Raccontare di me? Io che racconto di me? Potrei illustrarvi la mia vita
ma non sarebbe divertente. Dovreste vedermi per più di
trent’anni addormentato. Pessima battuta. Non sono capace di
fare battute io. Sono un tipo troppo serioso, forse, o come dicono i
miei amici, freddo e misterioso. E hanno ragione, ma lo sareste anche
voi, con un passato come il mio. Ero un Turks, un dannatissimo e
rispettato Turks. Avrei potuto essere il capo, io, ma no, Tseng mi ha
fregato il posto, accidenti a lui. Questo fu il primo scacco, ma quanto
mi divertivo con lui, Rude e Reno. Passavamo le serate a ubriacarci al
bar di Junon, quando non eravamo impegnati in missione, o quelle poche
volte fuori da Midgar. Poi ci fu il trasferimento a Nibelheim. Hojo
diceva di aver trovato il corpo di un’Ancient vecchio di
tremila anni in uno strato roccioso e ne voleva sperimentare i poteri,
l’aveva chiamato Jenova... che razza di nome, orribile ma che
si addiceva alle fattezze del corpo rinvenuto. Fatto è che
dovemmo trasferirci in quella maledetta città inerpicata
sulle montagne, in quanto gli esperimenti dovevano essere condotti
nella grande magione di ShinRa. Perché maledetta
città? Perché fu la mia rovina.
All’esperimento partecipavano altri due professori, un tizio
di nome Gast e... rimasi di sasso quando la vidi, così
bella, così giovane, così intelligente, tanto da
diventare una scienziata della ShinRa. Perché una bella
ragazza come quella si rinchiudeva in quattro mura a studiare DNA ed
eseguire esperimenti assurdi invece di godersi la vita? Questo fu
quello che le dissi circa un mese dopo averla incontrata. In
quel mese mi ero limitato ad osservarla da lontano, intimidito dal suo
sguardo. Com’era possibile? Il grande Vincent Valentine, il
pezzo di ghiaccio e l’anima nera dei Turks, che annaspava di
fronte a una ragazza? Non riuscivo a capacitarmene, era amore forse?
No, impossibile, io non potevo provare un sentimento di cui mi
vergognavo. Cuore, amore, innamorati, parole mai uscite dalla mia
bocca, eppure, ora sempre nella mia testa. Provavo amore per Lucrecia,
che bel nome, l’avrei sposata se non fosse stata promessa ad
Hojo, bastardo! Ma quando scoprii che anche lei mi ricambiava,
nonostante il promesso sposo, non mi trattenei più. Dio solo
sa quante notti abbiamo trascorso insieme all’insaputa del
cornuto. Ma successe il fattaccio. A Hojo venne la splendida idea di
impiantare cellule di Jenova in un neonato, per vedere come si
sarebbero sviluppate nel tempo. Serviva una ragazza però, e
indovinate su chi cadde la scelta? Io sentii tutto, ma non potei fare
niente. La porta dei sotterranei era chiusa a chiave. Udivo gli strilli
disperati di Lucrecia e la risata di Hojo, e ancora urla di dolore e
insulti. Tutto finì così come era incominciato.
Riuscii ad aprire la porta, ma ormai non c’era più
niente da fare. Lucrecia giaceva su un lettino tipo quelli
dell’ospedale, circondata da aggeggi e macchinari che le
stavano impiantando le cellule del cadavere Jenova. Urlai di dolore, il
mio cuore si squarciò, l’urlo di una belva ferita.
L’unico amore della mia vita mi fu strappato via,
l’unica persona di cui mi importava avrebbe avuto un bambino
che non sarebbe stato mio. Quando vidi Hojo mi scagliai contro di lui
accecato dalla rabbia e fu così che non vidi la pistola
nascosta dietro la schiena. Un colpo, un’anima già
squarciata ridotta in mille pezzi. Non vidi più nulla, il
dolore mi fece svenire. Non sentii più nulla, non vidi gli
esperimenti genetici che Hojo eseguì su di me. Ormai mi
trovavo in un sonno profondo, da cui non potevo, non volevo svegliarmi.
Un sonno popolato da incubi terribili, urla, sangue, di tutto. Mi ci
abituai prendendola come fosse una punizione. Divenni ancora
più taciturno di prima, finché Cloud e i suoi
amici non mi vennero a svegliare. Mi raccontarono di Sephiroth, il
figlio di Lucrecia, della ShinRa, di Hojo, del loro piano per salvare
il mondo. Mi chiesero di unirmi a loro. Accettai solo perché
il mio desiderio di vendetta verso quello schizofrenico, assopito per
trenta lunghi anni, si era risvegliato. Mi aveva fatto soffrire e come,
per trenta lunghi anni mi sono sentito un mostro. Il mio aspetto
è quello di un vampiro. Ho il cuore di un bambino di dieci
anni, un rene artificiale e uno preso da un’altra cavia, il
mio braccio metallico sostituisce quello vero, tagliato per errore con
un laser, perfino gli organi sessuali non sono i miei. Giudicate voi.
Ma per un altro scherzo del destino non potei attuare il mio piano.
Hojo si era fatto fuori con le sue mani, e così la ShinRa.
Continuammo allora il nostro viaggio alla ricerca di Sephiroth. In
questo modo incappai nella caverna sott’acqua, dove incontrai
lo spettro di Lucrecia, tenuto in vita da Jenova. Quanto fui felice di
rivederla. Mi disse che poteva sentire telepaticamente suo figlio
grazie alle cellule di Jenova e mi chiese come stava. Come potevo dirle
che stavo andando a distruggerlo per sempre? Mi voltai con le lacrime
agli occhi e corsi fuori dalla caverna. Non volevo darle un
così grande dispiacere. Ora me ne pento. Quella fu
l’ultima volta che rividi il viso della mia amata. I miei
amici tentarono di consolarmi, inutile. Volevo farla finita col mio
passato e distruggere tutto ciò che poteva farmelo
ricordare. Sephiroth... lo ammazzammo e provai una perversa
felicità, ora che ero svuotato di tutto. Vi chiederete, che
fine ho fatto dopo aver ucciso l’ultimo baluardo di un tetro
passato? Semplice. Questi qui sono pensieri, pensieri che in questo
momento sto formulando all’interno della mia bara. Mi ci sono
nuovamente rinchiuso perché ormai non avevo più
nulla per cui vivere. Tranquilli, tra incubi e balle varie mi diverto,
passo il tempo. Bella o brutta che sia, questa è la mia
storia, la storia di un uomo che ha perso tutto in un secondo, la
storia di un derelitto costretto a dormire per
l’eternità un sonno affatto ristoratore, non la
chiamerò la storia di Vincent Valentine, perchè
Vincent Valentine non esiste più. Con un ultimo sospiro
chiudo gli occhi, entrando nel mio mondo. Non svegliatemi vi prego.