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Autore: Anacarnil    13/03/2013    1 recensioni
Ennesima riflessione sull'esistenza umana che ha preso corpo qualche mese fa.
Anche questo racconto fa parte del corpus di scritti sperimentali, ma dovrebbe risultare più chiaro della maggior parte delle altre storie che ne fanno parte.
Questo il pezzo, sempre degli Atrium Carceri, su cui è venuto fuori. Sempre se ne avete voglia, potete infilare le auricolari e leggere su queste note.
http://www.youtube.com/watch?v=6F15UN3a1EU
Buona lettura!
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era un mattino uggioso, grigio, apatico. Uno dei tanti che aveva imparato a sentire. Una cortina poco rassicurante di pioggia permeava l'aria, gravida di un senso antico, arsa dalla malinconia. Era straziante rimanere imbabolato lì a seguire con lo sguardo quella trafila interminabile di volti infantili tutti puntati, a loro volta, sul suo. Si costrinse a mostrare un sorriso rassicurante, caldo, ma l'accusa che leggeva nei piccoli occhi scuri della marmaglia dirimpetto era inquietante, il verme del senso di colpa strisciava lento nel suo basso ventre, lasciando che la sua bava salisse a formare un nodoso groppo in gola. Distolse l'attenzione, torcendo e martoriando le mani tra loro mentre il padre terminava il suo lungo sermone. Qualcuno tossì alle sue spalle, e per un attimo si accorse che stava trasalendo. Scosse il capo, un movimento indefinito e vacuo in quel torpore grigio. Tornò ad adocchiare la fila di bambini dell'orfanotrofio radunati a salutarlo. Si morse il labbro. Gli occhi continuavano ad essere puntati sul suo volto ben rasato. Erano neri, e una scia scura scendeva sbavando a macchiare le loro guance pallide, quasi diafane in quel contesto grigio ed effimero. Ancora un refuso di tosse alle sue spalle, non sapeva dire se fosse genuina. Ipotizzò che qualcuno stesse semplicemente cercando di dissimulare il suo disinteresse per la pratica burocratica che si stava avviando al suo termine.

Deglutì, le ultime parole, così basse e vibranti del padre, parvero graffiare corde delicate all'interno della sua memoria, lasciandole vibrare.

«Ora da bravi, miei cari, salutate il vostro salvatore.» Il sorriso della donna era falso, e dovette aggrottare la fronte e tentare un ghigno poco convinto per dimostrare la sua buona volontà alla schiera di bimbi lì radunati. La pioggia continuava a battere, le sbavature sulle guance degli infanti si facevano più intense, gli occhi più neri, vuoti pozzi che l'anima aveva già abbandonato anzitempo.

Provò a fare ciao con la mano, un tuono scosse le radici della terra, l'edificio dal tetto spiovente che incombeva sulle loro teste si illuminò in quel grigio lucore, mentre l'uomo alle sue spalle continuava a tossire, ora insistentemente. Si puntellò sui piedi nella fitta trama di gocce che solcavano il suo viso, provò un'ultima volta a scambiare un'occhiata con uno dei bimbi lì radunati. Odio. Incomprensione. Apatia.

Scosse il capo, distendendosi con deliberata flemma sulla superficie polverosa della Luna. I ricordi affioravano numerosi come pigre lumache nell'umidità dell'uragano. La Terra da lì era una grande, approssimativa sfera che fluttuava nell'oscurità, illuminata con insistenza dal Sole lontano, remoto, perso.

Sulle sue labbra prese vita un sorriso sarcastico, il respiro artificiale all'interno della tuta che ne celava le fattezze in quell'oceano immoto si fece cupo, smorzato, mentre ridacchiava, e lo sbalzo rischiava di mandarlo a fluttuare lentamente nella leggera atmosfera lunare. Si sforzò di alzare lo sguardo all'immenso nulla che aveva attorno. Uno sconfinato mare di crateri e di buio trapunto di bagliori ammiccanti.  Era sublime godere della danza ancestrale dei corpi celesti da un punto così privilegiato. Egli era il Re che adocchiava soddisfatto dalla postazione migliore dell'anfiteatro la rappresentazione che si consumava dabbasso. L'orgoglio pareva scivolare lungo acquiescenti tentacoli attorno alla sua figura ancorata alla polverosa superficie del satellite.

Socchiuse gli occhi, da qualche parte, sornione, il Sole lanciava i suoi inopportuni messaggi. Come a gridare "Ehi! Ci sono anch'io!"

Scosse il capo.

L'ennesima mattinata uggiosa, lo testimoniavano i pochi raggi solari che filtravano dalle calde tende grigio scuro. Su ogni cosa pareva torreggiare una fitta cappa di polvere vorticante e scintillante nel riflesso plumbeo della luce. Stava parlando, parlando ad una platea di gente anonima, che lo fissava stralunata, gli occhi neri, vuoti, che si posavano nei suoi nei rari momenti in cui alzava lo sguardo a sciorinare la sua lunga trafila di parole insensate. La polvere scintillante pareva attecchire sui volti grigi della gente, lasciando una scia scura, come se ognuno di loro avesse adagiato sulle palpebre del trucco scadente che ora andava sbavando. Qualcuno tossì alle sue spalle. Ipotizzò fosse il presidente. Scosse il capo e riprese nel suo tortuoso monologo. Aveva sviluppato un prototipo di veicolo in grado di solcare lo spazio, e da lì a breve l'avrebbe testato personalmente. Le sovvenzioni degli Stati, gli investimenti di chi aveva creduto in lui, la forza di volontà, una commistione perfetta che aveva portato i suoi frutti. Era la rivoluzione di un'era. La liberazione dalle catene dell'ignoranza di un mondo intero. «Siamo pronti...» stava bellamente spiegando, l'aria sicura dipinta sul volto, «... Ad inaugurare una nuova epoca. Un'epoca priva del disfattismo politico, in cui ognuno di noi possa sperimentare la libertà, la conoscenza, toccare con mano le fonti della natura, andare oltre i propri limiti di uomo. In concomitanza col progetto del Dipartimento di Tecnologia...» Ancora un colpo di tosse, ma non si volse. Aveva comunque perso il filo del discorso e fu costretto a fare una pausa, adocchiando un attimo indeciso la platea. Odio. Incomprensione. Apatia... Accusa?

La gente non comprendeva, si disse.

Ma che i fantasmi della scelta che aveva compiuto si ripresentassero in modo così pressante nella sua mente non voleva accettarlo. Come avrebbe potuto? Ora poteva finalmente godere di quel momento estatico, magico, vibrante. Di lì a breve sarebbe rimasto l'unico essere umano esistente. Una preziosa reliquia di un mondo che stava per dissolversi in un attimo. Spostò lo sguardo nell'immensità dell'universo, ed il cosmo rispose alla sua attenzione pulsando, benevolo. E fu in quel momento che la vide. Maestoso Pegaso, portatore di Giustizia Divina. Sfrecciava lontano, determinata, ben disposta su quell'immaginario binario che correva dritto verso la sfera multicolore che aveva di fronte. Il sorriso si allargò, ma non conservava più quell'aura di fredda comprensione, di distaccato rimorso. Era il sorriso di chi sapeva di fruire di un'occasione unica. Portò gli occhi sulla Terra, guardandola come chi adocchia per gli ultimi, struggenti minuti, la sua vecchia casa, pronto a cambiare vita, pronto a trasferirsi in altri luoghi, a visitare altri posti, ad abbracciare nuovi ricordi e ad abbandonarne di vecchi, consunti, malvisti.

Stava sistemando uno dei reattori principali della navicella nella maestosa Hall del Centro di Ricerca e Sviluppo. Vi era un silenzio tranquillo, perfetto per proseguire nel lavoro di una vita. Il grigio regnava ormai ovunque, non c'era traccia di colore alcuno lungo la sala, ma probabilmente, si disse vago, si trattava solo di una sua impressione. Che il lavoro lo stesse facendo diventare daltonico? Alzò lo sguardo per detergere il sudore, notando solo ora le ultime modifiche architetturali dell'edificio. Sembrava davvero crollato, pieno di massi e macerie, devastato dall'onda d'urto di qualcosa di mostruoso. Seguitò a sorridere, mentre qualcuno tossiva alle sue spalle. Era davvero particolare assistere all'evoluzione della tecnologia. Il risultato di quella ristrutturazione era così pressante, che quasi credeva di essere davvero l'ultimo esponente di una razza estinta. Scosse il capo, il reattore si produsse in una bassa vibrazione, esattamente come aveva previsto. Doveva caricare gli ioni bipolari e permettere la scissione dei protoni lungo l'asse circuitale. Annuì, soddisfatto. Ma qualcuno dovette interromperlo bruscamente. Una voce densa, gravata dal peso degli anni risuonò spezzando l'idillico silenzio. Quando abbassò lo sguardo, il cadavere dell'anziano dottore ai suoi piedi ricambiò l'occhiata. Il duo oculare era spettrale, completamente nero, un abisso senza fine che avrebbe rischiato di inghiottirlo. E nella polvere che pareva averlo ricoperto per decine di anni, una scia scura, come di trucco sbavato, si dipanava grottesca dagli occhi, scendendo sulle guance, macchiando quel volto grigio, vecchio, consumato.

«Devi permetterci di riprodurre il tuo prototipo in serie. Ne va della specie umana, fratello mio. Mi fido di te.»

Lo scrutò con disprezzo.

«E concedere a migliaia di persone di godere della mia sensazionale scoperta? Non prendermi in giro, non c'è nessun meteorite che minaccia la Terra. E poi, anche se fosse, ci sono miriadi di soluzioni alternative. Con questa posso diventare ricco!»

Il cadavere del dottore, in quel mare grigio, non rispose, limitandosi a tenere i suoi occhi carichi d'accusa nei suoi, che dovette distogliere lo sguardo deglutendo, aggrottando la fronte.

Odio. Incomprensione. Apatia. Accusa.

Ma lui NON ERA il colpevole. Lo erano quei bastardi che volevano lucrare sul suo progetto! Lui non aveva deciso della venuta del meteorite.

"Non ci sono alternative. Lo sai bene. Sei la nostra unica speranza."

Il sorriso estatico mutò, vibrando un attimo, come indeciso se permanere su quel viso nascosto.

Adocchiò il meteorite, ormai un imponente corpo gigantesco indirizzato, senza esitazioni, verso quella sfera imprecisa che, ruotando, iniziava a mostrare ora il suo lato scuro. Luci si accendevano a milioni su quella superficie. Speranza?

Il Sole seguitava ad assistere indefesso a quello spettacolo da miliardi di anni. Il verde, l'azzurro, il rosso, sfumature sottili, maestose.

"Sono l'unico!"

Tornò a sorridere quel ghigno perverso che ne scavò il volto, gli occhi incavati, malati, sciupati, mentre assisteva leccandosi i denti allo spettacolo ultimo.

L'ultimo atto della vita umana sulla Terra.

L'ultimo atto dell'uomo.

L'impatto fu silenzioso, eppure poté leggervi tutta la furia di uno schianto senza pari. Si alzò in piedi, fluttuando nell'atmosfera rarefatta della Luna. La sua nuova casa. Era lui l'ultimo rimasto. Lui soltanto.

Ed era un privilegio!

Esultò, alzando le braccia all'immensità astrale. Una vibrazione raggiunse le orecchie coperte dal casco sferico.

Qualcuno tossiva alle sue spalle.

Si voltò, terrorizzato dall'idea di non aver calcolato tutto a dovere. Dinanzi a lui, le reliquie di un passato ormai perduto si fecero avanti, immobili. Bambini, uomini seduti ed il dottore. Stillavano la loro pesante accusa, lo condannavano ad un'esistenza obliata. Si accorse che stava tossendo. Cercava di dissimulare i sensi di colpa?

Guardandoli in volto uno ad uno, ascoltò il rumore della sicura pressurizzata del casco che si sganciava.

E fluttuò nell'immensità dell'universo, due sottili tracce scure che solcavano le guance grigie, come se avesse adagiato sulle palpebre del trucco scadente che ora andava sbavando.

   
 
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