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Autore: AlexaHumanoide    04/04/2013    3 recensioni
Quando Bill, dall'altra parte alzò lo sguardo verso di lei, si immobilizzarono tutti e due a guardarsi negli occhi.
Forse saranno stati colpiti dal famoso "colpo di fulmine", pensai, ma cambiai subito idea quando vidi il vestito della mia migliore amica sporco di sangue.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XVII: Il tempo scorre.


Mi rannicchiai ancora di più, stringendomi a quella maglia XXL del mio colore preferito che mi faceva da vestaglia per quanto mi stava larga, visto il mio fisico alto e asciutto. Quel rosso mi ricordava molto il colore delle rose all’apice della fioritura: era così intenso e scuro che potevo fissarlo per ore e ore senza mai stancarmi. Inspirai molto profondamente, riempiendo le narici del suo profumo. Erano passate esattamente quattordici ore da quando se n’era andato ed io ero rimasta lì per tutto il tempo, a pensare proprio a Tom. L’unico movimento che avevo fatto era stato alzarmi pochi secondi per prendere una sua maglietta dall’enorme armadio che era a lato del letto e indossarla, buttando per terra il mio vecchio pigiama. Non mi interessava se ora mi poteva anche accusare di averli rubato un indumento. Alzai lo sguardo e l’appoggiai sul porta foto argentato che era posto al centro del comodino: la foto ritraeva i due gemelli da piccoli, mentre giocavano con alcune padelle in cucina. La cosa che spiccava di più era l’occhio nero di quello che era seduto per terra, che secondo me era Tom, poiché aveva lo stesso neo sulla guancia che avevo notato più volte. Rimasi per molto tempo a contemplare quella foto, pensando a tutte le ragioni possibili per cui lui avrebbe potuto fare una cosa del genere. La possibilità più plausibile era che la disperazione che aveva chiuso dentro da mesi ormai, si era liberata quando avevo toccato un argomento per lui molto sensibile: le fan. Forse, più che il suo tallone d’Achille, era quello di suo fratello e questo peggiorava la situazione, perché oltre a non sapere ancora per certo chi fosse il colpevole, Bill non dava cenni di risveglio. E, quindi, si era sfogato di nuovo ma questa volta su di me: l’unica persona che aveva vicino tutto il giorno da quando suo fratello non era più in grado di farlo. Quella foto mi aveva fatto capire una cosa importante: anche se una persona vuole bene ad un'altra, questo non vuol dire che non debbano litigare anche in modo forte, ma anzi, questo rafforza ancora di più la relazione. Perché come si poteva ben notare, Bill aveva colpito con una padella (anche se a quell’età forse non era volontario) suo fratello, procurandogli un occhio nero. Nonostante ciò il loro rapporto non aveva subito danni e il bene che si volevano, molto probabilmente era solo aumentato. Quindi, anche se Tom aveva usato delle parole cattive contro di me, questo poteva dire che non mi odiava, ma l’opposto.

Ma perché cercavo di tutto pur di non affermare che lui mi aveva trattato da vera merda?

Perché sei innamorata di lui Ashley, non scordartelo…

Vero. Come potevo biasimare la mia stessa coscienza?

Non sapevo quando sarebbe tornato, ma sapevo che l’ultimatum che mi aveva dato era serio, quindi mi dovevo dare una mossa e preparare le valige, anche se quello significava altro dolore e io non avevo molta forza dato che in quel momento avevo il cuore frantumato in mille pezzi. Mi stavo alzando dal letto quando sentii un rumore che stonava nel silenzio straziante che mi circondava. Fu lieve, forse troppo, quasi da pensare che me lo fossi immaginato. Ma ero sicura di averlo sentito. Era il cigolio di una porta che si chiudeva con una lentezza di bradipo, come quando di notte, per non svegliare la bambina, la madre chiude la porta lentamente cercando di non far nessun rumore.

Un’idea si fece subito strada nella mia mente. Un nome, sempre lo stesso: Tom.

Chi altro poteva essere?

Non ci pensai due volte e corsi giù per le scale, incurante di essere solo coperta da una maglia extra large.  Un sorriso nacque involontariamente sulle mie labbra e questo mi fece innervosire: possibile che, anche se mi aveva trattato male, ero pronta ad accoglierlo a braccia aperte?

Appena scesi l’ultimo gradino, guardai per tutto il soggiorno e il sorriso si spense subito: era deserto, non c’era proprio nessuno. Io, però, ero sicura di aver sentito quel rumore.

“Tom?”, chiamai, ma quel nome echeggiò nella stanza vuota, senza ricevere una risposta.

Guardai anche in cucina e nel bagno, ma niente. Non c’era nessuno e tantomeno lui. Sconsolata, mi avvicinai di nuovo alle scale per rintonare di sopra, ma qualcosa mi bloccò. C’era un foglio bianco, sul tavolo in soggiorno che prima non c’era. Lentamente mi avvicinai a quel mobile e presi il pezzo di carta con le mani tremanti. Un’altra possibilità si formò automaticamente: che qualcuno fosse entrato in casa? Ladri? Quell’opzione venne subito cancellata quando lessi quelle poche parole scritte al computer con un carattere semplice, ma in grassetto. Era firmato Tom. Questo mi fece ben sperare e, senza chiedermi spiegazioni, corsi di sopra, mi infilai delle panta di eco pelle nera, le mie vans rosse e uscii di casa, prendendo in prestito la Q7 bianca di Bill. Mentre parcheggiavo davanti a quell’edificio anonimo, avevo il sorriso stampato in volto, ignara dei pericoli in cui stavo per immergermi.

 

***

 

La notte mi aveva portato buoni consigli. Non potevo dire lo stesso del sonno, perché non avevo dormito affatto bene, a causa principalmente dei mille pensieri che mi ronzavano rumorosamente in testa: tra la stalker assassina, Bill, Ashley, le parole di Gustav e le mie accuse, bè, c’era poco da stare tranquilli e dormire sereni. Erano le tre del pomeriggio ed io ero ancora immerso nelle lenzuola bianco candido del lettone della camera degli ospiti, a torso nudo, che fissavo il soffitto concentrato con le mani intrecciate dietro la nuca. Avevo le sopracciglia aggrottate, come se dovessi trovare ogni singola venatura del legno di cui era fatto il soffitto della casa. L’unica certezza che avevo era che dovevo chiedere scusa ad Ashley. E l’avrei fatto appena sarei tornato a casa, sperando che non avesse preso alla lettera le mie minacce e se ne fosse andata veramente. Un’altra cosa, la seconda in ordine di importanza, era che dovevamo indagare su quella presunta stalker. Ci avevo pensato molto ed ero arrivato alla conclusione che tutto poteva succedere e quindi anche una fan che sparava alla superstar che amava era una spiegazione plausibile. I miei pensieri furono interrotti dal mio migliore amico che bussò alla porta.

“Che vuoi?!”, chiesi, con il tono che usavo sempre con lui: scocciato e strafottente.

“Fra esattamente cinque minuti ti voglio fuori da casa mia.”

“Mamma mia, che gentile che sei!”, gli scoccai un’occhiataccia.

“Lo sono sempre più di te. E ora muoviti, Ashley sta aspettando il tuo perdono.”

Alzai automaticamente gli occhi al cielo e Georg lo notò.

“Non sprecare quelle poche energie che ti sono rimaste con azioni inutili e usale per baciarla! Guarda che il tempo scorre… Tic toc tic toc!”, chiuse appena in tempo la porta per non beccare il cuscino che gli avevo lanciato dietro.

Ah, cavolo, quante cretinate che diceva! Però lui era fatto così, e in un certo senso era uguale a me. Questo, non potevo biasimarlo, mi piaceva e forse era proprio per questo se eravamo molto legati. Mi alzai sui gomiti e poi appoggiai i piedi per terra, in tutti i sensi. Andai in bagno e mi feci una doccia veloce sia per essere fresco e profumato sia per pensare un altro po’ sotto al getto rilassante dell’acqua calda. Quando fui pronto, salutai i miei amici e salii in macchina che avevo parcheggiato a pochi passi dalla villetta. Non feci molta attenzione alla guida, la testa era sulle nuvole, come sempre: come avrebbe reagito Ashley? Se fossi stato nei suoi panni mi sarei cacciato via di casa, anche se era mia. Se avesse reagito veramente così, non parlandomi più, l’avrei capita ma allo stesso tempo supplicata di darmi una seconda occasione. Se, invece, mi avesse perdonato io sarei stato il ragazzo più felice del mondo e l’avrei trattata nel modo in cui si deve trattare una ragazza d’oro come lei.

Quando arrivai a casa, le mani mi tremavano. Dovetti fare due tentativi per aprire la serratura. Non mi ero mai sentito così in vita mia: le farfalle svolazzavano impazzite nel mio stomaco e sentivo le gambe molli. Entrai in casa e, con mio grande dolore, scoprii che era vuota. A quel punto le gambe cedettero davvero, così mi sedetti sul divano, non sapendo cosa fare.

Se n’era andava veramente…

Una piccola speranza però rimaneva: ero sicuro che non avrebbe mai e poi mai lasciato Viola, quindi l’avrei rivista in ospedale e gli avrei potuto rivelare tutto quello che provavo, sperando solo che lei ascoltasse. Mi stropicciai la faccia, pensando disperatamente a cosa potevo fare. Dove poteva essere andata? La risposta fu lampante: in ospedale. Dove altro sennò? Non aveva abbastanza soldi per prenotare un albergo e di sicuro non era tornata a casa, lontano da Viola.

Mi alzai, deciso ad andare in quel luogo desolante e cupo, ma, quando lo feci, notai un foglietto bianco per terra, vicino al tavolo nel soggiorno. Era il suo biglietto d’addio?

Lo raccolsi e quando lo lessi il sangue mi si raggelò nelle vene. Un orribile presentimento si impossessò di me. Quel biglietto era firmato con il mio nome, ma io non l’avevo mai scritto. Quindi qualcuno era entrato in casa quando lei era da sola. Un altro brivido mi percorse la schiena. Dovevo andare, e subito. Sapevo che Ashley non se n’era andata, ma era in grave pericolo. Cosa dovevo fare? Ero semplicemente nel panico. Velocemente e con mano malferma presi le chiavi della macchina ed uscii di casa, notando con orrore che mancava la macchina di mio fratello. Mi maledissi mentalmente per averle dato una copia delle chiavi. Scrollai la testa, cacciando tutti i bruttissimi presentimenti che erano nati e salii sulla mia auto sportiva. Quel messaggio era infisso nella mia mente come una macchia indelebile. Poche parole, scritte al computer, ma che contenevano un grande significato e, soprattutto adatto a quella maledetta situazione.

 

Dobbiamo parlare.

Ci vediamo in ospedale.

Tom.

 

In quel momento, mentre sfrecciavo tra le vie di Amburgo illuminate solo dalle luci dei lampioni mi ritornarono in mente le parole di Georg, dette solo per gioco, ma che si erano trasformate in serietà.

“Guarda che il tempo scorre… Tic toc tic toc!”

Tic toc tic toc tic toc….

Quasi sentivo l’orologio dentro la mia testa che ritoccava quei secondi che, sapevo, avrebbero portato qualcosa di veramente malevolo. Una sensazione in particolare mi stava mangiando letteralmente lo stomaco: la paura di perdere un’altra persona per me indispensabile.

   
 
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