Hurt me and tell me you’re mine.
(In
ruins – missing moment #2)
Eravamo
usciti di casa dopo che lui aveva proposto una passeggiata e io avevo
alzato le
spalle, in segno di assenso. Mi aveva dato un bacio veloce sulla
guancia ed era
sgusciato in bagno, a prepararsi, per poi lasciare il posto a me. Si
sentiva
nell’aria che qualcosa non andava, che eravamo sfiniti, ma
non avevamo più
nemmeno la forza per parlarne, quindi tacevamo. Dopo essermi lavata i
denti e
sistemata i capelli, entrai in camera – che in
realtà era il salotto, dato che
il nostro letto era anche il nostro divano, e nell’unico
armadio della stanza c’erano
vestiti e tazzine per la colazione – e mi svestii, sentendo
il suo sguardo
fisso sulla schiena. Indossai una gonna corta nera, che mi fasciava le
cosce perché
molto aderente, una sua maglia bianca con una stampa infilata dentro,
il
giubbino di pelle nera, e degli stivali che stavano larghi sulle
caviglie, e una
volta finito mi guardai allo specchio incrociando il suoi occhi.
« Andiamo? ».
Annuì soltanto, aprendomi la porta e seguendomi
giù per le scale. Da quel
momento non avevamo più aperto bocca, neanche per proferire
qualche
monosillabo.
«
Mangiamo qualcosa? Hai fame? » chiese dopo un po’,
indicandomi con la testa la
vetrina di un bar nell’angolo non troppo affollato.
«
Okay. »
Entrammo,
sedendoci in un tavolino vuoto, e presi un cappuccino, sorvolando
quando Seth
disse che forse era il caso che mangiassi qualcosa con uno sguardo che
di
carino e dolce aveva ben poco. Appoggiando il bicchiere alle labbra,
poco dopo,
pensai che in quei momenti io e lui non ci amavamo per niente. Non
poteva
essere amore, quella cosa che c’era fra di noi. Non
c’era nulla, nei nostri
sguardi, nelle nostre parole dette a fatica e nei nostri movimenti, che
avesse
potuto suggerire a qualcuno quell’amore che provavamo
l’una per l’altro. Ma
forse, pensai, noi non ci amiamo
nemmeno più. Lo pensavo spesso nei momenti
successivi alle discussioni, o la notte quando non riuscivo a dormire,
sentendo
il suo braccio lascivo attorno alla mia vita, come a stringermi senza
forza. Pensavo
spesso che quello non poteva
essere
amore, perché mi faceva soffrire troppo e ci stava
distruggendo lentamente. E io
sapevo bene che tutto non era come le favole, me ne ero resa conto
più o meno
dieci anni prima, ma ancora un po’ ci speravo che le cose si
sarebbero potute
sistemare, almeno con Seth, che sapeva tutto di me; almeno con lui, che
mi
capiva, mi ascoltava e diceva di amarmi.
Il
punto era che ormai si era stancato di ascoltarmi e amarmi pure lui,
come
avevano fatto tutti nella mia vita, e il mio progetto di salvarlo e
cercare di
sopravvivere stava lentamente naufragando nel mare delle delusioni che
di
giorno in giorno mi si allargava dentro.
«
Hai detto che non hai fame, e va bene, ma almeno potresti bere quel
caffè e non
fare finta? »
disse interrompendo il flusso dei miei pensieri. Alzai gli occhi e poi
li
riabbassai, continuando a giocare con la bevanda, lo stomaco chiuso. Lo
sentii
sbuffare sonoramente, ma mi imposi di non scattare, di non mettermi ad
urlare e
soprattutto di non piangere. «
Lo so che sei arrabbiata con me, e ne
hai tutte le ragioni, ma risolverò tutto, te lo prometto. »
Lo
guardai, ripensando ai giorni precedenti. Una sera se ne era tornato a
casa,
mentre io studiavo accovacciata nel letto per il compito di fisica del
giorno
successivo, mordicchiando la penna con cui prendevo appunti facendo
schemi poco
comprensibili pure a me su un quadernino, con un sorriso sulle labbra
che mi
aveva stupido. « Che succede? » avevo chiesto senza
nemmeno salutarlo.
Seth,
ancora vicino alla porta, si avvicinò a me, abbassandomi
sulle ginocchia per
guardarmi meglio. « Ho trovato un lavoro. » Lo
abbracciai soltanto, incrociando
le braccia al suo collo e stringendolo a me. « Domani sera ho
il primo turno di
prova, poi vedranno se assumermi oppure no. » mi
sussurrò in un orecchio.
«
Dove? »
«
In un locale, a portare bibite e cibo ai tavoli. » Con la
consapevolezza che
avrei dovuto stare da sola in quel letto aspettando con ansia il suo
ritorno,
gli lasciai un bacio sulla guancia, e lui mi disse solo «
grazie ».
Avevo
passato il resto della giornata a studiare, lui seduto vicino a me a
leggere Gente di Dublino. Ogni
tanto la sua mano
si posava sulla mia pelle, e mi accarezzava. Ogni tanto mi attirava a
sé per
baciarmi e sorridere un po’.
Quando
della fisica non ce la facevo proprio più, chiusi il libro e
mi distesi
affianco a lui, facendo aderire il suo fianco a me. Si voltò
a guardarmi, con
un sopracciglio alzato. «
Se non prendi il massimo dei voti tu,
dopo tutte queste ore di studio, non lo farà nessuno. »
Sorrisi: la scuola era l’unica costante positiva della mia
vita, e andava bene
così. Avevo imparato a non ubriacarmi e a non sballarmi
troppo prima dei
compiti, per rimanere lucida e svolgerli a meglio, poi, tutti gli altri
giorni
mi limitavo a vegetare sui banchi di scuola, ascoltando quando ce la
facevo e
fingendo di ascoltare quando ero in qualche pianeta parallelo.
«
Lo spero. »
«
Vieni qui »
disse posando il libro e avvicinandomi a sé, per baciarmi
più intensamente di
prima. Mi spostai, a cavalcioni su di lui, i pantaloncini corti del
pigiama che
si schiacciavano attorno alle cosce. Infilai le mani nei suoi capelli
nello
stesso momento in cui lui, con le sue, mi posizionava meglio su di
sé,
tenendomi per i fianchi. Si staccò dalle mie labbra,
cominciando a lasciarmi dei
baci soffici sul collo, sul mento, sulle guance, per poi scendere di
nuovo, e
dopo aver abbassato le coppe del reggiseno, lasciarmi un succhiotto
appena
sopra al seno. Nei suoi occhi, che mi capitava spesso di fermarmi ad
osservare,
mentre lui mi dava piacere, vedevo la passione che provava a toccarmi,
il
benessere. Non riuscivo a capire – o meglio, non me lo
ricordavo – se nei suoi
occhi ci fosse sempre stata quell’espressione. Non riuscivo a
ricordare se
quando ancora mi amava, avesse quello sguardo, o se nelle sue iridi ci
fosse
qualcosa di diverso. Un gemito che mi sfuggì dalle labbra
premute sulla sua
spalla, cacciò in fretta quel pensiero infelice.
Scesi
più giù, prima sfilandogli la maglia e poi
aprendogli ad uno ad uno i bottoni
dei jeans, sentendo il suo respiro affannoso nelle orecchie.
Alzò il bacino,
che aderì con il mio provocandoci una scossa, per
facilitarmi il compito di
sfilargli i pantaloni. Poco dopo mi tolse la maglia del pigiama e mi
sfilò il
reggiseno, lasciandolo scivolare fra di noi.
Dopo
quel giorni in libreria, quando ci eravamo detto che ci amavamo, avevo
cercato
di vedere il sesso con Seth in un altro modo dal sesso con gli altri
ragazzi –
o con mio padre. Mi ero imposta, inconsciamente, che con lui non era
sesso, che
con lui io facevo l’amore. Solo con lui. E lo dovevo
ammettere, che era stato
bello, per un po’, lasciarsi amare da lui. Perché
sembrava sempre che il suo
tocco non volesse violarmi, ma solo conoscermi. Perché
sembrava sempre che il
mio corpo, il modo in cui io lo facevo stare in quei momenti, gli
procurassero
gioia, e non solo piacere fisico. E allora sì, avevo pensato
che con lui io
facevo ogni volta l’amore, e non il sesso, anche quando in
realtà l’unica cosa
che facevamo era sbatterci in ogni superficie piana, ancora vestiti per
metà,
con la droga in corpo e i cervelli in un altro mondo.
Ricordai,
mentre sentivo che Seth spostava la mia biancheria con una mano, quella
volta
in cui mi ero presa quell’infezione del diavolo. Per un
periodo non
eccessivamente lungo, ma nemmeno tanto breve, il medico mi aveva
tassativamente
proibito di fare sesso. Quello mi aveva inevitabilmente portato a dare
di
matto: ero arrivata a pensare che Seth mi tenesse con sé
solo per sfogare i
suoi bisogni di ragazzo ancora adolescente su di me. Si
rivelò invece uno dei
periodi più belli della nostra non-storia. Era sempre
prudente con me, e stava
sempre bene attento a non superare i limiti stabiliti dal medico e da
quell’infezione.
In quel periodo mi sentii amata da Seth come poi, non mi sentii
più. E forse
era solo che sembrava tutto più dolce e tenero, come se
avessi una vita
normale, e forse era che non si drogava per non eccedere, e forse erano
solo
tante piccole coincidenze, ma mi sentivo bene, con tutta quella
dolcezza che mi
dava.
In
quel momento sul divano, mentre mi si sconnetteva il cervello
nell’esatto
istante in cui Seth infilava due dita dentro la mia eccitazione,
sentivo che
forse, fra di noi, ci sarebbe potuto essere ancora un po’ di
quell’amore che
continuavamo a sussurrarci nelle orecchie. Che noi, io diciassette
anni, lui diciannove
appena compiuti, non avevamo ancora distrutto le nostre vite del tutto,
che c’era
ancora un minimo di speranza per noi. Per il nostro amore malato,
anche.
Mi
lascia trasportare da Seth in un posto in cui nulla faceva
più male, anche se
sapevo bene che stavo mentendo, perché piansi le lacrime che
mi stagnavano
negli occhi da giorni quando oramai eravamo così uniti da
apparire una cosa
sola. Non capivo mai se lui se ne accorgeva, quando piangevo mentre
facevamo l’amore,
e spesso non capivo nemmeno perché piangevo, ma seppi
comunque che quel
pomeriggio, sul divano di casa nostra, quella che pagavamo con i soldi
che
riuscivo a guadagnare io, con quelli che Seth riusciva a racimolare in
modi che
non sapevo, e con quelli che ci passava suo fratello, quando ci beccava
a
mangiare cereali, sentì le mie lacrime bagnargli la spalla e
colargli giù sulla
schiena, perché rabbrividì e mi strinse
più forte, dicendomi all’orecchio che
mi amava, che mi amava, che mi amava, ripetendolo come un mantra mentre
eravamo
uno perso nell’altra.
Mi
addormentai sfinita, risvegliandomi in piena notte in un letto vuoto se
non di
un biglietto “ Sono dovuto scappare. Torno presto. Ti amo,
Seth “. E mi scese
una lacrima, forse qualcuna in più di una, e mi
riaddormentai con un gusto
amaro sulle labbra e un peso sullo stomaco.
La
sera successiva, quella in cui avrebbe provato il nuovo lavoro, mi
lasciò
seduta sul divano ad ascoltare un cd che aveva portato a casa il
pomeriggio,
dicendo che ci aveva masterizzato delle canzoni che mi sarebbero
piaciute
sicuramente. E io le ascoltai, le ascoltai sentendo ogni parola
scagliarsi
addosso alla mia pelle, ferirmi e portarmi sollievo contemporaneamente.
Ma il
dolore era troppo forte, e io non riuscivo a contenerlo. Chiusi gli
occhi e
ingoiai il groppo creatosi alla gola. Non
devi tagliarti di nuovo, l’hai promesso, ricordi? Niente
più segni freschi
sulle cosce, sulle caviglie, sulle braccia. Gliel’hai
promesso. E fu così
che evitai di sentire davvero il
dolore. Fu così che mi nascosi sotto le lenzuola fine
tremando, e
abbandonandomi alla stanchezza.
Ore
dopo, al ritorno di Seth avrei sentito il rumore di un cassetto
chiudersi, il
materasso abbassarsi al mio fianco e delle labbra baciarmi le palpebre.
«
Mi dispiace, troverò qualcos’altro. »
Puzzava così tanto d’alcol
che continuai a far finta di dormire, perché non ce
l’avrei fatta a sopportare
niente quella sera, con il mare che mi stava dentro in tempesta, in
burrasca,
la marea alta, pronto a fuoriuscire, pronto a sommergermi.
Era
così, che ci eravamo trovati in quel bar a guardarci e a non
amarci. «
Non sono arrabbiata, Seth. »
«
Sì, certo, come no. »
«
Sì, Seth, io non sono arrabbiata con te, sono delusa. Dovevi
servire delle
stupide bevande ai tavoli, come cazzo hai fatto a non farti assumere? »
Spostò
lo sguardo al bicchiere, e dopo aver bevuto un sorso della birra che
stringeva –
erano le dieci di mattina, cristo – disse «
Mi è sfuggito tutto di
male, ho bevuto un po’ troppo con degli amici che mi erano
venuti a trovare. »
«
Tu non hai amici. »
mi ritrovai a dire, con un tono
strozzato. Poi mi resi conto di quali amici parlasse: quelli della
stazione,
quelli della droga. «
Quegli amici, Seth? »
«
Sì. »
Mi
alzai, lasciando il cappuccino sul tavolo, e stringendomi le braccia al
petto
mentre correvo fuori dal locale. Sentii Seth dietro di me, che mi
seguiva, ma
fu subito fermato poiché non aveva ancora pagato il conto.
Corsi velocemente,
confondendomi fra la folla, prendendo la metro e, arrivata a casa
sbattendo
forte la porta dietro di me, gli occhi pieni di lacrime. Poi ricordai
il rumore
del cassetto aperto e chiuso da Seth durante la notte. Mi ricordai di
quel
particolare e lo aprì trovandoci dentro quello che non avrei
mai pensato di
trovare.
«
Evie, amore, metti giù
quella
pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava
appena. Impugnai
meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio,
partisse un colpo.
Ma
forse sarebbe stato giusto. Forse sarebbe stato giusto eliminare
uno di quei problemi che mi stavano facendo impazzire.
«
Mi metti voglia di morire, Seth. »
glielo dissi così, con
le lacrime in gola.
«
Ti prego, parliamo. »
«
Parlare? Non facciamo altro che parlare dalla mattina alla sera. Non
facciamo
altro che parlare di cazzate. »
Pensavo
che quella cosa che vedevo nei suoi occhi fosse paura. Pensavo che
sicuramente
c’era anche nei miei occhi la stessa cosa strana. «
Non mi ami più? »
Deglutii.
« No, sei tu che non mi ami più. Sei tu quello che
mi fa del male, che mi scopa
come si fossi davvero una puttana, che tiene una pistola in casa per
non si sa
quale ragione, che si ubriaca mentre lavora e quel lavoro, di cui ha
disperatamente bisogno, lo perde. Sei tu Seth, sei tu. »
«
Stronzate! » urlò, e fece un passo verso di me.
Impugnai più stretta l’arma,
ormai ero sicura di avere dei segni rossi sulle mani. «
Perché cazzo ti sei messa
in testa che io non ti amo più, vuoi spiegarmelo? »
«
Sei strafatto tutte le volte che mi tocchi. »
«
Cazzate. »
«
Sì, dico solo cazzate io, vero? Sono una pazza troia che
dice solo stronzate,
hai ragione tu! »
Mi
si avvicinò, tanto che la pistola quasi gli toccava il
petto. Rimase a
guardarmi, silenzioso, il respiro accelerato. « Io ti amo,
Evie. Ti amo come se
fossi il mio ossigeno e nel mondo non ce ne fosse più
nell’aria. Ti amo perché nonostante
tutte le stronzate che faccio, sei ancora qui. Ti amo perché
sei l’unica cosa
che rimane, perché i miei genitori sono morti, di mio
fratello non me ne frega
un cazzo, degli amici nemmeno. Mi drogo perché soffro.
Soffro a vedere che tu,
con me, stai male. E lo so che è solo colpa mia, so che ti
metto voglia di
morire, ma se tu muori Evie, se tu non ci sei più a questo
mondo, io vengo con
te. Non aspetto altro, io non aspetto altro che rimanere sempre con te,
senza
tutto questo dolore. »
Le
lacrime mi scesero dagli occhi, e fui costretta ad aprire un
po’ la bocca per
tornare a respirare. Seth si avvicinò e mi prese la pistola
dalle mani,
riponendola di nuovo nel cassetto alle mie spalle, per poi tornare
davanti a
me, gli occhi spaventati.
Ero
sicura che sarei morta per quel dolore che sentivo premermi contro le
ossa,
riempirmi. Perché quando qualcosa comincia a fare così male non
c’è niente da fare, non c’è
più niente di vivo in te,
non c’è più niente che abbia voglia di
continuare a sperare che un giorno andrà
tutto bene. Perdi la speranza perché ormai hai perso anche
te. Ti sei persa e
non riesci a trovarti, non riesci a trovarti da nessuna parte, anche se
ti
chiami, anche se ti cerchi in tutte quelle stanze oscure che hai nella
mente,
facendo un sospiro di sollievo vedendoti rannicchiata a tremare. Ma non
ti
trovi in nessuna stanza buia, non ti trovi proprio più.
Sentivo
la fine di me e Seth ogni volta che i suoi occhi si posavano di me,
sentivo
franarmi dentro, sentivo che quelle sue mani che tanto amavo non
sarebbero
riuscite a salvarmi mai più.
Soprattutto,
comunque, sentii la mia fine quando mi buttai fra le sue braccia,
quell’oceano
che avevo dentro che mi sommergeva, gli occhi sbarrati davanti a me, e
le mie
mani che cercavano le sue, perché si rifiutavano di smettere
di sperare. Come
quando stai annegando e il tuo corpo ti porta a respirare a pieni
polmoni, per
aiutarti, per salvarti, senza sapere che in realtà si sta
uccidendo da solo.
Niente,
non credo ci sia molto da dire, questo capitolo si commenta da solo.
Fatemi
sapere se siete ancora vivi da qualche parte, grazie.
Love, Deborah.