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Autore: FuoriTarget    10/03/2013    6 recensioni
Sequel di Relazione clandestina. Credo sia necessario leggere la prima parte per comprendere la storia, ma siete liberissimi di tentare l'impresa.
La vita ha portato i due protagonisti ad allontanarsi completamente dopo una storia d'amore travagliata. Complici il lavoro, lo stress, le bollette da pagare e le rate del mutuo, ognuno dei due è annegato volonariamente nella propria solitudine. Cosa succederà se il matrimonio dei loro migliori amici li costringerà a incontrarsi dopo molti anni? E sopratutto se la sfortuna decide di intervenire rimescolando le carte in tavola?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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cap1


Travolti da un insolito destino




Capitolo 6






 



All my life I've been searching for something

Something never comes, never leads to nothing


Erano stati costretti a rimanere fino alla fine, finché anche l’ultimo degli invitati non se n’era andato, dal momento che erano in macchina con Filo e lui continuava a sostenere che i testimoni dovessero essere gli ultimi ad andarsene. Ed era pure fottutamente ubriaco.

Gli sposi se n’erano andati dopo le tre, alla volta della suite che li aspettava in un hotel super lusso; avevano mollato la prole ai nonni e si erano defilati sghignazzando, mentre il resto degli invitati continuava a ballare in giardino.

Manuel aveva stretto i denti, aveva evitato Kate, ignorato Filo e si era seduto di fianco a suo padre, col quale aveva chiacchierato del più e del meno. Lui non gli aveva fatto domande e di questo gli era estremamente grato. Aveva stretto i denti ed era fuggito da Alice per tutto il tempo.

Poi l’agonia era finita, gli ospiti erano scomparsi e tutti pian piano erano tornati alle loro dimore. Manuel aveva guidato fino a casa Zonin, trascinato Filo nel suo letto, poi aveva raggiunto Kate nella loro stanza. Si era chiuso in bagno e sfilato ad uno a uno i pezzi del completo, pensando alle mani che avevano accarezzato quella stoffa.


Nothing satisfies, but I'm getting close

Closer to the prize at the end of the rope


Aveva male ai piedi, un male cane, e nonostante questo benediva quelle scarpe ogni minuto. Le facevano talmente male da distrarla da tutto il resto. Non esisteva altro nel suo cervello che non fosse il dolore martellante alla pianta dei piedi.

Come prevedibile era stata costretta a rimanere fino all’ultimo, era la testimone della sposa, il suo compito era accompagnarla in bagno e tenerle il vestito, ricordarle i nomi anche dei parenti più lontani, evitare che si spiaccicasse la torta ai mirtilli sulla gonna e ricordarle ogni minuto che sua suocera la stava guardando.

Alice aveva stretto i denti, si era imposta di camminare nonostante il dolore atroce, perché quello le impediva di pensare e sprofondare nella sua agonia. E aveva sorriso a tutti, a Filo che continuava a chiederle se voleva una fetta di torta, a Laura che la punzecchiava, a sua madre e a Kate che dava segno di aver capito che qualcosa non andava. Aveva stretto i denti ed evitato Manuel fino all’ultimo.

Era arrivata a casa stanca morta, si era levata le scarpe prima ancora di raggiungere l’ascensore e, appena entrata, le aveva scaraventate in salotto. Era incazzata nera con se stessa, ma troppo distrutta per autopunirsi in alcun modo, quindi si era spogliata, struccata e lavata lentamente, fissando con odio la propria immagine riflessa nello specchio.


Entrambi si erano coricati con la certezza che non avrebbero chiuso occhio, entrambi troppo sconvolti da quanto successo, sconvolti nello scoprire come l’altro facesse ancora battere così forte il cuore.


La domenica era il giorno del riposo del guerriero, l’unico giorno libero della sua settimana e di norma finiva per passarlo a farsi torturare a casa dei suoi genitori. Questa volta, invece, era ben decisa a goderselo.

Avendo passato quasi tutta la notte in bianco, si era concessa di oziare nel letto fin oltre mezzogiorno, poi si era alzata, solo per posizionare a distanza di braccio tutto ciò che le serviva per sopravvivere (cibo, acqua, telecomando, computer e telefono) ed era tornata a rifugiarsi tra le lenzuola.

Lo stato larvale era stato raggiunto alle sesta puntata consecutiva di Jersey Shore e al secondo barattolo di gelato alla crema. Tutto pur di non pensare a quanto successo.

Si era data dell’idiota per tutta la notte e non era bastato a mortificare abbastanza il suo povero orgoglio, aveva fumato, tanto, come non faceva ad anni, sperando che almeno la nicotina l’aiutasse. Lo sapeva, lo sentiva che il passaggio di quel... essere non avrebbe portato che disastri nella sua vita, l’aveva detto a Cici che non era un bene per lei incontrarlo, che alla fine sarebbe successo qualcosa di melodrammatico, e così era stato.

Si erano baciati, che diamine, baciati. Dopo sei anni. Dopo tutto quello che le aveva fatto passare come le era venuto in mente di baciarlo? Come era venuto in mente a lui di baciarla?

Tra tutte le emozioni che vorticavano nella sua mente, la vergogna era quella con la percentuale schiacciante. Non verso di lui, né verso gli altri, che tanto non sapevano e mai avrebbero dovuto sapere, ma verso se stessa: aveva tradito tutto ciò che si era imposta e per cui aveva lottato per sei anni.

Il lunedì era tornata al lavoro, dopo una serata passata ad ignorare le richieste d’attenzione di Filo, le richieste di spiegazioni di Laura e la richiesta d’amicizia su Facebook di Kate.

Quella mattina aveva acconsentito ad vedersi per colazione con Laura. La proposta non l’aveva stupita granché, già dalla sera del matrimonio aveva notato gli sguardi dell’amica su di sé, era prevedibile che avesse capito che qualcosa fosse successo.

Eppure, quando si era trovata di fronte alle domande dell’altra si era bloccata e non aveva aperto bocca, vigliaccamente aveva finto di ricevere una mail dall’ufficio per delle questioni urgenti e se n’era andata di corsa.

Arrivata al lavoro si era sentita finalmente al sicuro, per tutta la giornata aveva fatto chiari e rassicuranti calcoli per prove di tenuta. I numeri erano sempre stati sui alleati, perché non mentivano, né impazzivano, erano chiari e lineari, non c’era nulla di inaspettato nei numeri facevano, solo ciò che veniva loro richiesto, non baciavano a tradimento. Salvatore l’aveva guardata storta un paio di volte davanti alla sua isteria per banali dati da inserire in un programma, l’aveva vista scaraventare i sandali blu con tredici centimetri di zeppa in un angolo e vagare per la stanza scalza; per pranzo si era persino rifiutata di scendere in mensa con la scusa di dover fare delle telefonate, e quasi con la forza l’aveva costretta a mangiare mezzo tramezzino per non vederla svenire - fatto per altro già avvenuto.

Alla trentesima volta in cui le aveva rivolto la stessa domanda, aveva che quella sarebbe stata l’ultima.

- Ok, non te lo chiederò più, quindi se vuoi parlarne questa è la tua ultima possibilità. Alice, è successo qualcosa di cui vuoi mettermi al corrente? -

L’aveva guardato per la prima volta indecisa, le altre ventinove precedenti l’aveva solo fulminato o mandato a quel paese. Era già un bel cambiamento.

- No... cioè sì, ma -

- Ma? -

- È imbarazzante - piagnucolò e si nascose la faccia con le mani come una bimbetta.

Da tempo, Salvatore aveva capito come Alice fosse una ragazza di grandi contrasti e questo momento era uno di quelli: appariva sempre trionfale e sicura col suo metro e settanta, il sorriso radioso e lo stile sempre perfetto, invece dietro l’apparenza era tanto fragile da perdersi in due dita d’acqua.

- Parla -

- Hobaciatounmioexinuncessoalmatrimoniodeimieimiglioriamici -

- Come? - aveva capito solo ‘baciato’ e ‘amici’, ed insieme le combinazioni potevano essere esplosive.

Alice prese fiato e scoprì con le mani solo la bocca, ma non gli occhi.

- Ho baciato uno al matrimonio dei miei migliori amici -

- E allora? Te lo sei portato a letto? -

- No! - esclamò oltraggiata, liberando definitivamente il volto.

- Dalla reazione devo dedurre che c’è altro. Chi è questo tipo? Lo conosco? –

I drammi sociali della sua collega, oltre ad essere uno dei passatempi preferiti di Salvatore, erano anche ormai pane quotidiano in ufficio e li seguiva assiduamente, come fossero le puntate di un telefilm. Conosceva i personaggi a memoria e ad ogni colpo di scena impallidiva come fosse coinvolto anche lui.

Alice non rispose subito, valutò le opzioni, ma il suo collega era forse la persona più innocua con cui confidarsi. Non aveva nessuno a cui spifferare la notizia e soprattutto nessun interesse a sputtanare lei.

- E va bene, è un mio ex, uno con cui sono stata per tre anni tempo fa e col quale non abbiamo chiuso bene -

- Ok, quindi ci sono delle questioni in sospeso… e vi siete solo baciati? -

Alice tentennò.

- ...Sì -

- Ok, è un no. Ma forse non è un male, magari avete solo bisogno di sfogarvi per metterci una pietra sopra. È capitato anche a me, con una con cui ero stato un po’; per un mese ci siamo lanciati piatti e portati rancore, abbiamo risolto andando a letto insieme un ultima volta. Ora siamo amici e basta -

- Non credo che io e lui saremo mai amici e basta -

- È evidente però che qualcosa di irrisolto c’è -

Quella considerazione non la trovò impreparata. Anche lei chiaramente sapeva che tra loro c’era qualcosa d’irrisolto, anzi tonnellate di questioni irrisolte, non credeva però che sarebbe arrivato il momento di sistemarle. S’illudeva che lui se ne sarebbe andato in silenzio com’era arrivato, avrebbero accantonato la faccenda del bagno come uno spiacevole equivoco, e tutti sarebbero stati di nuovo felici e ignoranti. Non vedeva nemmeno la necessità di chiarirsi, ma gliela mostrò Salvatore.

- Vedila così, è come se tu oggi ignorassi una piccola inesattezza di dati di misurazione, andresti comunque avanti col progetto e arriveresti comunque a vederlo funzionare al simulatore; nella realizzazione, però, incontreresti tanti piccoli ostacoli, tante piccole falle che avresti potuto evitare risolvendo il problema alla radice -

Non capiva bene la metafora, soprattutto non capiva come ignorando la questione con Manuel avrebbe compromesso qualcosa in futuro. Cosa c’era da compromettere se loro non si sarebbero mai più visti, come si augurava lei?


All night long i dream of the day

When it comes around and it’s taken away

Leaves me with the feeling that i feel the most



Non ci aveva dormito la notte per quel bacio. Domenica mattina si svegliò all'alba con Kate che ronfava ad un metro da lui e l'unica cosa che gli venne in mente fu andare a correre. Infilò pantaloncini, maglietta e lasciò la tenuta pochi minuti dopo le sei alla volta delle cavedagne sterrate tra i campi.

Il sole era già sorto, ma ancora non scaldava abbastanza da essere fastidioso. Purtroppo il colore incendiato dei campi di grano gli ricordava la massa liscia e cangiante dei capelli di lei, e il cielo di un azzurro così intenso da ferire gli occhi era lo stesso delle sue iridi chiare e pulite. Era uscito per non pensare, con la musica sparata nei timpani e invece anche la natura traditrice gli schiaffava in faccia il ricordo di lei. Rimpiangeva Victoria Park e i suoi prati a pochi metri da casa, Londra e il suo cielo grigio. A casa nulla gli ricordava più lei da molti anni; all'inizio si voltava ad ogni testa rossa – Kate l'aveva conosciuta in una notte di disperazione dopo aver seguito tutto il giorno una ragazza che gli ricordava tanto Alice –, poi aveva preso ad evitarle come la peste.

Quei pensieri lo spinsero ad aumentare il ritmo della corsa, aveva bisogno di distruggersi fisicamente per non pensare a quanto era stato stupido e ridicolo ad avventarsi su di lei. A volte avrebbe davvero preferito essere un idiota come tanti, senza vergogna e senza pudore, mosso solo dall'istinto. L’avrebbe preferito, perché ora non sarebbe stato a rodersi per le conseguenze e tutte le implicazioni e le ragioni che li avevano portati lì, ma si sarebbe maledetto per non essere riuscito ad andare fino in fondo. Si diede dell'imbecille ogni due passi, finché alle sette si rese conto di essersi perso e concentrò tutte le sue energie nella ricerca della strada per il ritorno.

Quando rientrò, Kate stava ancora dormendo: ebbe tutto il tempo di lavarsi e prepararle la colazione. Sarebbero stati soli tutto il giorno a godersi quella casa enorme: gli sposi sarebbero tornati solo in serata, Filo, a giudicare dalla sbornia colossale della sera prima, non si sarebbe fatto vedere tanto presto, mentre i nonni Zonin avevano in programma una gita col nipotino e se ne sarebbero andati prima di pranzo. Quindi il dilemma della giornata sarebbe stato dire o no a Kate ciò che era successo con Alice, sempre ammesso che non l'avesse già scoperto da sola.

A colazione era ancora troppo assonnata per attaccarlo, e Manuel rise sotto i baffi quando la vide scendere con una vecchia maglietta scolorita dei Pink Floyd e i capelli ancora acconciati dal giorno prima. Dopo il pasto, si ronzarono attorno tutto il giorno in una danza ben conosciuta: con lei non poteva fingere di dormire né di dover lavorare a qualcosa sul portatile; non poteva nemmeno farsi studiare troppo dai suoi occhioni castani, perché sapeva che vi avrebbe letto chiaramente la sua tensione. La soluzione migliore sarebbe stata distrarla con qualcosa, ma non c'era molto che potesse fare senza l'auto di Filo.

Inaspettatamente, fu proprio quest'ultimo a venire in suo soccorso all’ora di pranzo. All'inizio arrivò nella cucina di Chiara per procurarsi del cibo, ma forse vedendo il silenzio tra loro, o forse visto il soggetto solo per pigrizia, si fermò tutto il pomeriggio.

Appena Kate si ritirò in giardino a prendere il sole, Filo lo attirò in giardino davanti al suo portatile con la scusa di una sigaretta.

- Non risponde al cellulare né su Facebook - brontolò il suo amico, spedendo l’ennesimo messaggio in chat.

- Chi? - lo raggiunse con due tazzine di caffè. Gli era mancato da morire il caffè italiano, quello vero, che sa di caffè e non la brodaglia scura tritura-intestino degli inglesi.

- Alice. Si sarà chiusa in casa, sperando di annegare in una vasca di vodka. - aprì la pagina di Facebook, mostrandogli una ventina di messaggi che le aveva inviato e che non avevano ottenuto risposta - Quando è così posso solo sperare di prenderla per sfinimento, altrimenti mi ignorerà fino a domani.

Lo spiò mentre rifilava un paio di insulti virtuali alla ragazza e altrettante faccine non proprio cortesi ed infine chiuse la conversazione con uno sbuffo.

Manuel aveva capito da vari episodi che tra lui e Alice si era instaurato un legame particolare, che forse era sfociato solo in un amicizia o forse no; per questo, nonostante avesse un disperato bisogno di parlare, rimase in silenzio a fumare e a contemplare le spirali di fumo disperdersi in aria. Fu l'altro a lanciargli la giusta provocazione per convincerlo ad aprirsi e la cosa lo mandò fuori di sé.

- Avanti, cosa vuoi chiedermi? -

Quando era diventato così leggibile per gli altri? Era abituato a potersi dire compreso e fiducioso solo di Kate, per anni aveva lavorato per costruirsi una solida corazza attraverso la quale nessuno potesse scorgere. Si era protetto così bene che a Londra quasi nessuno conosceva le sue origini e, se non fosse stato per l'accento per il quale ancora lo sfottevano, non avrebbero nemmeno saputo che era italiano.

- Ho baciato Alice ieri sera. - Filo si prese un bel po’ di tempo per rispondere, ingollò un paio di boccate di fumo, ma la sua espressione rimase immutata e persa nella contemplazione.

- Avevo immaginato qualcosa del genere. - Lo guardò attentamente, con un’espressione concentrata che non gli si addiceva.

Il maggiore degli Zonin era sempre stato il suo migliore amico, assieme a suo fratello, ed era sempre stato una persona concreta, sanguigna, fatta per agire molto e pensare poco, a tratti semplice, ma sempre sincera e leale. Era stato il suo compagno di stronzate da ragazzi, la spalla su cui aveva sempre potuto contare quando c’era da rincorrere un obiettivo che tanti altri non avrebbero approvato. Esattamente come in quel momento.

Manuel non ebbe il coraggio di rispondergli. Avrebbe voluto, in un milione di modi diversi, avrebbe voluto essere capace di dirgli tutto ciò che gli stritolava le budella, tutte cose scorrette purtroppo.

- Che vuoi che ti dica? - Più che contrariato gli parve rassegnato.

Sapeva di essere stato meschino, perché se davvero c’era stato o ancora c’era qualcosa tra quei due, allora Filo era la persona meno indicata con cui confrontarsi; al tempo stesso, era una questione di lealtà, Filo lo era sempre stato con lui ed era venuto il tempo di ricambiare.

- Vorrei che mi tirassi un pugno, in realtà. - E diceva sul serio: avrebbe preferito mille volte un pugno a qualsiasi giudizio sprezzante, o peggio, al silenzio.

Sincerità per sincerità, tra uomini funziona così: o tutto o niente, niente sotterfugi né compromessi.

- Te lo meriteresti, ma non servirebbe a nulla se non alla tua stupida coscienza -

Schiacciò la sigaretta nel posacenere che stazionava sul tavolo del giardino da quando Alice lo aveva messo lì. Manuel ricordò quel giorno e l’espressione falsa della ragazza; non riusciva a sovrapporla a quella della stessa ragazza con cui si era chiuso in un gabinetto la sera prima, erano due persone diverse.

- So perché sei qui, quello che vuoi sapere: sì, siamo stati a letto insieme una volta, ma è stata una comica e per fortuna eravamo ubriachi altrimenti ora non ci parleremmo nemmeno per quanto è stato imbarazzante. E so anche e lo sai pure tu, che ti senti in colpa per questa... cazzata? e credi di dover espiare chissà quale peccato, quindi sei venuto qui sperando che io mi incazzi e ti rifili qualche pugno per pareggiare la situazione nella tua contorta moralità. - Filo lo guardò dritto negli occhi, sfidandolo a replicare, poi tornò a fissare i rami e le foglie sopra di loro e riprese da dove si era interrotto - Però non accadrà. Io voglio bene ad Alice, ma non come credi tu. Ci ho provato a farla innamorare di me, ma non mi sono innamorato nemmeno io di lei, quindi eravamo senza speranza dal principio. Detto questo, se hai ancora tutti i denti e la faccia intatta, deduco che lei abbia gradito la tua uscita di testa?! -

Quella era la domanda scomoda.

Tergiversare sarebbe stato un suicidio, avrebbe dato modo alla fantasia di Filo di costruire palazzi e castelli inesistenti.

- Ha gradito abbastanza da ricambiare -

Si aspettava un minimo di disappunto, invece Filo sorrise assorto.

- Siete prevedibili. Questo comunque conferma che non è con me che dovresti parlare -

- Con lei? Non esiste -

- Con te stesso… e se te lo devo dire io, bello, lasciatelo dire, gli inglesi ti hanno proprio fottuto il cervello -

Dopo un discorso degno del fratello buonista Jack, Filo non poteva fare a meno di tirare fuori il suo lato idiota per compensare, era inevitabile come inevitabile era dargli ragione.

Aveva bisogno di sentirsi dire che era stato un cretino, tanto quanto aveva bisogno di sentirsi dire che non ci sarebbe stato bisogno di lavare quell’onta col sangue.

- Devo parlare con lei. - Convenne dopo alcuni minuti di riflessione, nei quali si era posto solo domande a cui da solo non poteva trovare risposta.

L’altro allungò le gambe sotto al tavolo e stiracchiò la schiena.

- Decisamente, ma cosa le dirai? - L’assenza di una sua risposta immediata lo indusse a metterlo in guardia.

- Ti conviene avere un piano, fratello, perché non ti farà parlare, anzi è già tanto se ti lascerà avvicinare dopo il casino che avete combinato -

Manuel sovrappensiero non trattenne un commento sarcastico.

- Come se avessi fatto tutto da solo... -

Ricevette un risata in risposta e si rese conto di aver parlato ad alta voce.

- Non intendevo questo casino, ma quel casino, quello che ti sei lasciato alle spalle sei anni fa -

E Manuel non disse più una parola.


Lunedì ci aveva pensato bene, e non una, non due e nemmeno dieci volte, ma almeno diecimila. Era andato a correre, momento in cui di solito gli venivano le idee migliori, e durante la mattinata aveva visitato alcune gallerie e atelier in centro a Verona pur di star lontano da chiunque potesse fare domande pericolose. Almeno avrebbe avuto qualcosa da raccontare in ufficio.

Alla fine era tornato dagli Zonin con un piano. Filo l’aveva guardato malissimo dopo che aveva esposto la sua idea, aveva tentato di dissuaderlo e di smussare gli angoli della sua cocciutaggine, ma aveva fallito. Sfinito, verso sera gli aveva consegnato le chiavi della sua macchina, l’indirizzo di casa di Alice, gli orari del suo ufficio e qualche dritta su come affrontarla.

E Manuel era tornato a correre.

Solo poco prima delle sette si era deciso a rientrare e tentare il suicidio, presentandosi a casa di lei.

Quello in effetti era l’unico modo plausibile per vederla senza coinvolgere altre vittime. Se le avesse proposto un incontro, avrebbe rifiutato o l’avrebbe bidonato all’ultimo minuto. Attirarla dagli Zonin era fuori discussione, perché c’erano troppe orecchie indiscrete. Andare al suo ufficio, troppo plateale.

Quindi si era messo in macchina ed aveva cercato l’indirizzo nel navigatore, a memoria non sarebbe uscito vivo dal centro.

Aveva raggiunto il posto con non poche difficoltà, parcheggiato con altrettante difficoltà, visto che non guidava un auto che non avesse la guida a destra da molto, ed aveva atteso di veder rientrare l’utilitaria rossa con medesime difficoltà, dal momento che non era certo famoso per la sua pazienza.

Solo che, dopo un’ora dall’orario che aveva detto Filo, Alice ancora non si era vista, per cui non aveva altra scelta che lasciare la sicurezza dell’abitacolo e tentare la macellazione suonando il campanello.

Con sgomento, dopo essersi avvicinato al cancello aveva scoperto che i civici 21-23-25 non avevano campanelli, ma un solo pulsante che permetteva di parlare o accedere alla portineria condominiale. Suonò e raggiunse la porta a vetri con almeno la certezza che Alice a soldi non se la passasse male, se poteva permettersi un palazzo con portiere in una zona così costosa della città.

L’uomo che l’attendeva doveva essere sui sessant’anni, o cinquanta portati veramente male, parlava con un marcato accento meridionale ed era vestito solo di jeans e canottiera sudici. La prima cosa che gli venne in mente era l’espressione che doveva rifilargli la madre di Alice ogni volta che varcava quel portone: degno e repulsione.

L’aveva accolto con un grugnito maleducato.

- Dica -

Sua madre gli aveva insegnato a rispettare qualsiasi persona più anziana di lui; in Giappone erano molto ligi a questo tipo di gerarchie, quindi sarebbe inorridita davanti al tono tagliente con cui si rivolse all’uomo.

- Aroldi -

- Lei sarebbe? -

- Un amico -

L’uomo tacque per osservarlo con cura.

- Non l’ho mai vista qui -

Non era una domanda, ma un modo cortese per spedirlo via, quindi Manuel si limitò a fissarlo con ostinazione.

- Mi manda Filippo Zonin -

Quel maledetto l’aveva avvertito che il portiere era uno stronzo, ma non pensava di dover sfoderare le sue carte tanto presto. Quell’informazione però fu la chiave giusta, l’uomo lo guardò storto ma alla fine si sciolse.

- Interno 16, ma la signorina non è ancora rientrata. - Tornò a seguire una partita su un piccolo televisore e Manuel capì che la conversazione era finita.

Tornato all’auto, decise di farsi un giro nell’attesa, perché quella sera era davvero troppo calda. Quel quartiere se lo ricordava bene, la sua vecchia casa non era molto distante, Verona era un milione di volte più piccola di Londra e non era cambiata molto in pochi anni. Era tutto così diverso lì: spesso in quei giorni si era chiesto come sarebbe stato tornare lì e non avere più il fish and chips di Poppi sotto casa, o le Curry Houses in Bricklane, non avere più attorno quell’imbecille di Andrew e tutte le sue molteplici concubine, andare al lavoro e non scoprire ogni mattina nuovi graffiti, niente più Tube affollata e sudicia, né aperitivi nella City con gli amici di Kate. Forse quella non sarebbe mai più potuta essere casa sua.

Passeggiando, trovò una gelateria e l’unica cosa che gli venne in mente furono crema e pistacchio, e capì che Filippo aveva ragione: non poteva partire e lasciarsi dietro tutti quei casini, non di nuovo.



Dopo la giornata di fuoco in ufficio non vedeva l’ora di togliersi le scarpe e ritrovare il suo amato divano. Imboccato il cortile e lasciata la macchina in garage, non si fermò nemmeno alla portineria; se ci fosse stata posta l’avrebbe ritirata la mattina dopo. Salì diretta al quinto piano, dove l’aspettava una vasca piena di sali e un bel bicchiere di vino bianco.

Decisamente non si aspettava il campanello. Non alle nove di lunedì sera, non quand’era entrata in casa da appena mezz’ora e ancora non aveva cenato. D’istinto controllò di non avere qualche chiamata o messaggio non visti nel cellulare, ma il tentativo andò a vuoto, quindi l’unica alternativa fu lasciare il divano per andare a vedere chi fosse. Nel breve tragitto attraverso il corridoio vagliò varie ipotesi, la più accreditata delle quali fu che fosse il portiere: magari era arrivata della posta importante, una raccomandata o un pacco, o magari aveva dimenticato di pagare qualcosa. Non sarebbe stata la prima volta.

Invece attraverso lo spioncino vide Manuel.

Quel Manuel. L’unico Manuel della sua vita, non ce n’erano stati più altri.

Si ritrasse quasi scottata, ma era troppo perplessa dalla sua presenza sul pianerottolo per elaborare piani per ignorarlo. Spinta dalla curiosità, gli aprì di slancio.

- Che ci fai qui? -

Lui non si finse turbato dalla maleducazione di Alice, se l’era aspettata una reazione del genere presentandosi alla sua porta senza invito, quindi andò diretto al punto.

- Dobbiamo parl... -

Non gli lasciò nemmeno finire la frase.

- No -

Chiaramente aveva previsto anche questo e non se ne lasciò intimorire; sfoderò il ghignetto storto che lei conosceva bene e sapeva di dover temere.

Alzò leggermente la voce e si guardò intorno fingendo noncuranza.

- Quindi preferisci che tutto il tuo palazzo sappia che stavi per fare sesso in un gabinetto al matrimonio dei tuoi migliori am... -

- Entra, muoviti - si era scostata irritata come un cobra, tenendogli aperta la porta.

Manuel non se lo fece ripetere e varcò la soglia trionfante.

La casa era fresca e profumava d’estate. Si apriva con un piccolo corridoio con una sola porta sul fondo, sulla parete di sinistra c’erano una consolle e uno specchio rotondo, nulla su quella di destra. Attese comunque che fosse lei a guidarlo, nonostante la direzione fosse scontata. Non nascondeva certo il suo disappunto Alice e solcò il corridoio quasi a passo di marcia senza rivolgergli la parola.

Ad una prima occhiata, in fondo l’ambiente si apriva in un open space, che comprendeva sulla destra una piccola cucina e un bancone con tre sgabelli, un grosso divano ad angolo con tv e soggiorno sulla sinistra. Prima che potesse di sicuro invitarlo a non sedersi, le allungò la busta di plastica che aveva portato con sé.

- Ho portato del gelato come pegno di... pace?- La prese un po’ in giro per quel broncio indispettito che si ostinava a tenergli, e poi sì, perché era uno stronzo strafottente e sfotterla era il suo primo divertimento.

Alice afferrò la busta con uno scatto e si diresse verso la cucina, dove lui la seguì.

- Accetto il gelato, ma non abbiamo nulla di cui parlare - decretò scartando la confezione.

Avrebbe voluto dirle che era ancora testarda come una volta, che quando metteva il broncio era ridicola e sembrava la bambina capricciosa di un tempo, avrebbe voluto dirle che erano cresciuti e che era ora che imparassero a parlarsi. Ma non le disse nulla di tutto ciò, la sua arma migliore era ancora il sarcasmo.

- Magari sono io che voglio parlare con te, no? - era certo che lei fosse sul punto di urlargli che doveva pensarci sei anni prima, o addirittura di tirargli un pugno, ma la stroncò continuando il monologo - Ti devo delle scuse, non avrei dovuto. È stato istintivo e stupido -

Alice tacque, concentrata sul cibo come mai era stata in vita sua. Chiaramente aveva ignorato ogni regola di educazione e buon senso e si era servita direttamente col cucchiaio dalla vaschetta, ignorando il suo ospite che per buona pace si era tranquillamente accomodato di fronte a lei, su quegli sgabelli che valevano di sicuro quanto un paio di suoi stipendi.

Pistacchio, era uno dei suoi gusti preferiti ed era anche maledettamente calorico, la guardava mangiarlo improvvisamente distratto dal suo obiettivo.

- È vero, ora ti sei scusato, puoi andare no? - col cucchiaio gli indicò la porta.

Il sorrisetto e l’aria svagata di Manuel le fece capire che no, lui non aveva intenzione di andarsene, e che no, non aveva intenzione di lasciarla in pace.

- Perché dobbiamo interagire per forza? Che diamine vuoi? -

Di nuovo apparve quel sorrisetto sfrontato e invitante sul suo viso, non la stava ascoltando affatto.

- Comunque non ho intenzione di rispondere -

- Allora parlerò io... -

Lui? Parlare lui?

Sbatté il cucchiaio e la mano sul tavolo e si sporse verso di lui, che la fronteggiava sul lato opposto.

- Sul serio? Ora… vuoi parlare?! - la cosa la mandò fuori di testa. Era sempre stata lei quella pronta a comunicare, a lui andavano strappate le parole con le pinze dalla gola.

Per la prima volta Manuel fece caso alla ragazza che aveva davanti, niente a che vedere con la donna tutta gonne e tacchi alti che aveva visto in quei giorni: era in pantaloncini e canottiera di cotone, entrambi con una metratura di tessuto illegale, i capelli arrotolati sulla testa o appiccicati alla nuca per il caldo, senza un filo di trucco né altri accessori a offuscare la sua bellezza. Aveva ancora tutte quelle lentiggini anche sulle spalle. Faceva parecchio caldo quella sera, ma non abbastanza da giustificare il calore che gli si irradiò dal collo allo stomaco. Quella canottiera bianca le scivolava sul corpo fin oltre i fianchi e lasciava poco spazio all’immaginazione. Perché quella ragazza era sempre, sempre, così ammiccante?

Doveva rimanere concentrato sul suo obiettivo!

- Ok senti, ti ho già detto che non sono qui per litigare con te e che fa strano anche a me rivederti. Lo so di essere stato uno stronzo, ma potrò mai riparare? No. L’unico modo che conosco per farlo è scusarmi, e non per quello che è successo ieri... -

Alice lo fulminò, non c’era molto spazio per la diplomazia ormai, lui era lì, era andato da lei, non c’erano orecchie indiscrete, né amici e amiche impiccioni. Era il momento della verità.

-Scusarti? Tu non hai idea di cosa mi hai fatto. Mi hai lasciata sola da un momento all’altro, senza una spiegazione. - l’impulso fu quello di afferrarlo per la maglietta e scuoterlo finché non gli fossero usciti gli occhi dalle orbite ma vista la sua mole era evidentemente energia sprecata. - Ho creduto che fossi morto, capisci? Ho telefonato a tutti gli ospedali da qui a Milano, prima di capire che eri solo troppo codardo per lasciarmi. Ti ho odiato fin dentro alle viscere, ed ora tu vuoi semplicemente scusarti? -

L’aveva raggiunto dall’altro lato del tavolo e incombeva minacciosa verso di lui. Non l’aveva mai vista così delusa, mai l’aveva guardato con tutto quell’odio nello sguardo, nemmeno il giorno che si erano rivisti.

- Mi sono rovinata con le mie stesse mani per colpa tua: ho bevuto, preso centinaia di pastiglie, mi sono ridotta allo spettro di me stessa, mi hanno fatto due tso, ho smesso di mangiare e sono stata 35 chili per più di sei mesi, non ho visto la luce del sole per giorni, mi sono giocata il cervello per colpa tua, e se non avessi avuto qualcuno accanto, forse alla fine ci avrei rimesso anche di più. È di tutto questo che ti devi scusare, ma nemmeno lo sai, perché tu semplicemente… - prese fiato e lo guardò diritto negli occhi a meno di mezzo metro - sei scappato -

Era stato un errore andare lì, ora Manuel lo sapeva e voleva andarsene il prima possibile.

Come poteva scusarsi? Come poteva immaginare ciò che sarebbe successo? Lui aveva agito per lei, per non soffocarla e legarla ad un luogo che non avrebbe potuto renderla felice, perché voleva che entrambi si realizzassero e invece aveva solo fatto danni.

Era pronto ad alzarsi ed andarsene, non sapeva come, ma avrebbe dovuto lasciare quella casa al più presto. Aveva bisogno di parlare con Kate, di razionalizzare tutte le cazzate che aveva fatto. Aveva bisogno di un aereo, subito.

E stava scappando di nuovo.

- Vattene -

Nessuno dei due disse altro, Manuel inchiodato al suo sgabello dallo sguardo deluso di lei, Alice inchiodata dall’adrenalina dopo avergli vomitato addosso tutte le sue colpe.

Lei col fiato corto, lui in apnea.

- Sono stato uno stronzo - non c’era spazio per le giustificazioni, non ora che aveva letto nella sua rabbia tutto il dolore che le aveva provocato.

- Io ti amavo sul serio, e mi hai delusa. Sei stato molto più che stronzo -

- Anch’io -

- Cosa? -

Alzò gli occhi per incontrare i suoi e gli parve di vederli per la prima volta da quando era entrato lì. Erano sempre stati così azzurri?

- Anch’io ti amavo davvero -

Si vergognò di averlo detto ad alta voce, forse nemmeno a Kate aveva mai detto quanto aveva amato Alice, ed ora invece lo stava dicendo proprio a lei e sperava che bastassero quelle parole per farle capire quanto davvero l’aveva amata. Tanto da rinunciare a lei, tanto da capire di essere sempre stato la sua zavorra, tanto da capire quanto lei fosse mille anni luce avanti a lui.

Non c’era più niente da dirsi a quel punto, quindi prese le chiavi della macchina che aveva appoggiato sul tavolo e imboccò la strada per uscire senza più guardarla in faccia.

Si era scusato, non conosceva altro modo per risolvere quella faida e sperava finalmente di averla liberata dell’odio che aveva provato per lui.

Mentre lei lo guardava allontanarsi verso la porta, qualcosa si accese nel suo cervello. Mercoledì sarebbe ripartito, probabilmente non si sarebbero visti mai più, dubitava che dopo quella sfuriata l’avrebbe rivista volentieri e lei non voleva perderlo di nuovo ora che l’aveva avuto di nuovo così vicino.

Si diede dell’idiota milioni di volte ma la sua lingua si mosse prima che il cervello potesse fermarla.

E lo chiamò.

Forse Salvatore aveva ragione, forse dovevano solo... risolvere a modo loro.

Gli si avvicinò e attese che la guardasse per parlare.

- Tre anni fa sono venuta a Londra. Ero venuta a cercarti per dimostrarti quanto io stessi bene senza di te, volevo sbatterti in faccia le mie lauree e il master, volevo che tu soffrissi tanto quanto avevo sofferto io. Jack mi aveva detto che lavoravi già in quella casa d’asta e mi aveva dato il tuo numero. - Manuel sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma lo bloccò alzando una mano - Non sono nemmeno uscita dall’albergo. Sono rimasta ore a piangere nella mia stanza e non ho visto altro che l’interno del taxi per tre giorni. Ero terrorizzata all’idea di incontrarti per caso e me ne sono tornata a casa senza vedere nemmeno il Big Ben -

All’improvviso in Manuel apparve un momento diverso, un incontro nella sua città, lontano dagli occhi di tutti, in uno Starbuck’s del centro. Avrebbero potuto parlare, avrebbe voluto portarla in giro e farle vedere i suoi posti preferiti.

- Avresti dovuto chiamarmi -

Lei sviò il suo sguardo e tutto ciò che gli venne in mente fu baciarla.



Se stasera sono qui è perché ti voglio bene

è perché tu hai bisogno di me anche se non lo sai


Si baciarono a lungo in mezzo al salotto, non ci furono parole né spiegazioni. Fu Alice a prendere l’iniziativa e a condurlo in camera da letto.

Non ebbe il tempo né l’intenzione di guardarsi attorno per studiare la stanza, vide solo il letto e la mano che si tendeva verso di lui come un invito.

Per quanto tentasse di mentire a se stesso, sapeva che sarebbe finita così, lo sapeva da quando aveva deciso di tornare a Verona per quel matrimonio, l’aveva sempre saputo, perché loro erano sempre stati così fin dall’inizio. L’unico luogo in cui riuscivano davvero a comunicare era sotto le lenzuola, era stato così quando la prima volta l’aveva condotta a casa sua in una sera d’inverno, era stato così dopo quando si erano rincorsi per mesi, ed era stato così negli anni che erano stati insieme: litigavano e non si parlavano per giorni finché non riuscivano a fare sesso. Stava succedendo di nuovo, stavano evitando le parole per lasciar parlare altro, ed era sbagliato soprattutto perché non avevano più vent’anni.

Erano stati infantili e avventati, ma erano giovani e forse si erano bruciati l’amore della loro vita senza saperlo.

Però era sdraiata sotto di lui, ed era bellissima, e lui non riusciva più a pensare coerentemente.

Alice sapeva che non avrebbe mai dimenticato i baci di Manuel, sempre uguali, sempre pieni di parole non dette: con quell’inizio lento e profondo che l’accarezzava prima di leccarle il labbro inferiore e catturarlo tra le labbra. Lui la baciava ancora così e il suo cervello si scioglieva.

Non credeva si sarebbe mai più sentita così, tra le mani di Manuel si era sentita più donna che mai altrove.

L’aveva fatta sentire morbida, affondando le dita nel suo seno, stringendole le cosce e il sedere, e ignorando le ossa che sbucavano in posti inopportuni del suo corpo, dove un uomo avrebbe sicuramente preferito trovare della carne.

L’aveva fatta sentire desiderata, quando l’aveva spogliata senza premura graffiandola col gancio del reggiseno, e senza nemmeno guardare ciò che stava levando, la biancheria spaiata e i vestiti logori da casa.

L’aveva fatta sentire priva di barriere, quando senza batter ciglio aveva infilato la mano tra i suoi capelli sudati e le aveva baciato il collo imperlato.

Non si era risparmiato e nemmeno lei.

Senza più la barriera dei vestiti, nella penombra della sera avevano fatto l’amore.

Quando senza esitazioni era affondato in lei, si era sentita strappare l’aria dai polmoni, era stato come annegare. Per un attimo, terrorizzata aveva pensato di spingerlo via e buttarlo fuori di casa, poi erano arrivate le sue labbra a ridarle ossigeno; l’aveva stretta e trascinata in ginocchio sul letto seduta in braccio a lui, e l’aveva baciata come se ne andasse della sua stessa vita. Manuel aveva baciato via le lacrime che lei non si era nemmeno accorta di versare e l’aveva condotta lontano da quel letto, da quella stanza, da quella casa, da quella vita. Oltre l’immaginazione, oltre il presente, in un mondo in cui loro due assieme erano ancora una possibilità.

Tutto con lui era troppo.


Per ore non avevano fatto altro che guardarsi negli occhi, parlare con le mani e morire sulle labbra. Manuel non aveva aperto bocca da quando erano entrati in quella stanza, Alice l’aveva aperta solo per gridare il suo nome.

Era stato strano per lui, era stato come incontrare qualcuno di cui non ci si ricorda il nome, ma si è certi di conoscere. Tutto in lei gli parlava di cose già successe, di momenti passati: il modo in cui si gettava i capelli su una spalla prima di abbassarsi su di lui e baciarlo, i gemiti che tratteneva tra le labbra stringendo i denti, l’espressione sempre dubbiosa con cui lo guardava dopo, come se si aspettasse di essere sgridata.

Nella penombra della sua camera incontrò il profilo spigoloso delle sue spalle, era ancora bianca come il latte, entrambi sapevano che era arrivato il momento di parlarsi.

Avrebbe tanto voluto una sigaretta.

- Non avremmo dovuto, vero? -

- No -

Alla sua risposta seguì un sbuffo e un movimento che al buio ipotizzò fosse un braccio buttato sugli occhi. Probabilmente si era pentita, ma lui no.

- Ma rifarei tutto quello che ho fatto -

Alice sogghignò e si allungò verso il comodino per accendere la luce, prima di voltarsi verso di lui.

La lampada giallastra illuminò il suo volto e i capelli di riflessi dorati; non poté fare a meno di allungare una mano e passargliela tra i capelli.

- Tutti questi tatuaggi...? - un paio li aveva intravisti nella penombra, però ora aveva la possibilità di vederli bene. Non ne aveva nessuno l’ultima volta che l’aveva visto nudo, ma non sapeva nemmeno che avesse intenzione di farne.

Il primo che aveva notato era sul bicipite destro: erano due piccole serie di numeri, una sopra l’altra senza interruzioni, solo osservando bene si poteva intuire che fossero date, una di quasi vent’anni prima, una molto più recente. La prima doveva essere la data della morte di sua madre, l’altra non ne aveva idea.

- Questa? -

Ci passò l’indice sopra e lui le rispose subito.

- Il giorno che ho conosciuto Kate -

Sulla clavicola destra, un elaborato disegno conteneva una frase in latino che sfumava verso il collo in uno stormo di uccelli neri in volo “Faber est suae quisque fortunae”. Non ricordava la traduzione precisa, ma era qualcosa sull’essere artefici del proprio destino. Era decisamente il genere di tatuaggio che si addiceva a lui.

- Bello questo -

Un altro era sul pettorale sinistro, proprio sopra il cuore: due cerchi concentrici grandi come un timbro postale, sul bordo c’erano due frasi “Always with me. Always with you” e all’interno una lettera stilizzata, A.

Era lei quella A? Non pronunciò la domanda, ma accarezzò il disegno, lui comprese e le rispose a modo suo.

- È il primo che ho fatto. L’ho fatto ripassare qualche mese fa, si stava scolorendo - e le baciò le dita che lo stavano toccando.

- Altri? - Alice deglutì a vuoto, mentre tentava di non fare altre domande inopportune e cambiava argomento al volo.

Si voltò sul fianco destro e sulla schiena, sotto la scapola sinistra, trovò un’altra serie di numeri. Erano coordinate geografiche, le venne spontaneo chiedere che posti fossero.

Manuel sorrise, tornando a passarle un braccio dietro al collo. Sapeva che lei avrebbe capito subito che erano coordinate e non numeri fini a se stessi.

- Sono i luoghi che ho chiamato casa. C’è la casa di via degli Uberti, quella di Sonia, quella di Londra e la casa di mio padre nel Sussex -

- Quattro. Non dovrebbero essere dispari? -

Prese un po’ le distanze e le rispose solo con un alzata di spalle, sapeva che esaurito questo argomento la stasi sarebbe finita. L’orologio sul comodino indicava quasi la mezzanotte e sicuramente Kate gli avrebbe fatto un terzo grado da sergente del KGB, forse anche Filo. Quel pensiero gli ricordò che non le aveva detto che era andato proprio da lui a chiedere consiglio; forse non era il momento migliore, ma le doveva dire la verità.

- Filo sa tutto. Sa del matrimonio e che sono venuto qui stasera -

Sapeva di essere stato meschino, subdolo e puerile, però non era riuscito a trattenersi, non dopo che li aveva visti parlottare in un angolo al matrimonio, tutti intimi e in confidenza. Era una scena già vista, come una foto ritoccata male, una volta erano Jack e Alice i migliori amici tutti pane e confessioni, ora invece Filo aveva preso il posto di suo fratello, solo che era lo Zonin sbagliato; Jack non avrebbe mai abbracciato lei in quel modo ammiccante, non le avrebbe mai fatto l’occhiolino, Jack non se la sarebbe mai portata a letto, mai, in nessuna dimensione parallela.

Lei non reagì con la sfuriata che aveva previsto, anzi si mise seduta e cominciò a raccogliere i propri vestiti.

- L’avevo immaginato, anche perché se non con la sua auto come saresti venuto? -

Il suo cervello svelto lo prendeva sempre in contropiede, lei già sapeva e già aveva elaborato.

- Non è un problema, gliel’avrei detto comunque -

Manuel capì che il loro tempo era scaduto e, senza attendere ulteriori segnali, si sedette sul bordo del letto per rivestirsi. La sentiva immobile, sdraiata dietro di lui, e non riusciva a trovare qualcosa da dirle: recuperò jeans e maglietta dal pavimento, mentre i calzini non se li era nemmeno tolti. Nella tasca dei jeans trovò il cellulare con un paio di messaggi e una mail da leggere, Kate come aveva previsto non l’aveva cercato.

Senza voltarsi, parlò al buio che li avvolgeva, non ebbe la forza di guardarla in faccia.

- Ali, riparto mercoledì mattina -

Lei non si mosse, ma sapeva che l’aveva sentito.

Sarebbe voluto rimanere lì, a dormire abbracciato a lei, a svegliarsi con lei, ma si erano già fatti abbastanza male in quelle poche ore ed era meglio che quello fosse un addio definitivo, non doveva temporeggiare.

- Lo so. - sospirò - Ma preferisco salutarti ora -

Come darle torto. Se davvero si fossero incontrati di nuovo davanti agli altri sarebbe stato ancora più imbarazzante e difficile da gestire, non si sarebbero potuti muovere onestamente come avevano fatto quella notte.

- Hai la mia mail, in ogni caso. Se ti venisse in mente di passare a Londra, chiamami questa volta, che ti porto io a vedere il Big Ben-

Di nuovo non ebbe risposta, sentì solo una mano intrufolarsi sotto la sua sul materasso; la strinse e ne baciò il palmo, prima di alzarsi e uscire definitivamente da quello stallo.






Inutile ed ignorato spazio autrice:


L’unico degno paragone alla mia lentezza è quello del conclave, ergo fumata bianca: habemus capitolo!

Pochi piccoli chiarimenti come solito, altrimenti mi dilungo:

-Sì sono ben 12 pagine di capitolo, e di nuovo sì sarebbero bastate le ultime dieci righe!

-Sì sono una sadica rovina famiglie e ne vado fiera.

-Sto riflettendo molto sul personaggio di Alice in questo periodo, spesso mi chiedo cosa ne pensiate di lei? Spero in questo zibaldone di personalità che le ho appioppato di non aver creato una spocchiosa Mary Sue. Se è così siete libere di insultarmi ma fatemelo sapere perchè devo correre a riparare!

-Di nuovo so che molti non hanno apprezzato la coppia Filo e Alice, vorrei specificare che non è una coppia, non lo è stata e non lo sarà mai. Era solo un modo per mostrarvi una sfaccettatura diversa dell’amicizia, di come può evolvere o -per esperienza- naufragare, e di come una persona cara nell’arco della nostra vita possa ricoprire ruoli diversi senza che il legame cambi.

-La canzone all’inizio del capitolo è All my life dei Foo Fighters, sentirete ancora parlare di loro nelle mie storie perchè sto amando intensamente il loro ultimo album. La seconda è l’italianissima e immortale Mina Se stasera sono qui, consiglio la visione su you tube della versione interpretata da Giorgia a San Remo.


Sproloqui a parte: amate Sandra! Senza di lei come al solito non sarei qui e nemmeno voi.

Come al solito: non aspettatevi un altro capitolo a breve, vi spoilero solo che mi odierete. E tanto.

Come al solito: su FB sono Fuori Target Efp, liberi di stalkerarmi per costringermi a scrivere. Anzi, fatelo!


1bacio. Vale.


   
 
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