Serie TV > Numb3rs
Segui la storia  |       
Autore: y3llowsoul    11/03/2013    2 recensioni
Le quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo – tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie collabora a una missione segreta. Don cerca di venire a sapere qualcosa della faccenda, ma quando finalmente ci riesce, non è una ragione per rallegrarsene, e per la famiglia Eppes cominciano periodi brutti.
Genere: Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Don Eppes, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Grazie a BlackCobra per recensire e ad Alchimista per correggere regolarmente le mie storie :)




28. Speranza

 

I can smile at the old days.
Life was beautiful then.
I remember the time I knew what happiness was.
Let the memory live again.
(Cats, Memory)


 «Oh, oh» fu tutto ciò che disse Mike non appena ebbero riportato il professore nella sua cella. Daniel Rosenthal finse di non averlo sentito, semplicemente perché Mike voleva che reagisse al suo stupido “oh-oh”.

Ma naturalmente questo non impedì a Mike di continuare ad infastidirlo. «Questo non mi piace» continuò col tono di qualcuno che voleva sostenere un'intelligente discussione sulla situazione con il suo superiore.

Rosenthal non poté più controllarsi. Come hacker, Kirtland era insostituibile, ma qualche volta riusciva davvero a farlo imbestialire. «E perché non ti piace?», lo attaccò adesso. «Eppes è sfinito. È solo una questione di tempo prima che si decida a lavorare con noi».

«Ma ha rifiutato».

«E allora? Sarebbe la prima volta che riusciamo a far cambiare idea a qualcuno?»

«Ma... se crolla di nuovo?»

«Ma dai, lascialo stare, Mike. Faremo anche attenzione che il nostro dottorino mantenga tutti i suoi venerdì. Resta con i tuoi computer e lascia fare i progetti a me».

L'aveva desiderato. Non aveva nemmeno osato sperare che fosse la volta buona che Mike stesse zitto, ma per un attimo l'aveva desiderato. Non ce l'aveva fatta a sperarlo, però: conosceva Mike troppo bene.

«Ma... l’hai visto anche tu. Come ad un tratto è sembrato stravolto: è assai inquietante, devo dirti. Come qualche volta sembra semplicemente smettere di sentirti».

«Forse è a causa della depressione, o ha semplicemente cercato a ricordare».

«E se ce la farà?»

«Se ricorderà mai? Macché. Se non è riuscito a ricordare nulla in sei mesi, non cambierà adesso».

- - -

«Non può tenermi imprigionato per sempre».

Fervidamente Charlie tentò di convincere anche sé stesso con quella frase. Ma il maligno sogghigno evidentemente onnipresente distrusse il suo progetto.

«Non immagina, professore, che cosa possiamo fare».

Charlie deglutì. Eppure era pronto a far tutto ciò che era in suo potere per far cambiare idea ai suoi avversari. «Sicuramente mio fratello mi sta già cercando». E Charlie sperava, sperava così ardentemente che fosse la verità.

L'agente Johnson rise con tono sarcastico. «È questo ciò in che ripone la sua speranza? Che lì fuori ci siano delle persone che la stanno cercando? Insomma, quanto è ingenuo? Nessuno – glielo dico io, nessuno! – la sta cercando. Le persone lì fuori non si interessano a lei». Fece una piccola pausa, voltandosi dall’altra parte, come se volesse lasciar Charlie da solo prima di riprendere a parlare. Ad un tratto aveva un tono un po' più umano. «A voler essere sincero, non so perché non è ancora pronto a guardare in faccia la verità. Le persone lì fuori non vogliono che lei ritorni. La sua famiglia vuole che lei serva al suo paese. Non l'ha ancora capito? Cosa crede che direbbe suo fratello se lei ritornasse senza aver adempiuto al suo incarico?»

Lo sguardo impaurito di Charlie era diventato instabile, proprio come la sua convinzione. Un sorriso disperato era apparso sulle sue labbra. “La sua famiglia vuole che lei serva il suo paese” – poteva esser la verità. Ma che Don non avrebbe mai voluto che suo fratello facesse il terrorista era sicuro come il fatto che due più due facesse quattro, benché all'epoca Johnson fosse riuscito a fargli dubitare di ciò e a farlo diventare insicuro. E Don non avrebbe nemmeno voluto che Charlie accettasse l'incarico in autunno, tanto meno che aiutasse la CIA dopo che loro lo avevano privato della sua libertà. Significava che questa volta aveva risposto nel modo giusto, come Don avrebbe voluto. Charlie non sarebbe mai più diventato criminale, non importava che cosa gli avrebbero fatto. Aveva rifiutato la loro “offerta” categoricamente e questa era stata la decisione giusta, definitivamente giusta...

E se sbagliava?

Improvvisamente pensò alle possibilità che avrebbe avuto accettando la loro offerta. Avrebbe avuto un'idea più precisa di ciò che intendevano fare i terroristi della CIA. Non sarebbe più stato sempre in quella cella, ma probabilmente di nuovo in una specie di ufficio, davanti a un computer. Magari davanti a un computer collegato a un qualche tipo di rete cosicché sarebbe stato in grado di far sapere a qualcuno fuori che cosa gli stava succedendo e dove si trovasse? E innanzitutto avrebbe avuto la possibilità di scoprire egli stesso dove si trovasse.

In ogni caso lui avrebbe avuto un'influenza su ciò che sarebbe successo. E forse sarebbe stato in grado di dare loro risultati tali che gli attentati non avrebbero fatto danni a persone. Oppure tali che gli attentati avrebbero potuto condurre altre agenzie investigative sulle tracce di questi criminali?

Ma ormai, aveva perso tutte queste possibilità. Quindi aveva comunque fatto un errore? Sarebbe stato meglio se avesse acconsentito ad aiutare i terroristi del CIA – anche se solo per finta?

Poi però gli era venuto in mente come erano state le cose sei mesi prima. E qualche minuti prima. Aveva saputo che cos'aveva fatto, e continuava a sentirsi insopportabilmente cattivo e sporco. Cosa sarebbe successo se anche stavolta non sarebbe stato in grado di proteggere la gente, se a causa dei suoi calcoli ci fossero stati nuovi morti?

Dunque forse il suo intuito aveva avuto ragione questa volta. Perché sarebbe stato troppo. Charlie non avrebbe sopportato di essere di nuovo la causa di molte morti. Una sola volta gli bastava definitivamente. Il pensiero della sua colpa non lo lasciava respirare, faceva girare i suoi pensieri come se fossero in fuga da lui benché sapesse che non sarebbe mai, mai potuto sfuggire loro, né ai suoi pensieri né a se stesso. Era condannato a vivere con le sue azione e non sarebbe mai stato in grado di annullarle né avrebbe mai potuto bandire questa verità orribile di nuovo della sua memoria. Aveva degli essere umani sulla coscienza!

Charlie rabbrividì, ma non servì a scuotersi di dosso la sensazione di freddo che provava.

- - -

David e Colby suonarono il campanello. Di nuovo. Colby, gli occhiali da sole davanti agli occhi, guardò a destra e a alle sue spalle mentre David lanciava uno sguardo di controllo prima al nome sul campanello, poi su una finestra e infine a sinistra (e a dietro). Di nuovo. Sentirono dei passi e la porta veniva aperta – di nuovo. David si chiese (di nuovo) quante volte ancora avrebbero dovuto fare quella procedura prima che avessero finalmente avuto un'informazione che li aiutasse. Come ogni volta quelle riflessioni venivano immediatamente seguite della fatidica domanda riguardo cosa avrebbe messo fine a tutto quello: un'informazione che finalmente li avrebbe aiutati oppure il semplice esaurirsi di case alle quali bussare, cosa che sarebbe significato essere di nuovo a mani vuote.

«Buongiorno?» la donna di mezza età li salutò con un tono definitivamente interrogativo.

«Buongiorno, Signora Jenkins. Mi chiamo David Sinclair e questo è Colby Granger. Siamo dell'FBI e vorremmo farle qualche domanda».

Le mostrarono i loro distintivi e la donna li guardò spalancando gli occhi. «FBI? E' successo qualcosa?»

Naturalmente è successo qualcosa, altrimenti non saremo qui, pensò Colby fra di sé. Aveva sentito questa domanda sia durante il suo corso professionale sia in quella giornata così spesso da snervarlo.

«Si tratta del Professore Charles Eppes» rispose David e poté vedere la donna lasciarsi scappare un sospiro di sollievo, probabilmente perché la faccenda non riguardava direttamente lei o la sua famiglia. «Abita sull'altro lato della strada, qualche casa dopo questa».

La Signora Jenkins annuì. Conosceva il giovane professore di vista e sapeva anche qualche cosa della famiglia Eppes, quel po’ che si diceva tra vicini. «Ho sentito cos'è successo. Terribile».

«Forse sa qualcosa che potrebbe aiutarci per trovarlo?» chiese David.

La donna aggrottò la fronte. «Trovarlo? Ma... ma è morto. È stato sepolto, già... settimane fa».

Per essere esatti, alcuni mesi, la corresse Colby mentalmente mentre capiva. «Ciò che è successo mesi fa si è rivelato un errore. Ma l'altro ieri, il professore Eppes è di nuovo scomparso» le diede le informazioni più necessarie, «e crediamo che sia stato rapito». Colby non le diede l'opportunità esprimere il proprio orrore se non con l’espressione del suo viso, ma continuò subito: «Forse lei si è accorta di qualcosa di strano durante i giorni passati? Forse un veicolo che solitamente non si trova da queste parti o qualcuno che non ha mai visto prima in questo quartiere?»

La Signora Jenkins, occupata ad assimilare le informazioni, scosse il capo. «No... cioè, una settimana fa la famiglia doveva partire; la casa era vuota. In ogni casa è ciò che ha detto la Signora Connally; abita nel numero 873, direttamente di fronte».

David trattenne un sospiro. Il fatto che Don ed Alan erano stati in Nebraska non era niente di nuovo. «Nient'altro?» chiese con un briciolo di speranza.

Di nuovo lo scuotere della testa. «No, mi dispiace».

I due agenti federali la ringraziarono, la salutarono e continuarono l'azione investigativa con un po’ di speranza in meno.

- - -

«Eppes».

«Ehi, Papà».

«Charlie! Come stai? Come va il tuo... lavoro?»

«Bene... Va tutto bene. Non preoccuparti. Sto bene qui, davvero». In realtà trovava tutto ancora un po' inquietante, ma pian piano si abituava davvero alla situazione e anche il suo lavoro cominciava a fare grandi progressi.

«Hai già parlato con Don?»

Per un attimo, Charlie stava per riattaccare il ricevitore. «No» replicò e ad un tratto fu asciutto. «Possiamo parlare di qualcos’altro?»

«Certo. Perché non mi racconti un po' cos'è che stai facendo esattamente? E con chi lavori? E a proposito: forse parlando vengo a sapere anche in quale continente mio figlio si trova al momento».

«Papà, dai...»

«Don si preoccupa di te proprio quanto faccio io, Charlie. Sei via già da quattro giorni e non hai pensato che fosse necessario chiamarlo?»

«Sono molto impegnato qui, Papà. E inoltre...» Charlie esitò, ma pian piano era stufo delle insistenze di suo padre. «Inoltre Don si lamenterebbe di nuovo del fatto che sto facendo tutto in segreto. E vorrebbe interrogarmi nonostante sappia bene che non posso dirgli nulla. E' semplicemente sempre incavolato perché ho accettato l'incarico e per una volta non ho seguito i suoi ordini».

«Non è vero e tu lo sai. Alla fine, chiamalo, Charlie. Oppure volete evitare di rivolgervi la parola per un mese intero?»

Non sarebbe la prima volta”, voleva rispondere Charlie, ma qualcosa lo distolse. Era vero, in passato il contatto tra lui e Don si era ridotto alle cose le più necessarie. Ma Charlie non era mai stato davvero contento di quella situazione. E in qualche modo sentiva e sperava e credeva che quel tempo dell'alienazione fosse finito e che avesse fatto posto a una nuova fase, una che comprendeva un legame fraterno.

«Eppes».

«Ciao, Don». Il suo tono era un po' controllato.

«Charlie!» Quello non era un tono controllato. «Ehi... Come stai? Papà dice che... Che stai facendo?»

Bentornata, nervosità non amata. Ma in qualche modo faceva bene sapere che Don non si sentiva meglio di lui in quella conversazione.

«Io sto bene. E tu?» Oh Dio, sarebbero riusciti a mettere insieme almeno una frase sensata?

«Sì, anch'io, ascolta...»

Sì, lo faccio Don, ma se io devo ascoltarti, tu devi parlare.

«Io...» Sì...? «Io non ti assillerò più perché tu mi racconti qualcosa, va bene? Solo a patto che tu me lo dica se ti sembra che qualcosa non vada o che sia troppo pericoloso. Va bene?»

Wow. Per un attimo Charlie era senza parole. Erano arrivati al punto più velocemente di quello che avrebbe creduto.

«Va bene» acconsentì.

Ci fu silenzio per un po' prima che cominciasse di nuovo a parlare, con un sogghigno ancora un po' cauto sulle labbra: «Ehi, Papà dice che ti preoccupi. Ti stai intenerendo, Don».

Un'esitazione breve, poi Charlie poté sentire dal tono di suo fratello che anche lui stava sogghignando. «Io, intenerirmi? Aspetta, io… preoccuparmi? No, no, no, Chuck. Devi aver capito qualcosa male. Oppure papà sta diventando vecchio».

«Concordo con la seconda».

«Va bene. Ma dobbiamo tenerlo per noi. Perché per un uomo vecchio fa ancora delle lasagne ottime».

Nella sua memoria, Charlie sentiva il proprio sorriso, ma adesso quel pensiero causò solo un sorriso che non sarebbe potuto essere più triste. Sì, anche all'epoca era stato separato dalle persone che erano importanti per lui ed era stato quasi imprigionato, ma allora aveva almeno avuto la possibilità di contattare il mondo esterno. Aveva potuto parlare con la sua famiglia e i suoi amici, benché avesse concesso a sé stesso solo pochi minuti al giorno per pensare alla sua vita, di solito prima di coricarsi perché a quel punto non aveva più potuto riflettere a un livello sensato. E dopo si era sentito abbastanza bene da passare alcune ore tranquille e riposanti. Sì, le telefonate all'epoca gli avevano dato forza, e desiderava averle anche in quel momento talmente tanto che faceva male.

Nel frattempo si era chiesto perché la prima volta gli avessero concesso il contatto col mondo esterno. Avevano corso il rischio che lui rivelasse qualcosa sul progetto, no? E forse poi qualcuno di fuori, con altri dati a sua disposizione, avrebbe scoperto ciò che stava succedendo…

La prima risposta che si era dato non lo aveva soddisfatto del tutto: avevano semplicemente voluto tenerselo buono con simili “confort” perché non diventasse ricalcitrante e restasse accondiscendente a ciò che avevano intenzione di fare? L'altra possibilità gli dispiacque tanto di più – la possibilità che avessero intercettato le sue conversazioni. Dovevano aver sorvegliato sia lui sia i telefoni. Probabilmente avevano sentito ogni conversazione che aveva avuto con suo padre, con Don, con Larry e con Amita.

Ora come ora non gli sarebbe importato. Avrebbero anche potuto intercettarlo: se non altro avrebbe finalmente parlato con qualcuno di loro, finalmente avrebbe sentito di nuovo le loro voci, sarebbe stato contentissimo. Però non si illudeva. Il tempo della prigione relativa era passato. Questo non era più relativo, ma assoluto. E non gli avrebbero mai più lasciato neanche un pezzettino di libertà. Era il loro prigioniero e lo sarebbe rimasto per sempre se non fosse successo un miracolo.


 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Numb3rs / Vai alla pagina dell'autore: y3llowsoul