si trasformava in un sibilo acuto e insistente. Gli aveva dato fastidio all’inizio, e poi male. Un dolore che gli aveva trapassato il cervello con scariche violente. Gli era sembrato di poter impazzire. Si era portato le mani alle orecchie nel disperato tentativo di attenuare quel suono. Inutile. Aveva visto i soldati accanto a lui contorcersi in preda al suo stesso dolore. Alcuni si rotolavano a terra preda di spasmi dibattendosi impazziti nella polvere. Molti erano morti. Li aveva visti cadere a terra con il sangue che colava dai padiglioni auricolari spezzati. Con la vista annebbiata, si era accorto soltanto che qualcuno lo stava trascinando via dal ballatoio sulle mura. Aveva riconosciuto Sango un attimo prima di artigliarla in un raptus difensivo. Non sembrava risentire minimamente di quel maledettissimo hitoyogiri. Gli aveva parlato, ma lui era riuscito a distingue re a malapena il movimento delle labbra della ragazza. L’aveva allontanata da sè con un gesto brusco, facendola inciampare in un cadavere e finire a terra mentre sentiva il proprio sangue demoniaco iniziare a prendere il sopravvento. Sango aveva fissato con terrore le sottili strisce violacee farsi strada sul viso di Inuyasha, i canini allungarsi fino a vere e proprie zanne e gli artigli affilarsi, mentre i capelli diventavano più lucidi e fini. Kirara aveva ringhiato dietro di lei, avvertendola che a breve l’hanyou avrebbe perso il controllo di sè. L’orbita oculare era ormai completamente infiammata, e la sclera stava quasi per mutarsi del tutto.

 

Inuyasha aveva continuato a scuotere la testa nel disperato e vano tentativo di fermare quel dolore, la perdita del suo ego, di ricacciare indietro la bestia che si annidava in lui e che stava per scatenarsi. Se la sua trasformazione era legata alla follia cui lo spingeva il suono di quel dannato flauto, era pronto anche a perforarsi i timpani pur di non sentirlo più e non rischiare di perdere il controllo. Aveva allargato le braccia, e un attimo prima di conficcarsi gli artigli nei timpani si era sentito afferrare per i polsi. Kagome. Kagome lo aveva raggiunto e lo supplicava di fermarsi, di non ricorrere ad un gesto inutile ed estremo. L’aveva vista piangere attraverso quel velo rosso che colorava ogni cosa. L’aveva vista urlare, anche se la sua voce non riusciva a coprire quel suono maledetto. Si era sentito stringere in un abbraccio disperato e aveva ringraziato i kami che almeno un suo braccio fosse tanto malmesso da faticare a muoverlo. L’altro, poteva ancora controllarlo, ma non per molto. Aveva stretto i denti, conficcandosi i canini nella pelle viva, lasciando che un rivolo di sangue gli disegnasse il mento. Non voleva cedere. Non poteva farlo.

 

Il silenzio che gli aveva attraversato il cervello all’improvviso lo aveva lasciato esterrefatto e si era portato via le ultime energie che lo avevano sorretto. Si era accasciato fra le braccia di Kagome, respirando affannosamente e cercando di sfiorarsi le orecchie. Avevano continuato a dolergli. Quando aveva rialzato lo sguardo, aveva visto Shin arrancare nella sua direzione, sostenuto da Alessandra. Zoppicava vistosamente e il fianco era zuppo di sangue all’altezza dell’addome. L’inuyoukai cercava di arginare l’emorragia con una mano, e probabilmente era molto profonda. Se non gli avevano strappato l’intestino era stato solo pura fortuna. Si concesse uno sguardo rammaricato agli uomini che erano morti. Probabilmente, quell’ hitoyogiri emetteva un suono mirato per loro inuyoukai. Avevano resistito solo i demoni più potenti come Shin e quelli cui il suono giungeva meno intenso. E lui che era un hanyou. Un sorriso sarcastico. Quella era stata una delle poche volte che era stato contento della sua natura ibrida.

 

Si era risolleva faticosamente in piedi mentre i pochi superstiti si radunavano attorno a lui. Escludendo Kagome, Alessandra, Sango e Homoe e senza contare i cortigiani e le yasha che erano rimasti tappati nel palazzo, con una certa protezione anche da quel maledetto strumento, della guarnigione di difesa restavano appena una decina di uomini e qualche veterano. E tutti in condizioni gravi. Non avrebbero retto a lungo l’offensiva nemica che di certo si sarebbe scatenata di lì a poco. Inuyasha aveva stretto i denti e la mano sull’elsa di Tessaiga. Aveva maledetto per l’ennesima volta il fatto di non possedere la fredda razionalità di suo fratello, la capacità che aveva di trovare sempre una certa, ovvia, infallibile soluzione. Sesshomaru non considerava la sconfitta perchè era certo che sarebbe riuscito a far fronte ad ogni situazione. In quel momento, aveva sentito il disperato bisogno che qualcuno gli dicesse che potevano ancora farcela, che il fatto che era un hanyou non significava niente e che avrebbero trovato il modo di resistere.

 

Le grida e il cozzare delle armi era sempre più frenetico. Gli uomini sopravvissuti si erano disposti in due file fra Inuyasha e la porta d’ingresso, le armi in pugno e un ghigno di sfida sulle labbra. Erano perlopiù demoni che avevano combattuto sotto Inutaisho, e che si erano messi al servizio di suo figlio. Anzi, dei suoi figli. Perchè, in quel frangente, il giovane hanyou aveva dimostrato una tempra e una risolutezza insolita per quelli della sua razza. Non era corso a nascondersi, ma era sceso in campo in prima persona, fregandosene che il comandante lasciato da Sesshomaru-sama non gli prestasse attenzione. Era stato pronto a combattere per quello che credeva giusto. Per quello che credeva andasse fatto. Come suo padre. Esattamente come Inutaisho-sama.

 

Inuyasha gli aveva osservati con un smorfia amara, prima di risollevare gli occhi e scambiare uno sguardo intenso con il Principe del Kansai. Shin aveva sorriso mostrando le zanne insanguinate. Ormai, non si sarebbe di certo tirato indietro. Aveva ripreso la posizione eretta, e gli si era affiancato. Se doveva morire, lo avrebbe fatto con la spada in mano e la sicurezza di star combattendo per qualcosa che sentiva di voler difendere. Anche se era la casa del suo nemico.

 

Inuyasha non aveva auto il tempo di aprir bocca che la pesante porta di quercia e bronzo era stata scardinata da una violenta esplosione e una folla di demoni si era rovesciata nella piazza d’armi. Era successo tutto talmente in fretta che nessuno di loro si era accorto di cosa esattamente fosse avvenuto. Quando la polvere si era diradata, i demoni di Naraku stavano cercando di raggiungere il piccolo manipolo che proteggeva l’ingresso al corpo centrale dell’edificio, ma erano ostacolati da inuyoukai. Demoni mai visti si stavano opponendo a quelli di Naraku, seminando la morte fra le file avversarie e decimandone lentamente il numero. In breve tempo, i superstiti del numeroso gruppo che Naraku aveva mandato contro al castello, vedendo la mala parata, avevano optato per una poco dignitosa ma sicura fuga.

 

Inuyasha incitò ancora la sua cavalcatura. Si malediva in tutti i modi per non esser riuscito a convincere Alessandra a restare a palazzo. Suo fratello lo avrebbe ammazzato, ma anche lui si dava dello stupido. Se solo fosse successo qualcosa alla ragazza, non se lo sarebbe mai perdonato. Eppure, non era riuscito a opporsi davanti alla sua disperata risolutezza. Aveva avuto il sospetto che sarebbe stata capace di crollare lì, davanti ai veterani, alla corte, ai Principi di Yezo e del Kansai. Davanti a tutti, urlando e dimenandosi come una forsennata pur di ottenere di andare con loro. Di andare da lui. in quel momento, la fragilità di Alessandra era stata messa a dura prova. Probabilmente, la ragazza doveva ringraziare un inconscio senso del pudore, che le aveva impedito di abbandonarsi all’isterismo. Tuttavia, davanti al suo viso sporco di fango e polvere, con i capelli scarmigliati e le labbra esangui che tremavano nel disperato tentativo di formulare una supplica, non era riuscito a dirle di no. L’aveva fatta salire con sè su uno dei cervi che Hidesuke aveva messo a loro disposizione per raggiungere il campo di battaglia, ignorando le proteste di Kagome e facendole promettere di occuparsi dei feriti con Homoe e Sango.

 

E adesso, cavalcava assieme al Principe di Yezo e al suo esercito verso quella maledetta battaglia. Sperando che non fosse troppo tardi. Kagura era stata chiara: in un modo o nell’altro, Morigawa e Naraku avrebbero impedito che Sesshomaru sopravvivesse a quello scontro. Alessandra abbassò la testa. Rivedere la yasha le aveva provocato un modo di timore. Kagura era apparsa nella piazza d’armi alla fine dello scontro, quando ormai i demoni di Naraku erano lontani. Accompagnava due feriti e una yasha provata, ama ancora capace di intimorire con lo sguardo: i fratelli e la madre di Shin. Non sembrava prigioniera. Non aveva guardie che la scortassero, nè le era stato tolto il tessan. Si era limitata ad un sorriso di scherno verso Inuyasha e poi aveva guardato lei. Occhi rossi. Occhi rossi e malinconici, e un sospiro che era di rimpianto.

 

“Sesshomaru corre un grave pericolo”

 

Cinque parole. Cinque maledette parole che le aveva sbattuto in faccia. Perchè, Alessandra ne era stata sicuro, Kagura si era rivolta a lei. Non aveva fatto nomi, ma il suo sguardo parlava da solo. Gelosia e stanca rassegnazione. Non aveva aggiunto altro e si era librata nel cielo sulla sua piuma. L’aveva lasciata andare. Alessandra non sapeva il perchè, ma aveva impedito a Inuyasha di attaccarla, anche se il ragazzo aveva cercato di convincerla che lasciarla libera significava permetterle di avvertire Naraku. Alessandra aveva scosso la testa. Non sapeva perchè, ma non voleva che quella yasha morisse. Se aveva rivelato loro quell’informazione, senza chiedere nulla in cambio, era perchè voleva che Sesshomaru vivesse. Anche se non capiva, non osava voler capire, il perchè.

 

Strinse le mani sulle braccia che la circondavano. Inuyasha non aveva voluto sentir ragioni. Si era fatto fasciare il braccio alla meno peggio ed era montato in sella. Faceva lo sbruffone come al solito, ma il suo viso era pallido e il sudore per la stanchezza, la debolezza e l’agitazione denunciavano la sua insicurezza. Alessandra lo sentì irrigidirsi d’improvviso, e voltando appena la testa lo vide tendere il collo e fiutare l’aria. Pochi istanti, e i suoi occhi si dilatarono per poi assottigliarsi a due fessure. Lame affilate. Spietate. Lo stesso sguardo di Sesshomaru quando si accingeva a combattere, dovette ammettere Alessandra a se stessa. Quello sguardo freddo e indifferente. Lontano. Divino,

Inuyasha voltò la testa verso Hidesuke, scambiando con lui un cenno di complicità, e incitò ancora di più il cervo, che ormai schiumava dalla bocca ed era coperto di sudore. Abbassò la testa a incrociare il viso ansioso di Alessandra. Con lui, non si preoccupava di mascherare più alcuna emozione. Non sapeva come dirglielo, ma era cosciente che tacere sarebbe stato solo peggio nel caso che quello che li aspettava fosse stato tragicamente immutabile.

 

“Ho sentito odore di sangue”. Esitò un attimo. Storse la bocca, ma decise di continuare. Fiele che gli bruciava la lingua. “Il suo”

 

 

*****

 

 

Lo vide.

Nonostante la confusione che regnava nella piana, la sua armatura mandava bagliori sommessi sotto il sole del tardo pomeriggio. Lo vide, e sentì il cuore rallentare il suo ritmo e il respiro annodarsi fra i denti. Le gambe tremarono e forse sarebbe anche caduta a terra se Inuyasha non avesse avuto la prontezza di offrile il braccio. Si scambiarono uno sguardo disperato, e tornarono a fissare quel punto in mezzo a sagome che si muovevano veloci e li superavano. Hidesuke aveva lanciato i suoi uomini all’attacco, andando a sostenere i soldati orami stremati del Principe dell’Ovest.

 

Alessandra sentì le lacrime premere gli occhi e dovette mordersi un labbro per trattenerle, affondando le unghie nel kariginu di Inuyasha. Sesshomaru era inginocchiato a terra. Era vivo, ma continuava a scuotere la testa e a piegarsi sempre di più su se stesso. Inuyasha ebbe l’impressione di sentirne il respiro spezzato e pesante, i ringhi che soffocava in gola. Non lo aveva mai visto in quello stato; non aveva mai pensato di poterlo vedere. Suo fratello, l’orgoglioso principe dei demoni, s stava contorcendo preda di spasimi violenti che gli disarticolavano i movimenti. Era doloroso vederlo in quello stato.

 

Un ululare violento e l’immagine di corpi che si aggrovigliano attirano l’attenzione dell’hanyou. Sullo sfondo del campo, fra solchi scuri nel terreno, mucchi di cadaveri attorcigliati in un groviglio informe di viscere, ossa e carne sanguinante due enormi cani si stavano azzuffando con disperato furore. Uno doveva essere Morigawa, probabilmente quello nero. Inuyasha inclinò appena le labbra nel vedere la ferita che segnava il muso del cane e l’orbita vuota. Non aveva alcuna prova, ma l’istinto gli diceva che quella ferita gliela aveva inferta suo fratello. Se era stato Morigawa a ridurlo in quello stato, non ne era di certo uscito indenne. L’altro demone, però, non riusciva a capire chi fosse. In un primo momento ipotizzò Kumamoto, ma poi lo intravide da un’altra parte del campo, impegnato a combattere assieme ad Ayame. Un orribile angoscia lo prese, e cercò febbrilmente con gli occhi una figura. Spaziò il campo finchè non individuò una figurina che si dibatteva conto alcuni demoni, protetto alle spalle da alcuni lupi. Miroku. Vivo. Sudato, affaticato, pressochè esausto. Ma ancora vivo. E poco distante Koga mulinava gli artigli come ossessionato dalla voglia di vincere.

 

Sesshomaru restava fermo. Inginocchiato a terra. Non aveva senso. Non era normale. Non era da lui. Inuyasha provò l’impulso di correre da lui, ma lasciare Alessandra significava esporla ad un pericolo che lei non sarebbe stata capace di affrontare. Cercò di trascinarla indietro, verso il cervo. Se almeno fosse riuscito a farla montare in sella, avrebbe spinto l’animale verso il palazzo, incitandolo in una corsa folle. La ragazza non sarebbe riuscita a domarlo e si sarebbe allontanata e messa al sicuro. Inutile. Nonostante la trascinasse, Alessandra si dibatteva fra le sue braccia, tendendo le mani verso Sesshomaru. La bocca aperta in urla che non riusciva ad articolare, gli occhi vacui e lucidi incapaci di versare lacrime. L’unica cosa che il suo corpo riuscisse a fare era opporre una strenua resistenza. Scalciava, picchiava, graffiava. Colpì Inuyasha più volte anche sul braccio leso, lì dove la ferita era fresca e il sangue ancora faticava a coagularsi del tutto. Non si accorgeva delle smorfie che gli produceva, dello sforzo cui costringeva il ragazzo per impedirle di divincolarsi dalla presa e correre da Sesshomaru. Vedeva solo lui. Piegato a terra. A terra.

 

Quando un urlo roco e profondo attraversò il campo, confondendosi con altre grida, Inuyasha si pietrificò prima di voltarsi verso la figura del fratello. Era stato lui a gridare. Ne era sicuro. Era stato lui ad abbandonarsi a quel grido che gli era sceso fin dentro l’anima. Annichilendolo. Sentì Alessandra smettere ogni resistenza fra le sue braccia e abbandonarsi come svuotata al suo appoggio. Avrebbe dovuto voltare la testa e occuparsi di lei, ma non ce la faceva. Non poteva credere che Sesshomaru stesse davvero per morire. Non ebbe il tempo di accorgersi del guizzo improvviso del corpo che stringeva contro di sè. Sentì solo un colpo abbattersi sul suo torace svuotandogli i polmoni e costringendolo a tossire per recuperare il fiato. Alessandra aveva approfittato della sua distrazione e, in un momento di lucidità, lo aveva colpito con tutta la forza che era riuscita a trovare. In condizioni normali non gli avrebbe fatto nulla, ma era ormai allo stremo e la sua capacità di resistenza era di pochissimo superiore a quella di un normale ningen. Fu costretto a piegarsi a terra.

 

“Alessandra, no! Fermati!Aspetta!”

 

Inuyasha provò a rialzarsi, ma le gambe lo tradirono e si ritrovò in ginocchio di nuovo. Miroku, disimpegnatosi da un demone, si voltò incredulo di aver riconosciuto la voce dell’amico e vide Alessandra correre verso la base di una piccola altura e poi dirigersi annaspando verso il centro della piana. Verso un demone inginocchiato a terra. Sesshomaru. Chiamò Koga per indicargli la ragazza e l’hanyou e si diresse con lui verso Inuyasha che cercava di rimettersi in piedi per raggiungere Alessandra.

 

Sesshomaru, intanto, ansimava ormai certo che, qualunque stregoneria lo avesse colpito, lo avrebbe ucciso. Che stupido, indegno modo di morire. Quasi quanto quello di suo padre, morto per una insignificante ningen e un figlio bastardo. Aveva sempre creduto che la morte lo avrebbe colto all’apice del godimento della battaglia. Nell’intensità di uno scontro contro un nemico veramente degno di lui. Invece, stava facendo davvero una fine miserevole. Disgustosa.

 

Patetico

 

Strinse i denti. Se solo quel maledetto cerchio che gli stringeva la testa e gli faceva contorcere gli occhi fosse diminuito un po’. Solo poco. Giusto il necessario per riuscire a pensare coerentemente. Aveva l’orribile impressione che, se fosse riuscito a sollevare le palpebre, dai suoi stessi occhi il sangue avrebbe iniziato a colare. Lento e inesorabile. Qualunque cosa lo stesse distruggendo, stava accanendosi sui suoi bulbi e sui nervi oculari, risvegliando ogni più piccola terminazione nervosa con scariche violente. Contrasse ancora di più i denti. Poteva anche frantumarsi la mandibola, tanta era la pressione con cui li serrava. Non gli importava. Non si sarebbe abbandonato ad un’altra plateale, disonorevole manifestazione di dolore. Aveva urlato, prima; con tutto se stesso, come probabilmente non aveva mai fatto. Ma quella lama di dolore lo aveva colto troppo di sorpresa, intensificando la lenta tortura che lo stava facendo impazzire. Troppo repentino. Come se gli avessero strappato gli occhi. Male. Male. Maaale. Non credeva che potesse esistere una simile sensazione: qualcosa che annulla ogni pensiero razionale, ogni capacità senziente. Ti trascina in un vortice, giù in un abisso dove perdi lentamente coscienza di te. Del tuo corpo. Rimane solo quella sensazione. Soffocante. Come acqua nei polmoni; ti toglie l’aria, ti annega in qualcosa di opprimente.

 

Dolore. Ne aveva provato ancora. Sapeva cosa fosse. Non lo aveva mai toccato veramente, però. La sua sola volontà era stata sufficiente a domarlo, a estraniare dalla sua mente le fitte lancinanti che il suo corpo martoriato gli aveva trasmesso. Era come se bloccasse le sue terminazioni nervose, e lasciasse perfettamente lucida solo una piccola parte del cervello. Quella che gli permetteva di vincere in battaglia. E anche dopo uno scontro, la rabbia di esser stato ferito era più forte del male che avrebbe potuto provare. Il dolore era solo la misura della sua debolezza, dell’incapacità di essere al livello di suo padre. Però, non si era mai abbassato a tanto. Ridotto in ginocchio, incapace di reagire. Onnubilato da quelle fitte che gli strappavano la poca lucidità che riusciva a trattenere. Debole. Schifosamente debole. E probabilmente lo era diventato a causa di quella ragazza. Lo aveva distratto, si era lasciato distrarre e adesso ne pagava le conseguenze. Anche la cecità, in definitiva, era stata causata da lei. Perchè era stato per difendere lei che era stato ferito.

 

Quella ningen. Inutile, patetica, pericolosa come la donna che aveva procurato la morte a suo padre. Che stupido. Stupido! Stava facendo la stessa fine. La stessa orribile, infamante morte. Distrutto da una donna, lui, Sesshomaru, Principe dei demoni. Si era lasciato prendere troppo, si era lasciato confondere da qualcosa che non capiva: lussuria, solo passione. Non poteva essere diversamente. Si era umiliato portandola con sè, inserendola a palazzo e offrendole una carica di prima importanza. L’aveva avuta nel letto, l’aveva stretta e baciata, aveva toccato il suo corpo e soprattutto si era lasciato toccare. Le aveva permesso di vedere oltre la sua freddezza, le aveva concesso uno spiraglio per chissà quale maledetto motivo. E adesso, sarebbe morto per quello. Per quella sua stupida, insensata, compromettente debolezza. Lei al sicuro a palazzo, e lui ad agonizzare su un campo di battaglia. Prostrato a terra, vinto da se stesso.

 

Il dolore si attenuava lentamente. Sesshomaru riuscì a fatica a risollevare il busto. C’erano molte voci attorno a lui, e il fragore di scontri, il latrare di lupi e i righi rabbiosi di due demoni. Qualcuno...qualcuno aveva impedito che Morigawa lo assalisse. Ma non riusciva a capire chi. Gli odori si confondevano al suo olfatto, e se solo provava a differenziarli, il cerchio alla testa ricominciava a premere. Anche se stava lentamente perdendo forza. Sempre meno. Sempre più debole. Percepiva alcuni demoni attorno a lui. lontani, ma si stavano lentamente avvicinando. Probabilmente, erano rimasti a guardarlo agonizzare, indecisi se sottrarre la preda al loro signore. Ma Morigawa stava combattendo, ne era sicuro, e lui era un trofeo troppo invitante. Strinse i denti e fece schioccare gli artigli. Il dolore alla testa si intensificò di nuovo. Pazienza. Erano vicini. Troppo vicini. La frusta saettò nell’aria, prima di riavvolgersi attorno a Sesshomaru e sparire. Dei suoi assalitori restavano solo brandelli di carne e interiora.

 

Istintivamente, rialzò il viso sudato e sporco per prendere maggior respiro. Se non si forzava e si fosse mosso lentamente, poteva anche sperare di riuscire a mettersi in piedi. Era stufo di quella posizione umiliante. Senza esattamente sapere il perchè, si arrischiò a socchiudere le palpebre. Il dolore era quasi del tutto scomparso. Inizialmente, solo buio. Poi, lentamente alcune chiazze chiare farsi strada nella cortina di tenebra. Il nero divenne grigio, e poi bianco. Strinse gli occhi. In quella strana luce abbagliante si iniziavano a condensare macchie più scure. Informi. Lentamente, i contorni diventavano sempre meno sbiaditi, i colori sfumavano in molteplici tonalità abbandonando le sfumature grigiastre. Esterrefatto, incredulo, allibito Sesshomaru si ritrovò a fissare le proprie mani imbrattate di sangue. Gli artigli incrostati, la pelle segnata al polso da graffi sottili, le maniche lerce e strappate.

 

Vedeva. Vedeva di nuovo. Sbattè le palpebre più volte, per schiarire meglio le immagini. Non era possibile. Non sarebbe mai dovuto accadere. Non coltivava più nemmeno l’illusione di poter recuperare la vista. Aveva smesso di sperarci mesi addietro, rassegnandosi a quell’eterna condizione di invalido. Si era assuefatto all’idea di restare per sempre nel buio, e che a guidarlo ci sarebbero stati solo i suoi sensi, la sua forza e ...lo ammise: le voci di Rin e Alessandra.

 

Spaziò lentamente per il campo di battaglia. Troppo scosso per cogliere davvero quello che vedeva. Si soffermò su una sagoma, in cima al piccolo pendio che attraversava la piana. Strinse gli occhi. Non riusciva bene a capire chi fosse. Poi, un guizzo del sole gli permise di vedere. Di vedere davvero: Alessandra. Lo stava fissando da quel piccolo rialzo del terreno, leggermente piegata sulle ginocchia per l’affanno della corsa. Si era fermata per riprendere fiato. I polmoni le bruciavano per lo sforzo, e vedere il demone in mezzo a cadaveri e distruzione, rannicchiato su se stesso, le aveva fatto male. Molto male. Ma poi lo aveva visto rialzare la testa, fissarsi le mani e muovere lentamente il viso. Era successo qualcosa. Doveva esser successo qualcosa. Si mosse per scendere e raggiungerlo. Non capì cosa successe. Percepì solo qualcosa straziarle le carni, il fiato uscire violentemente dai polmoni lasciandola in apnea, e un colpo violento sbilanciarla in avanti, tanto che credeva che le avrebbe spezzato la spina dorsale.

 

Sesshomaru la vide fermarsi a mezz’aria, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Vide rosso schizzare attorno al suo viso, e poi il corpo di Alessandra rotolare malamente lungo il piccolo pendio roccioso, nel fango e nella polvere, fra cadaveri mutilati e sangue rappreso. Si fermò alla fine della discesa. Prono. Da una spalla, spuntava un mozzicone di legno. La naginata che l’aveva colpita si era spezzata nella caduta, e la ragazza aveva sentito solo qualcosa premere per entrare di più in lei. Sesshomaru la fissava immobile a terra. Non si muoveva. Non dava segni di muoversi. Si accorse di non respirare, di essere immobile in ginocchio a terra. Incatenato a quella figura inerte. Male. Diverso da prima, ma ancora più profondo. Come se gli avessero strappato il cuore. Come se lo avessero trapassato con mille lame. E continuassero. Ancora. Ancora.

 

Alzò lo sguardo al piccolo pendio. Sorse la bocca e ringhiò. A mezz’aria, in un piccolo campo di energia, un bambino lo osservava a metà fra lo stizzito e il divertito. Hakudoshi. Era sua l’arma che aveva colpito Alessandra, era stato lui a lanciarla. Forse proprio per colpire la ragazza, forse era diretta a lui, e Alessandra si era trovata inavvertitamente sulla traiettoria. E adesso era a terra. E non si muoveva. Non dava segni di vita. Hidesuke si sedette in volo, soppesando il mento alla mano. Sembrava annoiato. Fece un gesto vago con la mano, e da dietro di lui dei demoni si precipitarono verso il Principe dell’Ovest e la ragazza. Prede. Inermi. Facili.

 

Sesshomaru concentrò le forze rimastegli nelle gambe, per poter scattare in una corsa verso la ragazza prima che ci arrivassero i demoni. Quanto distava? Cinquecento, settecento metri al massimo. Pochissimo in condizioni normali. Adesso, gli sembrava di non riuscire a raggiungerla. Che fosse sempre troppo distante. Squartò l’ennesimo demone che tentava di opporglisi, lasciando che il suo sangue gli macchiasse il viso e i capelli. Ne mutilò un altro e ne sgozzò un terzo. Riuscì a crearsi un piccolissimo spazio, giusto in tempo per vedere un demone- millepiedi avventarsi sul corpo inerte di Alessandra. Sesshomaru estrasse Tokijin e la lanciò contro lo youkai. Sentì il grido riempire l’aria e il demone esser rovesciato al suolo dal contraccolpo. Si liberò di alcuni demoni e fu accanto alla ragazza. Si inginocchiò per poterla proteggere meglio con il proprio corpo. Erano troppi. Gli avversari erano troppi, e freschi di forze. Quei demoni non erano al servizio di Morigawa. Quelli eseguivano solo gli ordini di Naraku e Hakudoshi.

 

Si voltò con gli occhi infiammati d’ira. Sarebbe morto, va bene. Ma avrebbe trascinato con se all’infermo molti di loro. Prima che la scure potesse calare e lui cercasse di schivare e rispondere, l’oni fu azzannato alla gola da un lupo e rovesciato indietro. L’animale rialzò il muso grondante sangue e ringhiando si avventò contro un altro demone aprendogli il ventre. Sesshomaru volse velocemente la testa. Attorno a lui e Alessandra, i lupi di Koga stavano cercando di creare una catena di sicurezza, mentre il principe degli Yoro e il ningen tenevano occupato Hidesuke. Il Principe vide suo fratello precipitarsi dal piccolo rialzo del terreno, brandendo la spada e urlando qualcosa che lui non riusciva a capire. In pochi istanti, Inuyasha si era aperto il passo fino a suo fratello e Alessandra, ma si girò all’improvviso per dare fronte ai demoni di Naraku che continuavano a scendere verso di loro. Squarciò in due il primo che si fece avanti, dalla testa all’inguine, e gli altri, terrorizzati dalla sua forza e dal furore sanguinario dei suoi occhi, indietreggiarono. Un attimo di sospensione, giusto il tempo che i lupi di Koga e Ayame chiudessero il cerchio attorno al Principe.

 

Inuyasha si risolse infine ad abbassare l’arma che ormai faticava a tenere sollevata e si voltò verso il fratello. Sesshomaru aveva raccolto fra le braccia il corpo di Alessandra. Le scostava dal viso imbrattato di fango ed escoriato i capelli, le disegnava le labbra con le dita. Un rivolo sottile colava dall’angolo della bocca fino al mento, scendendo lungo il collo assieme al sangue che scendeva da una ferita alla testa, vicino alla tempia. Sesshomaru la chiamò. La chiamò disperatamente più e più volte, ma non osò scuoterla. Era viva. Lo sapeva. Vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi nel respiro, anche se era lento e affaticato. L’aveva maledetta. Aveva dato a lei la colpa della sua debolezza. E lei, stupida, testarda ragazza, gli aveva disubbidito, e invece di restare a palazzo era andata da lui. In mezzo alla battaglia. Esponendosi al pericolo. Sciocca. Sciocca. E lui, lui...maledizione! Non se ne era accorto. Non aveva sentito nulla. Nè l’aura di Hakudoshi nè il sibilo della naginata.

 

Strinse Alessandra per le spalle, comprimendo inavvertitamente la ferita che le dilaniava la spalla e costringendo il suo corpo a reagire al dolore. Alessandra ebbe un fremito, e riprese coscienza. Provò a dire qualcosa, a muovere le labbra, ma era troppo debole. Non sentiva più il suo corpo. Lentamente, stava perdendo sensibilità agli arti, e anche le voci le arrivavano ovattate. In mezzo a macchie scure e chiare, riuscì a distinguere il viso di Inuyasha e quello di Sesshomaru. Avrebbe voluto accarezzarlo, avrebbe voluto che la baciasse e le dicesse che sarebbe andato tutto bene. Invece, avvertì le mani del demone costringerla seduta e Sesshomaru stringerle le braccia davanti al seno. Si abbandonò contro il suo petto, appoggiando le mani sulle sue spalle e la testa nell’incavo del suo collo. Non capiva. Non riusciva a sentire quello che le dicevano, le parole che Sesshomaru le sussurrava.

 

Inuyasha aveva fissato la ragazza per un istante, e poi suo fratello. Doveva esser sconvolto, ma non lo dimostrava. Però, le sue mani tramavano mentre percorreva il viso di Alessandra. Si era accorto del legno che fuoriusciva dalla spalla destra della ragazza, e aveva realizzato che non avevano molto tempo se la volevano salvare. E dovevano salvarla.

 

“Sesshomaru dobbiamo portarla a palazzo. Subito!”

 

Inuyasha aveva visto suo fratello annuire e afferrare Alessandra per le spalle con lo scopo di sollevarla in braccio. Il dolore che le aveva provocato l’aveva fatta rinvenire, ma aveva dato loro anche la consapevolezza che trasportarla in quelle condizioni era impossibile. Un movimento sbagliato, e la ferita poteva aggravarsi in modo irreparabile. L’unica soluzione era quella di estrarre il ferro. Sesshomaru aveva stretto le braccia della ragazza davanti, permettendole di appoggiarsi a lui con tutto il peso, e aveva rivolto un’occhiata eloquente al fratello. Doveva strappare quella lama dal corpo di Alessandra. Lo avrebbe permesso solo a lui. Lui stesso, ne era cosciente, non ne avrebbe avuto la forza fisica e psichica.

 

Inuyasha attese di esser sicuro che suo fratello imprigionasse bene Alessandra e che le avrebbe impedito movimenti bruschi, prima di inginocchiarsi a sua volta. Afferrò il kimono e lo stracciò fino all’obi, per poi strappare totalmente la parte destra mettendo a nudo la ferita e il seno di Alessandra. Sesshomaru la sentì irrigidirsi, quasi nel disperato tentativo di sottrarsi a quel contatto. La premette di più contro di sè. La testa della ragazza era affondata della sua spalla, e le sue forme nude gli premevano sulla stoffa degli abiti. Avrebbe voluto averla così fra le braccia; avrebbe voluto sentire sotto gli artigli la sua nudità, la morbidezza delle sue forme. Ma non così. Non con il sangue a deturparle la pelle, con le lacrime a bagnargli il kimono zuppo di sangue e sudore.

 

Inuyasha rivolse a suo fratello un cenno d’intesa e Sesshomaru, rinsaldata la presa sulle braccia di Alessandra, gli concesse una specie di sorriso. L’hanyou, allora, si appoggiò con una mano alla schiena nuda della ragazza e con l’altra cerò di svellere il dardo. Alessandra conficcò le unghie nella stoffa, raggiungendo la pelle di Sesshomaru e strinse i denti fino a farli scricchiolare. Inuyasha faceva forza, e il corpo della ragazza era attraversato da spasimi che solo la salda presa di Sesshomaru impediva che si tramutassero in movimenti bruschi. Alla fine, il ragazzo allentò la presa, sconsolato, mentre Alessandra si lasciava sfuggire un roco respiro. Il dolore era insopportabile, ma quello di poco prima la faceva davvero impazzire.

 

Sesshomaru lo fissò con astio e stupore. Si era fermato. Per quale maledetto motivo non estraeva quell’arma? Credeva forse che avessero tutto il tempo del mondo? Inuyasha scosse sconsolato la testa e cercò di evitare le occhiate del fratello. La lama della naginata era incastrata fra la clavicola e la scapola e non si lasciava estrarre. Forzare ancora, oltre a costringere Alessandra a un dolore inutile, significava rischiare anche di frantumarle le ossa. Forse in modo irreparabile. Si allontanò carponi di qualche metro, fino ad un gruppo di cadaveri corrosi dal veleno. Vincendo la repulsione, affondò le mani in quella massa fumante e viscida, scostando brandelli di carne e abiti carbonizzati. Alla fine, riuscì a trovare un hachiwari. Non era il massimo, ma aveva una lama abbastanza lunga e sottile da potersi infilare nella ferita senza ingigantirla troppo e una tempratura abbastanza robusta perchè non si spezzasse.

 

Tornò davanti ad Alessandra e fissò Sesshomaru. Lo vide dilatare gli occhi quando capì cosa dovesse fare. Era necessario far leva con l’arma per estrarre la naginata. Sesshomaru deviò inizialmente lo sguardo, reclinando la testa verso la ragazza che respirava sempre più pesantemente sulla sua spalla. Le carezzò la testa e strinse i denti in una smorfia di rassegnata impotenza. Inuyasha avvicinò la lama alla ferita, e sfiorò a sua vota la testa della ragazza.

 

“Grida Alessandra. Senza ritegno. Grida più forte che puoi”

 

Con un gesto fluido, infilò la lama nella ferita, cercando con la punta la scapola per spingerla indietro. Alessandra urlava, straziata da fitte lancinanti. Stringeva la veste di Sesshomaru, affondandovi le unghie e attorcigliandola in spasimi e convulsioni. Continuava a sfregare la testa sulla spalla del demone, mordendolo e aprendo la bocca in urla acute che le deformavano la voce fino a renderla stridula. Tossiva per la violenza con cui si liberava del respiro e restava a boccheggiare, con la bocca aperta e rivoli di saliva a colarle dalle labbra, sciogliendo il sangue rappreso. Sesshomaru chiuse gli occhi. Strinse forte le braccia della ragazza mentre la sentiva contorcersi. Non era così. Non erano quelle le urla che avrebbe voluto sentire dalla sua bocca, i gemiti, gli spasimi. Quello era dolore, non il piacere che avrebbe voluto darle. Le mani di Alessandra stringevano la sua carne con disperazione; era diverso da quando lo aveva stretto nella notte, da quando lo aveva picchiato esasperata e impaurita. Alessandra non capiva nemmeno più che lo stava ferendo, che stava graffiando la sua pelle e affondando i denti nella sua spalla.

 

Inuyasha abbassò le orecchiette nel disperato e vano tentativo di ignorare le grida della ragazza. Riuscì a trovare la scapola e la spinse con forza, mentre con l’altra mano tirava l’asta della naginata, lacerandosi i palmi sul mozzicone scheggiato. La lama si sfilò d’un tratto, liberando un gran fiotto di sangue che ruscellò sulla schiena di Alessandra, in arabeschi inquietanti, confondendosi con il sudore che la bagnava. Alessandra gridò un’ultima volta fino a bruciarsi polmoni nello sforzo, accasciandosi alla fine svenuta contro Sesshomaru con la saliva e il sangue che uscivano dalla sua bocca e macchiavano il petto e il kimono del demone.

 

“Miroku” Cerca un tizzone, resto! Devo cauterizzarla!”

 

Il monaco, che si era avvicinato appena era riuscito a liberarsi dei suoi assalitori, scattò il più velocemente. Aveva assistito da lontano all’agonia della ragazza, mordendosi le labbra e stringendo gli occhi. distogliendo lo sguardo nel vano tentativo di non sentire le urla che riempivano l’aria, assieme alle grida di battaglia e ai lamenti dei feriti. Ritornò poco dopo con un pezzo di legno che aveva recuperato chissà dove e lo cacciò nella ferita di Alessandra. Il corpo della ragazza ebbe una spasimo, ma non reagì più di tanto, distrutto dal dolore straziante e con i gangli nervosi saturi e pressochè insensibili ormai.  Si sentì un odore nauseabondo di carne bruciata che fece storcere il naso a Inuyasha e stringere gli occhi a Sesshomaru. In compenso, il fiotto di sangue si arrestò. Inuyasha bendò la ferita come meglio potè, strappandosi la nagajuban nei punti dove sembrava meno sporca per evitare di infettare ulteriormente. Sesshomaru, lasciata per un istante Alessandra alle cure del fratello e di Miroku, si era liberato delle parti rovinate dell’armatura e prima che potesse controllare velocemente la ferita alla spalle, si era ritrovato suo fratello addosso mentre cercava di tamponare alla meno peggio il sangue che continuava a uscire. Il suo primo impulso fu quello di scacciarlo, ma alla fine lasciò che gli fissasse un tampone improvvisato fra i lembi squarciati di carne e stoffa. Inuyasha non era ridotto meglio di lui: aveva un braccio praticamente distrutto e numerose ferite su tutto il corpo ed era visibilmente esausto. Nel superarlo, si chiede per un istante perchè si fosse dato tanta pena anche per lui. Verso Alessandra era anche normale, ma non per lui. Ignorò i suoi dubbi e si inginocchiò accanto ad Alessandra. Il respiro era pesante e la fronte grondava sudore freddo. Il rumore della battaglia gli attraversò la mente, rendendogli noto che lo scontro non era ancora finito. Girò il viso sopra la spalla e vide due inuyoukai battersi ancora selvaggiamente in forma canina. Riabbassò gli occhi sulla ragazza.

 

“Sesshomaru-sama...”cercò di chiamarlo Miroku. Aveva scorto il lampo che era passato negli occhi del Principe. Il richiamo della battaglia. Sembrava combattuto fra la sua natura demoniaca e un qualcosa di nuovo per lui.

 

“Sesshomaru-sama. Il fisico di Alessandra non resisterà ancora a lungo”. Esitò un istante, prima di pronunciare quelle parole che forse avrebbero potuto risvegliare il demone. “É un essere umano”

 

Sesshomaru raccolse Alessandra fra le braccia, avvicinandosela al petto come per proteggerla, e si risollevò con rinnovata eleganza, incamminandosi verso il perimetro del campo di battaglia. Verso il palazzo. Incurante delle scaramucce che ancora si accendevano e chiudendo la mente ai ringhi e ai suoni della battaglia. Gli costava molto lasciare il campo in quel modo, ma qualcosa gli diceva che se fosse restato avrebbe perso. Non sapeva cosa, ma quella sensazione lo metteva in agitazione.

 

“Sesshomaru. Te ne vai così? E la battaglia?”

 

Inuyasha. Possibile che suo fratello avesse la maledetta abitudine di stuzzicare le zone più sensibili della sua mente quando erano più scoperte. Lo spiò con la coda dell’occhio. Era distrutto e a fatica si reggeva in piedi, appoggiandosi a Miroku. Eppure, il Principe ebbe la certezza, insensata, che se gli avesse detto che voleva continuare a combattere, suo fratello avrebbe sbraitato, ma poi lo avrebbe seguito. Scosse la testa. Il sangue perso lo stava portando al delirio. Lanciò uno sguardo a Kumamoto e Koga che si erano avvicinati. Era un ordine cui di due demoni assentirono con il capo e un sorriso sinistro di Koga. Sesshomaru lasciò che lo superassero verso il centro della battaglia, là dove ancora infuriavano combattimenti. Sospirò dentro di sè stringendo Alessandra e sfiorandole, non visto, la fronte con le labbra prima di ricominciare a camminare aumentando velocemente il passo fino a correre. Era pronto a dar fondo a tutte le sue ultime energie pur di portarla a palazzo il prima possibile. Ma non riusciva a tenere il ritmo normale, tanto che Inuyasha gli si affiancò con sguardo torvo. Avrebbe detto che era preoccupato anche per lui, se la cosa non fosse stata semplicemente ridicola e insensata.

 

“Si può sapere che intenzioni hai?”

 

Sesshomaru inghiottì a vuoto prima di distanziare il fratello di pochi passi. Non voleva fargli vedere la sua espressione mentre pronunciava quelle parole. Mentre abbassava la testa verso il viso sempre più pallido e il corpo lentamente più pesante di Alessandra.

 

“Tornare a casa”

  
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