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Autore: Hypnotic Poison    10/10/2007    6 recensioni
Erano sei anni che poteva considerare la sua vita – quasi – normale. Anche se di cose ne erano cambiate parecchie. [...]
« Beh! Che c’è, non si salutano più gli amici da queste parti? »
« Cosa ci fai tu qui! »
[...]
« Stamattina… non è scattato nessun allarme, niente di niente, ma i computer si sono riaccesi automaticamente sui dati del progetto Mew. » [...]
« Ora voi parlate. E vi conviene dire tutta la verità. »

[ATTENZIONE: STORIA IN REVISIONE. Aggiornati al 04/02/2024: 1-18]
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ichigo Momomiya/Strawberry, Mint Aizawa/Mina, Nuovo Personaggio, Ryo Shirogane/Ryan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter Fourteen – ‘Cause you can be the beauty and I could be the monster

 

 
 
 
 
 
 
 
 
Per l’ennesima volta, Pharart si rigirò quel curioso aggeggio tra le mani. Sembrava legno, o forse qualche materiale sintetico creato dagli umani che lui non riusciva a identificare? Non era neanche più grande di un suo palmo, eppure l’aveva visto con certezza lanciare dardi precisi e potenti.
Con cautela, se lo portò vicino al viso, osservando il cuore in cima e quelle alucce blu; chi mai decorava la propria arma in quella maniera? Che efficacia aveva? C’era qualcosa di speciale o era solo scena?
Tentò poi di tirare le due code in fondo, ma l’arco azzurro rimase assolutamente fermo. Afferrò una delle sue frecce, così più rozze a confronto con l’ornato arnese, ma non ci fu verso di incastrarla, tantomeno di scoccarla.
L’unica spiegazione possibile è che quell’arma dipendesse esclusivamente dai poteri della ragazza ora chiusa nell’altra ala di quella enorme e vuota casa. Sperava solo che, con tutto quel trambusto che aveva combinato, Kert riuscisse effettivamente a capire cosa fossero i loro poteri.
« Fatto progressi? »
Rui gli porse una bottiglia di vetro colma d’acqua – accuratamente filtrata e analizzata dai loro sistemi, non poteva ancora credere che gli umani riuscissero a bere quella robaccia senza soccombere – e Pharart scosse la testa.
« Se lo uso io, è assolutamente inutile, » borbottò scontento, agitando l’arco di MewMinto come se fosse un giocattolo rotto, « Deve essere legato a lei esclusivamente. »
« Mmmhm, » il suo comandante annuì pensoso e si gettò sul divano con uno sbuffo, « In battaglia sembrava più grande. »
« Vero? È come se non si attivasse in mano altrui. Il che non mi è molto utile. »
Rui si passò stancamente una mano sul viso: « Questa idea mi sembra sempre più folle. »
Pharart lo guardò di sottecchi: « Espera? »
Gli arrivò in risposta solamente un’occhiataccia e un grugnito che gli ricordarono come, nonostante tutto, lui e Kert fossero decisamente fratelli.
 
 
 
 
La doccia era così bollente che probabilmente si sarebbe ustionato, infierendo ancora di più sulle cicatrici che gli costellavano la pelle, ma non gli importava: era l’unica maniera di attutire l’angoscia sorda che provava e che gli ottundeva la mente. Avevano passato tutta la giornata a setacciare Tokyo quartiere per quartiere, senza ottenere nessun tipo di risultato.
Minto sembrava sparita dalla faccia della Terra.
Digrignò i denti e diede un pugno alle piastrelle della parete, desiderando solo affogare sotto l’acqua.
Non sopportava più nessuno.
Non sopportava più i volti tesi, le espressioni preoccupate, gli occhi che lo scrutavano con apprensione e compassione.
Non sopportava averli sempre intorno, con i loro bisbigli, mugolii, le loro lacrime ormai secche.
Lei era sua, e lui l’aveva delusa. Non l’aveva protetta a dovere come le aveva promesso, e di nuovo…
S’impose di pensare che non sarebbe andata in quella maniera, non una seconda volta. Non avrebbe resistito, non doveva nemmeno palesare quell’eventualità.
La pelle sopra al cuore tirò con rinnovata decisione e lui la sfregò così forte da procurarsi un’escoriazione.
Non avrebbe permesso nemmeno a sé stesso di arrendersi o darsi per vinto.
Chiuse il getto d’acqua e uscì in una nuvola di vapore, non curandosi di asciugarsi i capelli e re-indossando i vestiti di quel giorno. Il chiacchiericcio del piano di sotto lo raggiunse subito e lui ringhiò sottovoce, virando per la camera da letto solo per trovarsi Taruto che gli sbarrava l’ingresso.
Kisshu, le mani nella tasca della felpa e il cappuccio tirato su, scrutò il fratello minore con astio, senza dire una parola finché non fu il più giovane a sospirare e cedere:
« Non ci possiamo anche preoccupare per te, sai? »
« Non ve l’ha chiesto nessuno. »
« Non è così che funziona. »
« Cos’è, ti sei trovato la ragazza e adesso sei un esperto delle relazioni sociali? » il verde schioccò la lingua con sarcasmo e lo oltrepassò senza risparmiargli una spallata, « Vi state concentrando sulle cose sbagliate. »
« Kisshu, » Taruto ruotò sul posto e lo guardò con sincera ansia, « Non credere che non sappia com’è andata l’ultima volta. »
Lui si raggelò sul posto, ma non si voltò: « Cosa mi stai dicendo? Che devo prepararmi al peggio? Che è tutto inutile? »
« Assolutamente no. Ma i tuoi colpi di testa non hanno mai - »
« Senti, vaffanculo, » Kisshu si girò di scatto per ringhiare rabbioso, « Se avessero portato via Purin, sarei in giro con te a cercarla, non a farti la predica. »
Taruto fece un passo avanti, quel che bastava per far valere quei pochi millimetri di cui lo superava: « E sono disposto a stare di nuovo fuori tutta la notte, se è quello che vuoi, ma ti sto dicendo di non perdere la calma. »
Kisshu fece schioccare la lingua: « Sei solo un moccioso del cazzo, » sibilò con cattiveria, « E non ne sai un cazzo, nessuno di voi sa un cazzo di cosa voglia dire. »
« So cosa vuol dire perdere un fratello. »
Il più giovane non seppe se fu più shock al commento o improvvisa realizzazione a sbiancare il viso del verde: in ogni caso, Taruto decise di non rimanere ad aspettarlo – o di risparmiarlo almeno un po’ – e fece dietrofront per tornare al piano di sotto.
Le altre ragazze avevano volti più stravolti della sera precedente, l’ansia e la stanchezza per quella giornata di futili ricerche che gravavano come dieci anni in più nei loro sguardi, ma persistevano nel creare un muro compatto e deciso contro Keiichiro e i suoi tentativi di convincerle a riposarsi tra mura più confortevoli.
« E se succedesse qualcosa proprio adesso? » stava contestando a gran voce Purin, arrotolandosi la punta della lunga coda bionda attorno al polso, « Proprio quando non ci siamo? Perderemmo del tempo, e… »
« Lo perdereste comunque, se non foste in condizionali ottimali, » la interruppe Pai, « Tra i vostri poteri e il nostro teletrasporto, riusciamo in ogni caso a radunarci in pochissimo tempo. E per essere efficaci, bisogna essersi riposati. Questo vale anche per te. »
Taruto guardò appena sopra la spalla, alla figura di Kisshu, poggiato svogliatamente contro la scala, che quindi si era deciso a unirsi a loro; il cappuccio ancora tirato sopra la testa, non diede nessun cenno di aver dato ascolto al maggiore dei tre.
« Come… come pensate di… ? »
« L’opzione migliore, a questo punto, » alla domanda abbozzata di Retasu, Shirogane sospirò, ignorando di proposito lo sguardo di Kisshu, « È aspettare che si facciano vivi loro. Non vuol dire che smetteremo di cercarla, » aggiunse veloce, udendo il pigolio smorzato di Purin, « Ma presumo che vogliano un… risultato dalle loro azioni. »
Fu Zakuro, questa volta, a digrignare i denti: « Se vuoi essere ottimista. »
Ichigo sussultò visibilmente al non detto di quella frase, ma l’americano scosse solo la testa: « Non ha senso continuare a disperdere energie preziose vagabondando per tutta Tokyo. I nostri sistemi non funzionano come vorremmo ma sono il metodo più efficace che abbiamo, voi dovete conservare le forze. »
« Ed essere pronte a tutto. »
Il sussurro ironico di Kisshu raggelò la stanza, e la mewlupo non si esimé dal lanciargli un’occhiataccia di castigo.
« Andate a casa nostra, » le invitò Shirogane con uno sguardo invitante verso la moglie, « C’è spazio per tutte, e sarete tutte insieme. Così da raggiungerci più in fretta. »
« Nel frattempo, io e Taruto studieremo una maniera per estendere le sue barriere anche alle vostre abitazioni, senza che lui debba essere necessariamente presente. Sappiamo che i nostri nemici possono trovarci, però sappiamo anche che è una protezione certa. Così da essere più sicuri. »
Retasu tremolò palesemente al pensiero ma tentò di annuire con convinzione: « In ogni caso, domattina torniamo. Riposatevi anche voi. »
« Vuoi venire con noi, nii-san? »
Purin sembrava al tempo stesso invecchiata e ringiovanita di cinque anni, e si rivolse a Kisshu con un filo di voce.
« Forse sarebbe il caso, » suggerì con forza Pai prima che lui potesse rispondere, « Per non lasciarle da sole. »
Una smorfia di pura rabbia trasformò il viso del verde, probabilmente in uno sforzo per non prendere a male parole il fratello a quel commento, e lui si limitò a ridacchiare in maniera derisoria prima di ritornare al piano di sopra senza aggiungere altro.
Il viola sospirò udibilmente e si scambiò solo uno sguardo con Taruto prima, e con Retasu poi.
« Lasciarlo stare forse è meglio… » sussurrò la Mew verde, seguendolo con gli occhioni blu pieni di preoccupazione, « Non è un’idea che mi piace, ma verrà lui quando ne avrà bisogno. »
Il più giovane degli Ikisatashi avrebbe avuto molto da ridire a quell’affermazione, ma decise che fosse un vaso di pandora da non aprire in quel momento. Gettò la testa all’indietro e sospirò, prima di allungare un palmo verso le ragazze: « Volete un passaggio? »
Zakuro si avvicinò dopo aver lanciato uno sguardo d’ammonimento ai ragazzi: « Cercate di non peggiorare la situazione. E gradiremmo aggiornamenti puntuali. »
Pai la guardò di sbieco, sentendosi francamente scimmiottato, ma decise di tenere chiusa la bocca e si limitò ad annuire, guardandole tutte prima che svanissero in un soffio.
 
 
 
 
Il rombo del suo stomaco la ferì molto più che le membra intirizzite, riempendola di vergogna: il suo corpo non stava collaborando. Nonostante tutti i mantra che si stava ripetendo di non cedere, di non dare ai suoi nemici nessuna soddisfazione, poteva fare ben poco contro le più basilari necessità, come quella di mettere qualcosa sotto i denti dopo più di ventiquattro ore.
O almeno pensava fossero passate più di ventiquattro ore. Aveva completamente perso l’orientamento, la sua stanza sempre avvolta dalla penombra pesante, e tutta la sua concentrazione era dedicata a non addormentarsi.
Perché non voleva rivedere ciò che aveva visto prima. Non voleva provare di nuovo quella orribile sensazione di ghiaccio sulle membra, di una nebbia ancora più densa che le stringeva la trachea e le bruciava lo stomaco.
Non voleva che di nuovo un suo ricordo si trasformasse nella realizzazione di uno dei suoi incubi peggiori.
Rabbrividì del freddo per l’ennesima volta e scosse la testa: era conscia della sua famosa caparbietà, ma poteva fare ben poco contro la stanchezza, la fame, la sete, il martellare incessante alle tempie dato forse da ciò che stavano combinando con la sua testa e da tutti i fattori della situazione.
Perché lo sapeva che in una qualche maniera loro dovevano centrarci.
Respirò e si impose di ignorare l’angoscia che ancora le fece rimpicciolire il cuore: perché le ragazze non erano ancora arrivate? Perché il suo trasmettitore continuava a rimanere muto, senza nemmeno un pigolio di Masha?
Era certa che stessero facendo tutto il possibile, eppure ogni minuto che passava la rendeva più e più nervosa.
Se nemmeno gli strumenti degli Ikisatashi riuscivano a superare chissà quale congegno geota…
Se nemmeno Kisshu…
Affondò la fronte contro le ginocchia e sibilò tra i denti.
La prima cosa che avrebbe fatto, quando (mise un pesante accento sulla parola) sarebbe uscita da lì, sarebbe stato stringerlo a sé per inalarne l’odore che ormai significava casa.
La seconda cosa che avrebbe fatto sarebbe stata prenderlo a cazzotti per averle nascosto tutta la storia dei loro nemici e indirettamente ritardare qualsiasi preparazione che le Mew Mew avrebbero potuto affrontare.
Perché se gliel’avesse detto, se l’avesse almeno accennato, forse lei non si sarebbe ritrovata in quella situazione. Forse sarebbe stata più preparata, più in forma, più a suo agio con i poteri ritrovati e la mobilità delle sue piume.
Forse almeno sarebbe riuscita ad assestare un calcio come si doveva là dove non batteva il sole a quel maledetto del suo rapitore.
Capiva, certo, che c’era una catena di comando e strani funzionamenti militari di mondi letteralmente alieni – ma non condivideva assolutamente il ragionamento.
Se davvero non aveva mai voluto metterla in pericolo volontariamente, come le aveva detto…
Fletté le dita intirizzite dentro ai guanti: non aveva senso ora prendersela con Kisshu, non avrebbe certo cambiato le sue sorti. Sperò solo che non stesse perdendo la speranza, che non stesse facendo qualche stupidaggine troppo azzardata e rischiosa come suo solito. Sperò che la onee-sama – ah, la onee-sama, doveva star morendo di preoccupazione, e con lei Ichigo e la sua esagerazione… – lo stesse tenendo sotto controllo.
Non riusciva a percepire nemmeno un rumore, si domandò se i geoti fossero almeno in quella specie di casa, pregò che non avessero attaccato le ragazze mentre lei era lì, i due fronti ancora più squilibrati del solito…
Il suo corpo tremò un’altra volta e lei si rannicchiò il più possibile su se stessa, tentando di respirare a pieni polmoni. Si era ripetuta così spesso di non perdere la testa che temeva l’avrebbe persa lo stesso per quello sforzo.
Un soffio più gelido le sibilò vicino all’orecchio e lei strinse di più le palpebre.
Non perdere la testa.
Tranquilla.
Tranquilla.
Respira.
Non è…
 
 
 
 
« Minto cara, non c’è bisogno di infervorarsi. Lo sai che non è particolarmente elegante mostrare tutte queste emozioni. Perdere la testa è per le isteriche. Non vuoi certo passare per isterica. »
La complessa acconciatura di sua madre spuntava appena dal collo di pelliccia che si stava aggiustando con attenzione allo specchio dell’ingresso.
Minto sbatté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime di stizza: « È la prima de Lo Schiaccianoci. Mi avevate promesso che – »
« Oh, tesoro, ma ormai l’abbiamo visto così tante volte, » rovistò nella borsetta alla ricerca della perfetta sfumatura di rosso con cui dipingersi le labbra, « Non è la fine del mondo se lo saltiamo, quest’anno. »
La mora si conficcò le unghie nei palmi, cercando di non rendere evidente il respiro che prese: « Non avete visto nemmeno uno spettacolo, quest’anno. »
Sua madre roteò gli occhi in maniera evidente: « Su, cara, non fare la bambina. Io e tuo padre siamo impegnati, anche la nostra vita sociale fa parte dei doveri per continuare il successo del nostro marchio. Devi capire che tra un invito del sindaco per l’opera e un tuo spettacolino, c’è una scelta ottimale che dobbiamo prendere; non possiamo certo passare tutta la nostra vita a teatro. E stasera, la cena per la Fondazione Hanagyara è fondamentale. Lo facciamo anche per te, sai. E forse ad un certo punto sarebbe il caso che tu iniziassi a unirti a noi. Suo fratello fa la sua parte per questa famiglia. »
« Mio fratello ci lavora. Il mio lavoro è – »
« Quale lavoro? » la risatina sarcastica la ferì più di tutte le parole, mentre la vena sulla fronte della signora Aizawa si faceva più prominente, « Questo non è un lavoro, mia cara. Questo è poco più di un hobby portato all’estremo. »
« Sono appena tornata da sei mesi come ospite all’Opéra di Parigi, » replicò lei, « Cosa dovrei fare, diventare una statuina da portare al braccio? In attesa del partito migliore a cui essere passata? »
« Nessuno ti sta dicendo che devi smettere, » gli occhi ,dello stesso colore dei suoi ma al contempo così diversi, si posarono di nuovo sul riflesso nello specchio, « Ma semplicemente di mettere le cose in prospettiva. Puoi continuare a ballare nel tempo libero, e intanto portare il tuo contributo. Non puoi pensare certo di fare la ballerina per sempre, non sei più una bambina. È tempo di crescere. »
Minto esalò piano tra i denti. Non capivano, nessuno di loro capiva. Non riuscivano nemmeno a riconoscere un brivido del suo talento, della sua dedizione, del suo amore.
« Anche tuo fratello è d’accordo con noi. Non credi si senta un po’ in svantaggio, lui, così sempre dedito al nostro nome e successo? »
Il cuore le si scheggiò con un rumore immancabile.
Non era possibile, non Seiji, lui… lui non si perdeva neanche uno spettacolo, quando era a Tokyo, lui si ricordava sempre di mandarle un messaggio di buona fortuna, dei fiori in camerino, lui…
« Sicuramente avrebbe piacere di ricevere il tuo supporto in determinate occasioni, visto quanto supporto dona a te. »
Minto scosse la testa, ma aveva la bocca troppo secca per poter replicare qualcosa di utile. Notò la figura del padre scendere dallo scalone principale e avvicinarsi alla moglie quasi senza prestare attenzione a lei, troppo impegnato a litigare con il costoso cinturino dell’orologio.
« Non vorrai certo attardarti, cara. »
« Assolutamente no, stavo solo facendo quattro chiacchiere con Minto. Diglielo anche tu, caro, che non è più il momento di fare capricci. »
« Non abbiamo nemmeno il tempo di pensarci, ad eventuali capricci. Seiji è già arrivato? »
Minto non poté evitare il sussulto: suo fratello… non le aveva detto che sarebbe tornato a casa, le aveva scritto dicendole che era rimasto bloccato in Indonesia per lavoro, che per quello non avrebbe partecipato…
« Sì, caro, è già alla Fondazione. A quanto pare la signorina Okamura è molto amichevole nei suoi confronti. »
La risata profonda di suo padre la infastidì più del solito: « Ora capisco l’ardore di tornare a Tokyo ogni settimana. »
Un’ennesima scheggia nel suo cuore: lei non lo vedeva da quasi tre mesi, se invece era stato in città tutto quel tempo…
« Minto, tu cos’hai intenzione di fare stasera? »
Glielo chiese con quel tono indagatorio che preannunciava che qualsiasi risposta non sarebbe stata soddisfacente; lei, che si stava sentendo più come un soprammobile che altro, prese un respiro profondo e dischiuse le labbra secche per parlare, ma sua madre fu più veloce e si lagnò decisa:
« Minto si è offesa perché stasera ha l’ennesimo suo spettacolino e non andremo a vederla, » si riaggiustò un invisibile capello e ridacchiò, « Quanti problemi che ha la nostra principessina, non credi? »
« Io te l’avevo detto di non accontentarla troppo, » il padre s’infilò il cappotto e nemmeno la guardò, parlando di lei come se non fosse lì, « E poi seriamente, quel calpestare pesante in giro per il palco mi fa venire l’emicrania. Meno lo vedo, meglio sto. »
Almeno su una cosa era d’accordo con i suoi genitori.
Rimase ferma immobile, mentre loro continuavano con le loro chiacchiere insipide e fredde, senza degnarla più di attenzione. Il vento gelido di dicembre spazzò della neve dentro l’uscio quando i camerieri aprirono l’importante portone d’ingresso per farli uscire, la limousine già calda e confortevole alla fine delle scale.
Minto portò con sé il gelo per il resto della serata.
 
 
 
 
Tokyo non era mai davvero buia.
Forse era la cosa che più lo infastidiva di tutta quella città: la mancanza di un angolo remoto di quiete dove ritirarsi, da solo con i suoi pensieri, per alzare il naso al cielo e contemplare l’infinito. Cercare casa tra le stelle e ricordarsi perché avesse fatto la scelta giusta. Disconnettere occhi e cervello dai milioni di stimoli e riempire i polmoni di aria.
Forse avrebbe dovuto rintanarsi sul monte Fuji.
Appollaiato sul balcone di casa Shirogane, Kisshu lasciò che il vento freddo di fine settembre gli scompigliasse i capelli ancora umidi. Aveva seguito le ragazze solo perché non poteva sopportare di rimanere al Caffè con i suoi fratelli e i loro tentativi – tutti a modo loro – di sostenerlo; le paladine della giustizia, almeno, avevano la decenza di lasciarlo stare, la maggior parte del tempo.
Sbatté le palpebre secche contro quelle miriadi di lucine che sembravano volergli perforare la cornea e continuò a giocherellare con il contenuto delle sue tasche. Quando ne aveva caricata una scorta, in astronave, non aveva davvero creduto che gli sarebbero servite, ma aveva ceduto a quella vocetta malefica nel retro della sua mente.
Non che avesse mai creduto che sarebbe arrivato fino a quel punto, eppure…
Udì il sibilo della porta finestra che scorreva liscia e poi dei passi leggeri che lo raggiungevano in silenzio.
« Anche tu come tuo fratello millanti di non sentire freddo? »
Zakuro gli si rivolse con un briciolo di ironia che lui si stupì accettare di buon grado, così come gradì la tazza di brodo bollente che gli porse.
« Non ho mai detto che non lo sento, solo che ho una tolleranza diversa. »
« Mmhm, » la mewlupo gli si affiancò ma continuò a guardare dritta davanti a sé, i capelli raccolti in uno chignon disordinato l’unica cosa che tradiva l’assurdità di quelle giornate, « Certe cose invece le tolleriamo alla stessa maniera, benché con reazioni diverse. »
Kisshu scrutò per un istante il profilo del suo viso, l’ombra più scura intorno agli occhi: « Stai per farmi una ramanzina anche tu? »
« Non è nella mia natura, » replicò lei stringendosi nelle spalle, disegnando con un dito il contorno della propria tazza, « Ma Minto si arrabbierebbe se sapesse che ti ho lasciato perdere. »
Lui fece schioccare la lingua in uno sbuffo divertito, prima di prendere un sorso e lasciare che il liquido bollente gli rinvigorisse le vene.
« Sono fortunati se non ha già rivoltato mezzo posto. Ovunque siano. »
Zakuro piegò appena le labbra: « Forse qualche anno fa mi sarei presa per folle, e forse è troppo facile attribuire tutto il merito al DNA del lupo grigio, ma credo anche che… sentirei, se le fosse successo qualcosa. »
Le dita ancora nascoste nella tasca si contrassero da sole attorno al contenuto, unite alla mandibola di lui.
« Vorrei solo sapere che sta bene. Sentirlo detto da lei. E farle sapere che non l’abbiamo abbandonata. »
« Sa benissimo che non l’abbandoneremmo mai. »
« Più il tempo passa, meno ne sono convinto anch’io. »
Le iridi indaco della ragazza lo trapassarono di rabbia: « È quando dici cose del genere, Kisshu, che mi viene da dubitare davvero da che parte tu stia. »
Lui fu attraversato da un brivido di collera e rimorso: « Dalla parte che mi permette di non dover più perdere la donna che amo. Questa volta non… »
Zakuro tacque qualche istante, ritornando a fissare la notte che scendeva.
« Nessuno di noi ha intenzione di lasciar perdere. E collaborare è l’unica maniera che abbiamo di salvarla. Siete tornati qui per questo d’altro canto, no? »
Kisshu le lanciò un’occhiata di sbieco mentre tracannava l’ultima goccia di brodo: « Vuoi riaprire anche quel discorso, ora? »
« No, voglio sapere con cosa continui a cincischiare in tasca. »
A lui venne spontaneamente da ridere: « Tu e mio fratello avete parlato molto di più di quanto pensassi. »
« Cambiare discorso con me non funziona. »
« Neanche con Minto, » l’alieno si arruffò il ciuffo di capelli e finalmente estrasse la mano dalla felpa, rivolgendole il palmo, « Probabilmente Pai ha esagerato la descrizione degli eventi. La sua ortodossia estrema lo rende poco indulgente. »
Zakuro studiò le palline quasi gelatinose contenute in una scatolina trasparente, all’apparenza nulla di più che normali caramelle.
« Non ho intenzione di prenderle, » continuò a voce bassa, « Ma… averle con me mi calma. E mi ricorda che non ne ho bisogno. »
La modella le studiò ancora qualche secondo, prima che i suoi occhi bruciassero quelli dorati: « Ce ne sono sei. Non costringermi a doverle ricontare. »
Kisshu abbozzò un ghigno acido e rimise la scatola in tasca: « Signorsì, signora. »
Zakuro annuì, poi si lasciò andare a un lungo sospiro e si voltò per tornare dentro, la temperatura ormai poco gradevole, concedendogli un sorriso: « Torna dentro tra un po’. Col raffreddore saresti ancora più insopportabile del solito. »
 
 
 
 
Espera prese il millesimo respiro profondo e si tamponò la fronte sudata con il dorso della mano. Il vapore della pentola le stava appiccicando la frangetta alla pelle e lei passava dal caldo al freddo, ma doveva terminare quel siero antinausea il prima possibile. La sua scorta personale si era ridotta drasticamente in poco tempo, e se non fosse riuscita a tenere a bada il suo stomaco non avrebbe nemmeno avuto successo a ricreare tutte le altre miscele di cui avevano bisogno.
Non conoscendo l’ambiente terrestre o le sue caratteristiche microbiologiche, si stava preparando a qualsiasi malanno che potesse coglierli, innervosita dal fatto che doveva lavorare alla cieca e sperando di poter essere efficace; in più, solo le stelle sapevano di quanti litri di preparato per la cefalea necessitasse Zaur, rendeva le sue esigenze quasi inesistenti.
E con il loro ospite inatteso e tutti gli sforzi extra che stavano compiendo…
Si rigirò una ciocca tra le dita più per calmare quel temporaneo tremolio alla mano sinistra che per altro, e con la destra rigirò di nuovo la mistura.
Da quanto era arrivata sulla Terra il senso di pesantezza alla testa sembrava aumentare ogni giorno di più. Probabilmente le si erano anche incurvate le spalle, a causa di tutto quanto le gravava addosso.
E poi se non fosse nemmeno riuscita a raggiungere l’obiettivo per cui era arrivata fino a lì…
Corrugò appena la fronte e diede un altro giro, osservando il colore e la consistenza dentro la pentola per controllare quanto mancasse. Vi si sarebbe lanciata dentro, se avesse potuto.
Se su Gaia la sua empatia era un raro potere che le provocava piccoli fastidi, facilmente controllabile grazie a trucchi, abitudine e tecnologie avanzate, sulla Terra le pareva una tortura. Più forte, più intenso, totalmente fuori dalle sue mani. Riusciva a malapena a sopravvivere a una giornata come si confaceva, a tenersi in piedi mentre si lavava, a non schiantare la faccia nel piatto ad ogni pasto.
Pharart se la sarebbe presa a morte se si fosse davvero addormentata davanti alla sua cucina.
Un formicolio le prese la spalla sinistra e lei la mosse un paio di volte; stava capitando sempre più spesso, e la disturbava più perché era l’ennesimo inghippo che per un vero e proprio fastidio fisico.
Almeno era meglio della lotta che stava compiendosi nelle sue viscere.
Continuando a fissare il colore ambrato scuro del preparato, allungò una mano verso il piattino accanto a sé e sbocconcellò del pane: non aveva fame, ma la loro ospite sì, e i suoi sensi si stavano affaticando troppo e distinguevano a malapena chi provasse cosa.
Se fosse sopravvissuta a questa avventura, avrebbe migliorato il suo gancio sinistro solo per dedicarlo a Kert alla prima occasione utile.
Un brulichio alla gola le fece capire che avevano ricominciato, quel giochetto che lei non poteva non detestare, temere, guardare con estremo disappunto; si mosse sullo sgabello, poggiandovi sopra anche il tallone per riposare il mento sul ginocchio, e si concentrò sulle sue preparazioni. Un rivolo di sudore freddo le corse lungo la nuca e lei esalò, scostandosi i capelli dal viso e dalla schiena. Il suo cuore batté forte contro le tempie e lei s’impose di ignorarlo.
Famefreddopaurarabbiadolorenostalgiafamefreddopaurarabbiadolorenostalgiafamefreddopaurarabbiadolorenostalgiafamefreddopaurarabbiadolorenostalgiafamefreddopaurarabbiadolorenostalgia…
Un bagliore dorato le attraversò il campo visivo e lei scosse la testa, canticchiando tra sé e sé una ninna nanna di quando era bambina per distrarsi, mentre il respiro le si faceva più pesante e tutto il suo corpo in contrasto si scaldava. La presa sul mestolo di metallo si fece più incerta e il tremolio delle dita più forte, tossicchiò e canticchiò più decisa.
Avrebbe dovuto dire a Zaur di piantarla, che non ne valeva la pena, ma sapeva che Rui si sarebbe innervosito ancora di più, che Kert avrebbe sicuramente condiviso un commento imbecille e da lì sarebbe nata l’ennesima litigata e poi…
Non terminò quell’ultimo pensiero, perché il respiro le si mozzò in gola e l’ultima cosa che vide fu un lampo nero prima di crollare a terra.
 
 
 
 
« Guarda che non me lo sono dimenticata. »
« E quando mai. Ma dovresti essere un po’ più specifica. »
«… quello a cui hai accennato ieri sera. » (*)
Kisshu ridacchiò e le diede un buffetto monello sulla punta del naso: « Vuoi dire che non ti ho fatto dimenticare tutto il resto con il mio… ardore? »
Minto arrossì e al tempo stesso mise su un cipiglio decisamente arrabbiato: « Kisshu. Se vuoi fare questa cosa serve… comunicazione. »
« Da. Che. Pulpito. Tortorella. »
Lui rise ancora e intrecciò le loro dita, portandosela più vicina mentre continuavano a camminare per le strade ancora coperte dalla neve, ben conscio che anche solo quel gesto le arruffasse le piume e trovandola ancora più adorabile proprio per quello.
« Mi stai facendo rimpiangere di averti detto di sì. »
« Bugiarda, » la prese in giro, « E ti ho anche offerto la colazione, non vedo cosa tu possa volere di più. »
Lei alzò gli occhi al cielo e si affrettò verso il cancello sul retro di Villa Aizawa, già desiderosa del calore del caminetto del suo salottino preferito.
« Io ti ho raccontato dei miei genitori. »
Kisshu emise un suono simile a un muggito esasperato mentre cacciava la testa all’indietro e quasi si faceva trascinare in cortile: « Non molli proprio la pezza, eh? »
« Non saresti qui ora, se fossi il tipo che molla la pezza. »
L’occhiatina divertita ed evocativa che gli rivolse da sopra la spalla fu abbastanza per riaccendergli un certo pizzicore al basso ventre, ma decise solo di seguirla dentro casa senza tirare troppo la corda.
Mancando la quasi totalità della famiglia Aizawa, Minto aveva concesso a gran parte dei domestici una giornata di riposo, così la villa era ancora più silenziosa e deserta del solito; non che a lui dispiacesse, anzi, era grato per tutte le occasioni di non dover sgattaiolare come un ladro attraverso i corridoi evitando l’attenzione di chiunque. Sapeva ovviamente che per la ragazza non era lo stesso, ma sapeva anche che parte di lei era felice di poter davvero essere sé stessa, senza nessuna intrusione esterna.
Sapeva anche che era molto difficile da dissuadere e che non si sarebbe concentrata su altro fino all’ottenimento del risultato sperato, quindi, Kisshu prese solo un respiro profondo quando varcò la soglia della sua camera da letto, il giubbotto che lo precedette con un volo preciso fino al divano.
« Dunque… dopo la sconfitta di Deep Blue, voi cos’avete fatto? »
Minto si strinse nelle spalle, mentre si toglieva con calma la sciarpa e al contempo recuperava il giaccone di lui per riporlo nell’armadio: « Abbiamo cercato di riprendere in mano la nostra vita, immagino. Ricominciare. »
Kisshu annuì e alzò solo un sopracciglio: « Ma nel più completo anonimato. Tutti conoscevano le Mew Mew, ma nessuno sapeva davvero chi fossero. »
La mora attese, facendo sbucare la testa per incalzarlo con lo sguardo a continuare, e l’alieno poggiò una spalla contro la porta mentre si passava una mano tra i capelli, fissando il tappeto morbido.
« Duuar era perfettamente conscia di chi fossimo, da dove venissimo, dove abitassimo, cosa fossimo venuti a fare e come invece siamo tornati. »
Il tono gelido della sua voce non nascose la punta di dolore con cui parlò.
« E, più di tutti, su cosa avessimo davvero fatto. »
Minto tentennò, tentata ad avvicinarglisi, ma Kisshu stava scrutando il pavimento con uno sguardo talmente vuoto e lontano che i suoi piedi non si mossero.
« Non importava quante volte raccontassimo come si fossero svolti i fatti. Che ci fossero registrazioni, prove, che le nostre versioni non cambiassero mai di una virgola. Che avessi una cicatrice larga quanto un palmo a dimostrare tutto. Chi non ha voluto crederci non è mai stato piacevole nei nostri confronti. »
Finalmente alzò gli occhi per sbuffare ironico e staccarsi dal muro, favorendo invece di accasciarsi sul divanetto con uno sbuffo.
« Appena tornati siamo stati affidati al Comando Generale. Per “nostra protezione”, cercarono di vendercelo all’inizio. Non che fosse del tutto sbagliato, i sostenitori di Deep Blue più accesi ci avrebbero linciati volentieri. »
Minto non poté evitare di trasalire, grata che in quel momento il ragazzo le stesse dando le spalle, solo la sua nuca visibile mentre si affossava di più nel divano e si strofinava a disagio la clavicola sinistra.
« Peccato che anche gli alti ranghi del Comando Generale fossero pieni di sostenitori. Certo, nessuno di loro in grado di vendicarsi fisicamente, sarebbe stato troppo evidente, ma ciò non significa che non ci sia stato procurato altro. »
Fece schioccare la lingua e poi scosse la testa, parlando con un astio vecchio di anni: « Non hanno nemmeno lasciato in pace la tomba dei nostri genitori. Taruto ha pianto quando l’ha vista imbrattata di epiteti poco carini nei nostri confronti. Pai ha dovuto trattenermi dall’andare a dire altrettanto ai colpevoli – o chi più facilmente individuabile, ecco – facendo presa sull’evitare di rendere la situazione peggiore. Non che a me importasse poi troppo, mi sembrava di aver già perso il perdibile. »
Di nuovo, la mora percepì un terribile gelo risalirle dallo stomaco, ma si sforzò di deglutirlo e si avvicinò al sofà, poggiandosi sul bracciolo opposto a quello di lui, sempre senza dire una parola. La voglia di chiamare una delle poche cameriere rimaste per farsi portare del tè le era svanita come neve al Sole.
« Ci hanno accusato di molte cose e sì, forse era vero che avevamo tradito il nostro Signore. A essere effettivi, era andata direttamente così. Non so neanche cos’avrebbero fatto se avessero scoperto che il catalizzatore di tutto era stata… eravate state voi, » Kisshu si scosse di nuovo i capelli e continuò a fissare il vuoto, « Ma ciò che più faceva male era sentirci dire che l’avevamo fatto per notorietà.
« Non era la fama, quella che cercavamo. Non era l’essere l’eroe della patria, inseguito ovunque da bisbigli e commentini. Io non ero morto per quello, i miei fratelli non erano morti per quello. Noi avevamo fatto tutto per un sogno, alla fine. Il sogno di un mondo migliore. Avevamo solo capito troppo tardi quale strada percorrere. »
Rise amaramente sarcastico e finalmente lanciò un’occhiata alla ragazza, compiendo un ultimo movimento di spalle.
« Per farla breve, c’è voluto un po’ per ripulire la nostra reputazione. Abbiamo avuto la fortuna di trovare gente competente nel Comando Generale, che forse tutta questa ammirazione per Deep Blue non l’aveva mai avuta e che ha visto subito la potenza della MewAqua. Ci hanno promossi di grado, ci hanno regalato una bella casetta un po’ defilata, e poi alla fine ci hanno accordato di tornare qua. Il resto lo sai. »
La mora annuì lentamente: « Per misurare gli effetti della MewAqua(**). »
Kisshu giocherellò con l’orlo della coperta piegata con cura sul bracciolo: « E forse anche per scappare un po’. Una soluzione più drastica rispetto ad altri metodi alla fine controproducenti. »
Minto si accigliò ma esitò a domandare, incerta su cos’altro avrebbe potuto rivelare quella conversazione così surreale; non poteva evitare di darsi della stupida, come non aveva mai potuto pensare a quali conseguenze avevano dovuto affrontare i tre alieni?
« Nel senso che… ? »
« Nel senso che posso anche dirtelo, tortorella, ma ogni volta poi finiamo a bisticciare. »
Lui rise senza la traccia di divertimento e Minto raddrizzò un po’ di più la schiena, il cuore che le palpitò bruciante contro al petto.
« È… ancora così? »
Kisshu le rivolse un’occhiata stanca e le afferrò lentamente il polso: « Minto. Come se non ne avessimo parlato almeno ventisette volte. »
Lei si strinse nelle spalle e si lasciò guidare sul cuscino: « Tutte queste altre cose non le sapevo. Magari ora ha… più senso. »
« Non sei brava a dire le bugie. »
« Non sto dicendo una bugia. Sto provando a capire. »
« D’accordo, » lui ghignò e si fece più vicino, « No, comunque. E te l’ho detto anche ieri sera. »
Minto avvertì un piacevole sfarfallio al ricordo della sera precedente che s’impose di ignorare, anche perché la fece sentire in colpa per le sue sciocche priorità.
« Anche per noi non è stato del tutto facile, comunque. Non a livelli comparabili a voi, ovvio, è vero quello che dici sul nostro anonimato. Ma abbiamo avuto molto a cui pensare, ecco. »
« Mmhm, » Kisshu si sfregò gli occhi in maniera stanca, « Il problema è proprio smettere di pensare, una volta che hai iniziato. »
« Metodi controproducenti? »
Lui sbuffò e scostò lo sguardo, rivolgendolo di nuovo alla coperta: « Quando Duuar era ancora un pezzo di ghiaccio che galleggiava nello spazio, per rafforzare di più le truppe che andavano in avanscoperta alla ricerca di uno straccio di speranza, si era inventati questi… integratori. Alcuni erano fatti per tirarti su, altri per mascherare le vere sensazioni che percepivi, altri ancora per rilassarti. A volte potevano essere incoraggiati un po’ troppo. »
La mora si lasciò sfuggire una smorfia indefinita di cui si pentì amaramente: « Kisshu… »
« Non giudicarmi, tortorella. Quello con lo squarcio nel petto, letterale e metaforico, ero io. E in ogni modo, li prendevo soprattutto per dormire, o per dimenticarmi un paio d’ore di dove fossi o di cosa stesse succedendo. Pai, poi, mi ha già rotto oltremodo il cazzo a riguardo. »
Di nuovo le scappò un’occhiataccia, questa volta per il linguaggio, però scelse di non commentare oltre, avvertendo il disagio del ragazzo. Lui le stava ancora stringendo il braccio e fece scorrere il pollice lungo la pelle candida del polso, dove percepiva il battito del suo cuore.
« Per fortuna che ora ci sei tu. »
Minto s’impose di ignorare il calore alle guance in favore di un più composto alzare gli occhi al cielo: « In senso buono, spero. »
La presa di lui si fece un po’ più forte: « Dipende dai punti di vista. »
 
 
 
 
« Espera! Espera! »
Tra le braccia di Rui, il capo riverso all’indietro, la ragazza emise solo un roco rantolo dalla gola. Era pallida come un cencio, la fronte imperlata di sudore ma la pelle gelida nonostante il calore della stanza.
Il suo compagno masticò tra i denti una maledizione e le scostò i capelli dal viso: avrebbe voluto tirarla su dal pavimento freddo, ma temeva il doverla spostare, con il tonfo che aveva fatto cadendo dallo sgabello e il fatto che era praticamente priva di conoscenza.
« Amarya(***), svegliati, per favore, » la scosse piano, cercando di destarla, ma lei continuò a rimanere molle, una sola profonda ruga tra le sopracciglia e gli occhi che si muovevano freneticamente dietro le palpebre chiuse.
« Che succede?! »
Pharart comparve preoccupato sulla porta, inginocchiandosi subito di fianco al comandante con un’esclamazione di sorpresa.
« Si è fatta male!? »
« Non lo so, » Rui scosse la testa, « Ma credo che qualsiasi cosa mio fratello stia combinando, stia avendo più effetto su Espera che su quella terrestre. »
Il biondo si allungò verso il tavolo e ne afferrò un panno, con cui le tamponò le tempie madide.
« Sicuro che fosse questo ciò che si auspicava il Consiglio? »
Rui lo guardò storto: « Non sono neanche certo che – »
Non fece in tempo a finire la frase che Espera rantolò una seconda volta, il suo corpo iniziò a essere scosso da un tremito inarrestabile che quasi la fece sgusciare via dalla presa del compagno, e poi, con un ultimo ansito, vomitò il magro contenuto del suo stomaco.
 
 
 
 
« Kisshu, smettila. Non è divertente. »
Minto si alzò dal divano e vi girò attorno, improvvisamente scossa da un brivido freddo.
Lui rise e si aggiustò più comodo: « Ho solo detto la verità. »
Lei si artigliò gli avambracci: « Ieri sera hai detto una cosa diversa. »
Kisshu agitò la mano in aria, come a sottolineare la vaghezza di quella affermazione: « Tortorella, non dirmi che non hai mai infiocchettato un po’ le cose per ottenere quello che volevi. »
« Certo che no! »
« Sempre ineccepibile, eh? » l’alieno si alzò e la raggiunse nel tempo di un battito di ciglia, ghignando lascivo, « Ecco perché è piacevole farti arrabbiare. »
« No che non lo è, » ribatté lei, fece un passo indietro e cozzò piano la schiena contro al muro, « E se davvero la pensi così, allora… »
« Allora cosa? » Kisshu lo mormorò in tono cantilenante  e chiuse la distanza tra loro, facendo scorrere le dita lungo i fianchi di lei, « Dai, tortorella, ci stavamo divertendo, dopotutto. Non fare la guastafeste. »
« Te l’ho già detto, non sono qui per un divertimento momentaneo. »
L’alieno ridacchiò e si premette di più contro di lei, il naso che le sfiorò l’orecchio mentre la presa sulle sue anche si faceva più decisa: « Non dirmi che volevi la grande storia d’amore, principessina, » continuò a prenderla in giro con cattiveria a bassa voce, « Non potrebbe mai funzionare tra di noi, e lo sai benissimo. »
« Smettila, » Minto cercò senza successo di scrollarselo di dosso, due lacrime traditrici che le pungevano gli occhi, « Non è vero, e perché avresti aspettato… ? »
Kisshu le bloccò i polsi che tentavano di spingerlo via e glieli fermò sopra la testa, bloccandole il bacino con il proprio e rivolgendole un altro ghigno malizioso: « Ormai portarti a letto era una sfida con me stesso. Non potevo certo lasciare il lavoro fatto a metà, non credi? »
« Sei uno stron – »
« Sì, sì, sono uno stronzo, lo so. Lo dite sempre tutte, » lui ridacchiò e le tracciò la linea del collo con la punta del naso prima di mormorarle all’orecchio, « Ma non avete mai il coraggio di dirvi che alla fine è piaciuto anche a voi. Perché ti è piaciuto da morire, non è vero, tortorella? »
« Kisshu, smettila! » ripeté lei, odiando la nota implorante nella voce rotta, « Non è vero, quello che stai dicendo non è – »
« Come può non essere la verità? Te l’ho già detto, passerotto: a me serve solo dimenticare, non mi importa di altro. Ed è molto più piacevole con te che con un paio di sballi. Poi cosa pensi, » lui rise ancora e le strinse entrambi i polsi con una mano sola così che l’altra fosse libera di tornare ad accarezzarle lasciva il fianco,  « Che ci sia stata solo tu, in tutti questi mesi? »
 
 
 
 
Kert si affrettò lungo il corridoio, imprecando tra sé e sé: quella maledetta rompipalle di Espera trovava sempre la maniera di mettergli i bastoni tra le ruote. I trucchetti di Zaur stavano sicuramente avendo un effetto sulla sua gradita ospite, e in ogni caso la testardaggine che la portava a rifiutare cibo e acqua l’avrebbe sicuramente piegata – se lo sentiva che avrebbe potuto ottenere qualcosa da lei, un briciolo di informazioni per chiudere la questione il più in fretta possibile, ma no! La nobildonna stava male e per questo bisognava interrompere assolutamente tutto.
Arrivò davanti alla porta della stanza e tentennò: poteva udire la terrestre gemere e mormorare qualcosa che lui non capiva, con tono decisamente desolante. In quel momento, un brivido gli percorse la spina dorsale, e sperò di non dover mai affrontare direttamente i poteri di Zaur mentre quasi quasi si sentiva in colpa per Espera.
Quasi.
Entrò, e la vista temprò il timore e la deferenza nei confronti delle capacità dell’amico: la terrestre, il viso giallastro e contorto in una smorfia di panico e dolore, pur da seduta si stava premendo contro al muro, le alucce blu schiacciate in una piega certo dolente, i piedi che scivolavano contro il pavimento e le mani che cercavano di allontanare qualcosa di invisibile, qualcosa che stava accadendo solamente nella sua mente.
« Smettila, smettila, smettila! » la sentì strillare, mentre si dimenava come un’ossessa e continuava a prendere a schiaffi l’aria. Aveva gli occhi aperti, ma era chiaro che non stesse in realtà vedendo nulla di ciò che la circondava, le iridi come appannate da un velo lattiginoso.
Kert si avvicinò lento, studiandola: « Non ti stai certo divertendo, eh, uccellino? »
Quasi sicuramente non l’aveva udito, ma l’umana emise un altro rantolo e poi si puntellò con forza con i palmi al pavimento, sbattendo così forte contro al muro che lui fu sicuro di sentirlo scricchiolare.
 
 
 
 
Stava per vomitare, ne era convinta. Le cose che Kisshu le stava dicendo non erano… come poteva rivelargliele così, con quel tono di così chiara cattiveria? Come poteva starle spezzando il cuore in quella maniera? Oppure… oppure era stata solo una sua illusione, era cascata nella trappola come una stupida qualunque, e…
« Cos’è, pensavi che non avessi dei bisogni? Che potessi aspettare te e la tua indecisione? La tua superiorità? » Kisshu questa volta non rise, un lampo maligno nelle iridi dorate, « Portarti a letto è stato piacevole anche per toglierti di dosso quella smorfia da altezzosa che hai sempre. Non sei tanto migliore di qualsiasi altro essere, eh tortorella? Sentirti pregare, per una volta, è stato così soddisfacente. »
« Smettila, smettila, smettila! » strillò così forte che le dolse la gola e di nuovo tentò di spingerlo via con tutte le sue forze, per mettere spazio tra di loro, ma era intrappolata tra il suo corpo e il muro. Kisshu finalmente le lasciò andare i polsi, come se gli schiaffi che prese a dargli al torace non fossero altro che carezze, le stesse che si erano scambiati la notte precedente, e di nuovo le strinse i fianchi.
« Non ti stai certo divertendo, eh, uccellino? » le mormorò sarcastico, « Peccato, perché invece io volevo divertirmi. »
Poi una sua mano le si strinse attorno alla gola e fece pressione quanto bastava per mozzarle il fiato.
 
 
 
 
D’istinto, Kert si avvicinò a lei, soffocando un’imprecazione – averla completamente fuorigioco non rientrava nei suoi piani, non da subito perlomeno – e l’afferrò per le spalle, controllandole la nuca con le dita. La sentì gemere ancora, ma non trovò tracce di sangue sui polpastrelli, anche se l’occhiata che lanciò alle ali gli fece pensare che non sarebbe stato lo stesso se le avesse toccato le scapole.
Non ebbe tempo di pensarci, però, perché l’umana ebbe l’ennesimo spasmo e quasi gli sgusciò via: lui le prese il volto con una mano e tentò di raddrizzarla.
« Ora di svegliarsi, uccellino, » le disse, scuotendola piano, « Prima di mettermi ancora di più nei guai. »
 
 
 
 
Un battito più forte e un suono sordo in un angolo remoto della mente.
Le bruciava la gola, le bruciava lo stomaco, le bruciavano gli occhi, le bruciava il cervello. Si sentiva come se pareti invisibili si stessero stringendo inesorabili attorno a lei, impedendo ai polmoni di espandersi e incanalare ossigeno.
Si fece tutto buio, tranne per quel paio di occhi dorati che continuava a brillare nell’oscurità.
Non poteva essere vero, non era vero, non era…
« Kisshu… ? »
 
 
 
 
Una mano sopra al volto, la sensazione che il suo corpo riacquistasse tutto il suo peso in un colpo solo, d’improvviso, la gravità che la schiacciò verso il basso anche se non c’era direzione in cui cadere. I polmoni che si ampliavano al massimo e dolevano, premendo contro la cassa toracica. La testa indolenzita, le ali ingombranti e doloranti, la schiena e le gambe più pesanti che mai.
Due iridi dorate che le fecero sussultare il cuore, non seppe se di sollievo o di sgomento.
« Kisshu… ? »
Un sogghigno nell’ombra mentre la presa sulle sue guance si stringeva un po’: « Spiacente, uccellino. »
Minto non ebbe il tempo di comprendere, perché il suo stomaco prese il sopravvento su di lei, colpendola con un’ondata di nausea che non riuscì a placare. Si lanciò di lato con le poche forze rimaste e si abbandonò alla bile, ormai l’unico contenuto disponibile, che le incendiò ancora di più le viscere.
Non capì molto di ciò che c’era attorno a sé, non tentò di decifrare il mormorio infastidito che udì né il rumore di passi per la stanza. Il pulsare dentro la sua testa era insopportabile, così come lo erano i frammenti di conversazione che le invadevano la mente e che in quell’istante non riusciva a distinguere dalla verità.
Le era sembrato così reale, così come quegli occhi le erano parsi tanto…
Percepì un ennesimo fruscio, poi l’odore delizioso che aveva avvertito il giorno prima la colpì sadicamente al ventre.
« A costo di fartelo ingoiare controvoglia, » Kert le parò davanti al naso una coppa d’acqua, « Non è divertente con un  nemico che non è in forze. »
« Cosa mi avete… » quasi non riuscì a scandire le parole, le costò una fatica immane anche solo concentrarsi a far uscire le sillabe in ordine corretto.
Quasi quanto le costò dover ammettere a sé stessa che non sarebbe riuscita a ignorare il cibo, questa volta.
L’alieno fece schioccare la lingua in maniera sarcastica come a dirle di zittirsi, spingendole il bicchiere di metallo contro le labbra aride: « Prima accetta l’ospitalità. Le chiacchiere le facciamo dopo. »
Controllò che effettivamente bevesse – e lei si detestò per l’essere sollevata di non dover reggere da sola il calice, il tremolio delle sue membra fin troppo evidente e continuo – però si alzò non appena Minto l’ebbe svuotato in piccoli e titubanti sorsi.
Le lanciò solo un’occhiata pungente, indicando con il mento alla ciotola ricolma della stessa, strana zuppa speziata che lei aveva rifiutato, e poi uscì dalla stanza a passo lento.
Minto prese dei respiri profondi, la fronte ancora appoggiata al pavimento e il corpo che doleva in decine di punti diversi. Attese qualche istante che fosse davvero di nuovo sola prima di stendere una mano verso la scodella e mettersi faticosamente seduta. Riuscì ad ingoiare solo un paio di cucchiaiate, che le sembrarono comunque ambrosia, prima che un’incommensurabile fatica le gravasse sulle spalle: non si diede nemmeno la pena di combatterla.
Finalmente, si addormentò in un sonno senza sogni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(*) Vedasi il capitolo 4, Matters of the heart
 
(**) Questa è la spiegazione fornita nel capitolo 1, ambientato a marzo/aprile. Il flashback che sta rivivendo Minto ha luogo a dicembre dello stesso anno, prima che le Mew Mew vengano effettivamente a sapere del “vero” motivo che ha spinto gli alieni a tornare (cosa che viene spiegata nel capitolo 9, Things left unsaid, ambientato a settembre dell’anno successivo).
 
(***) Da ya amar,ياقمر
, che in arabo significa “mia luna”, un termine affettuoso anche usato per indicare che troviamo qualcuno molto bello, proprio come la Luna. Poi non dite che uso solo il greco antico! xD
   
 
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