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Autore: Leopoldo    04/04/2013    2 recensioni
Due vite più differenti e distanti sono difficili da immaginare.
Un soldato dello US Army che ha lasciato la sua città natale senza tornare per anni ed una giovane supplente di Letteratura possono intrecciare i loro destini e rimanere legati l’uno all’altro?
-Au, Quick centric, accenni possibili di altre coppie-
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kurt Hummel, Noah Puckerman/Puck, Nuovo personaggio, Quinn Fabray | Coppie: Puck/Quinn
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5. Un’illusoria parvenza di normalità.

 

“… e da quel giorno Kurt è decisamente un’altra persona, sempre mogio e abbattuto. Credo abbia anche litigato con suo padre, però non ne sono sicura perché non è stato molto loquace ultimamente. Secondo te cosa dovrei fare?”

Lo schermo del suo portatile non emana alcun suono per diversi secondi ma è piuttosto sicura che non sia colpa del computer o della connessione internet che, dopo un mese di attesa, sono finalmente venuti ad allacciarle.

“Ma almeno mi stai ascoltando?”

 

Santana Lopez in tutto il suo splendore annuisce un paio di volte, senza però fiatare o sollevare gli occhi da qualcosa che non rientra nell’inquadratura della webcam del computer della latina.

Sì, ovvio. È che non capisco il perché di questa conversazione

 

“Beh …” mormora Quinn, aggrottando le sopracciglia “… volevo solo un consiglio su come comportarmi, perché … boh, mi spiace tanto vedere quanto Kurt ci stia male e-”

 

No, aspetta un secondo” la interrompe Santana, puntando finalmente le sue iridi scure nella camera. “Questo l’ho capito. Non ho capito il perché tu ti stia facendo prendere tanto

 

“In che senso?”

 

A me fa piacere che tu abbia trovato un amico … Dios, fa così tanto bambina di dieci anni, non trovi?” sbuffa con una risatina, abbassando lo sguardo quando vede la smorfia infastidita sul volto dell’amica. “Seriamente, è eccezionale considerato … beh, che stiamo parlando di te. Il problema è questo: ti ricordi che il tuo contratto scade a dicembre e dopo dovrai trasferirti da Lima, vero?

 

“Oh”

L’ha dimenticato. Si è fatta così prendere dai suoi studenti, da Kurt e la sua famiglia, dalle avventure scolastiche di Beth e tutto il resto da averlo completamente rimosso.

Istintivamente raggiunge una pila di fogli abbandonati sulla scrivania tra cui, pochi giorni dopo essersi trasferita nel suo nuovo appartamento, aveva sistemato le offerte per il secondo semestre.

 

Quinn, ci sei ancora?

 

La bionda annuisce, agitando un paio di fogli davanti allo schermo del suo portatile.

“Cleveland e Akron”

 

Cosa sarebbero quei … ah, ok, niente, ho capito” afferma Santana, notando subito dopo la sfumatura di delusione sul viso di Quinn. “Dai, vedi il lato positivo. Non devi trasferirti dall’Ohio

 

“Sì, almeno questo. È che … è diverso da com’era l’anno scorso. Allora bastava cambiare linea della metro o scendere due fermate dopo per arrivare alla nuova scuola e …” sospira, ravvivandosi i lunghi capelli biondi in un gesto di nervosismo “… lo sapevo che sarebbe stata dura, lo so da quando ho deciso di fare l’insegnante, ma-”

 

Ti dispiace comunque, lo so, è la stessa cosa che ho provato quando mi sono trasferita a New York” la interrompe Santana, stavolta per regalarle uno dei suoi pochi sorrisi veri. “Sarà dura, soprattutto per Beth, ma la mia figlioccia è una bambina intelligente e capirà. E prima o poi ti troverai un posticino bellissimo in cui ti offriranno una cattedra fissa e … allora sarai a posto

 

“… sei inquietante quanto sei gentile e rassicurante” sorride Quinn, trattenendo a stento una risata.

 

Lo so, è per questo che non lo sono mai” risponde la latina con un occhiolino, prima di voltarsi all’improvviso per parlare con un uomo, probabilmente un collega, di cui Quinn però può vedere solo dal busto in giù. Effettivamente Santana starebbe lavorando –lei è fortunata da questo punto di vista perché il martedì ha solo due ore e alle undici e mezza è già a casa–, ma non è una persona che si fa problemi di questo genere.

 

Approfittando della breve interruzione, la giovane insegnante non può trattenersi dal pensare a come in un paio di mesi le sue prospettive sul suo lavoro di sostituta della professoressa May si siano ribaltate e come Lima non sia più solo un paesino tranquillo che le ricorda Ames, il suo paese di origine, ma qualcosa di più.

Per la prima volta da tanti anni è a suo agio nel posto in cui si trova e non dipende solo da Kurt. Beth ha le sue amichette, lei ha fatto amicizia con i loro genitori, le persone non sembrano più nemmeno guardarla storta quando gira per la città con sua figlia e c’è una sorta di pace, un’aura di serenità che le sembra di poter toccare ogni volta che si alza al mattino con il sorriso stampato in faccia.

 

Scusa, era uno degli editorialisti” fa Santana con un tono stranamente incerto, destandola dai suoi pensieri. “Credo … credo mi abbia appena detto che una delle mie creazioni per la stagione invernale sarà sul prossimo numero

 

“E lo dici così?” esclama Quinn, saltando in piedi. “È fantastico!”

 

S-sì è che …” farfuglia la latina, fissando la webcam con lo sguardo vuoto “… credo di essere sottoshock o qualcosa del genere

 

Quinn ride, si agita rimettendosi a sedere e cerca di dare un senso alla mole di pensieri positivi che le invadono la mente. “Uscirai su Vogue come stilista!” trilla entusiasta, scuotendo lo schermo del portatile in modo da scuotere metaforicamente anche Santana.

 

U-uscirò su Vogue … come stilista” ripete meccanicamente la latina, acquistando pian piano consapevolezza di ciò che le sta uscendo dalla bocca. “Uscirò su Vogue come stilista … uscirò come stilista! Dai cazzo!

 

È troppo contenta per la sua migliore amica per riprenderla per il linguaggio –una deformazione professionale, ormai. Si limita a sorridere e ad annuire mentre Santana si alza dalla sua scrivania, rischiando quasi di inciampare nella sedia, e scompare dalla visuale.

Dei suoi festeggiamenti può solo sentire i gridolini eccitati e il rumore dei tacchi che colpiscono ripetutamente il pavimento, segno che sta saltando o correndo intorno alla scrivania, difficile dirlo.

 

“Ne hai ancora per molto?” sbuffa fintamente indispettita Quinn dopo qualche istante di silenzio assoluto, sorridendo poi non appena Santana torna a sedersi, il volto stravolto dalla felicità.

 

Dovremmo … festeggiare” ansima, per lo sforzo, sistemandosi la camicetta rossa. “Dovresti venire … a NY City con Beth

 

“Oppure potresti venire tu” ammicca la bionda. “Sappiamo entrambe che il tuo capo non avrebbe alcun problema ad esonerarti dal lavoro per un weekend” mormora, senza smettere di sorridere. “E potresti portare anche Sebastian, sono secoli che non lo vedo”

 

Forse è meglio così” scherza Santana, prima di assumere la sua solita aria, quella da perfida manipolatrice spara sentenze. “A proposito di Smythe … mi è giunta voce che il paparino arriva in città

 

Quinn si corruccia appena, perplessa dalla certezza di non averne fatto parola con nessuno. “Sì, in effetti mi ha chiamato ieri sera per dirmi che sarebbe arrivato in giornata. Ma tu come diavolo fai a … lascia perdere” sbuffa, dopo ave visto l’amica picchiettarsi sulla fronte per indicare il suo fantomatico ‘terzo occhio sensitivo messicano’. “Te l’avrà detto Seb, non fare troppe scene”

 

Fidati, ho un sesto senso per certe cose” la rassicura immediatamente la latina con la stessa serietà con cui solo i matti possono dire una vaccata del genere. “E Beth lo sa o glielo abbiamo tenuto nascosto anche sto giro?

 

“Non mi piace il tono che usi” si rabbuia Quinn. “So anche cosa stai per dire, ma nulla ti impedirà di farlo comunque, giusto?”

 

No, infatti” annuisce vigorosamente Santana. “Devi dire a Christian che deve smetterla di giocare con voi due e di iniziare a prendersi le sue responsabilità. È comodo nascondersi dietro ai propri impegni e fare il genitore durante le feste. Cosa crede, che durante il resto dell’anno Beth si cresca da sola?

 

“Dovrei essere io a dire queste cose, peccato che non le pensi” mormora l’insegnante, molto più acidamente di quanto vorrebbe. “Vorrà pur dire qualcosa per te o, visto che non fa parte di come Santana Lopez vede il mondo, non conta nulla?”

 

Non conta nulla perché sei ancora cotta di lui. E non provare a negare, è evidente persino per un morto

 

“Non è assolutamente vero!”

 

Guarda che io non giudico. Anzi … lui e il suo fratellino smuovono persino me, il che è tutto dire” asserisce con convinzione, prendendosi un minuto per fissare verso l’alto, Dio solo sa il perché. “Dico solo che non sei obiettiva quando parli di lui, non lo sei mai stata

 

“Sei incredibile, davvero” ride ironicamente Quinn, scuotendo il capo. “Riesci sempre a rovinare i momenti belli con le tue uscite del cazzo. Perché tiri fuori questo ogni volta che Chris viene da me e da Beth?”

 

Perché a volte sei troppo ingenua, Q” risponde Santana, ma lo fa in modo quasi dolce se estrapolato dal resto della discussione. “Lui ha fatto tante cose per voi, è innegabile, però … dovresti pretendere di più da lui, è pur sempre il padre, non uno zio per finta come me

 

“Senza Chris probabilmente avrei abortito, senza Chris non avrei mai potuto frequentare l’università … senza di lui quasi sicuramente ora lavorerei part time da qualche parte come cameriera o commessa, infelice, a rimpiangere di non aver … non ci voglio nemmeno pensare” sbotta Quinn, puntando il dito contro lo schermo.

 

Oh, che carino. Quindi più che un padre è una sorta di bancomat, giusto?” chiede con finta innocenza Santana, sfarfallando le ciglia.

 

La bionda si lascia scappare un verso, uno di quelli di chi è al limite della sopportazione. “Non è forse il motivo per cui la tua abuela e tuo padre non sanno che sei omosessuale?” sputa con cattiveria, perché nessuno mette i piedi in testa a Quinn Fabray. “E a sua volta non c’entra nulla con il fatto che l’appartamentino che hai affittato nell’Upper East Side costa il doppio del tuo stipendio, giusto?”

 

Oh sì, nessuno può farlo, nemmeno Santana Lopez.

 

Prima che la supplente del McKinley possa interrompere la conversazione via Skype, impedendo ad una discussione già partita per la tangente di esplodere in qualcosa di peggio, la latina fa una di quelle cose che nessuno che la conosca bene quanto Quinn si aspetterebbe mai da una come lei.

Mi dispiace, Q, ho esagerato

 

“… c-come?”

 

Sì, ho esagerato. È che … lo sai no?” farfuglia, in difficoltà proprio perché non è abituata a chiedere scusa. “Christian non mi è mai piaciuto e … sono stata carina e rassicurante prima, è scritto nel mio Dna che subito dopo debba tornare ad essere stronza. Scusa, hai ragione tu, sono l’ultima persona che può giudicarti

 

“… c-come?” ripete Quinn, temendo di aver sbattuto la testa mentre stava chiudendo la conversazione e di essere piombata in un sogno. “Cioè, scuse accettate. Ma capisco perché lo fai … vuoi bene a me e Beth e vuoi il meglio per noi”

 

Parole tue, non mie” decreta Santana, riuscendo a strapparle un sorriso. “Davvero Q, non volevo. Ok, forse volevo, è che  non mi aspettavo che ti saresti incazzata così tanto, ecco

 

“Stai … stai lasciando perdere?” chiede la bionda, strabuzzando gli occhi non appena l’amica annuisce. “Stai per morire?”

 

Spererei proprio di no, sto per uscire su Vogue

 

“Beh, sì … hai ragione anche tu” ammette Quinn, ancora incredula. “Quindi siamo a posto?”

 

Ovvio. Ci sentiamo quando il coso se ne sarà andato, dai” le fa Santana, improvvisamente frettolosa, come se si sia lasciata sfuggire troppo.

 

“O-ok, allora a presto. E ancora complimenti”

 

Quando la latina interrompe la conversazione, Quinn rimane a fissare lo schermo del suo portatile per qualche secondo, prima di richiuderlo lentamente e sempre con lo sguardo perso di chi è immerso nei propri pensieri.

Perché Santana Lopez non chiede scusa mai, nemmeno quando ha torto marcio, figurarsi in un’occasione come questa in cui è straconvinta di avere ragione.

E l’unica spiegazione logica per un comportamento del genere, escludendo a quanto dice lei  la malattia terminale, è la seguente: ne ha combinata una davvero ma davvero immensa, talmente grande da far passare in secondo piano gli insulti a Christian Smythe e a come Quinn si rapporta con lui. Si salvi chi può, insomma.

 

A strapparla per l’ennesima volta dalle sue congetture ci pensa un sms inaspettato di Kurt.

-Ho bisogno del tuo aiuto per fare una cosa. Ti chiamo finite le lezioni-

 

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L’incontro con Burt è stato paragonabile al ricevere una vagonata di mattoni in testa per Noah. Se l’era immaginato diverse volte ma mai, mai, si sarebbe potuto prospettare un’accoglienza così fredda e al tempo stesso accusatoria. Soprattutto da parte dell’uomo che, in circostanze secondo lui peggiori, non aveva esitato ad aprirgli la porta della propria casa quando Noah si era ritrovato senza alcun posto in cui andare.

 

Per una volta è stato eccessivamente infantile, forse, o semplicemente troppo speranzoso. Fatto sta che se la condizione necessaria per tornare ad avere Burt Hummel nella propria vita è addirittura chiedere scusa a Finn … beh, potrà essere cambiato e non essere più ‘quella persona’ furiosa e sempre al limite di uno scatto di nervi, potrà anche essersi reso conto di aver sbagliato in moltissime altre cose, però su questo non è disposto a parlamentare.

Finn Hudson non esiste più, per lui.

 

Non è stato per niente facile accettare il nuovo stato di cose, per Noah, tanto da trovarsi addirittura costretto ad andare in Georgia per un paio di giorni per poter parlare con il dottor Menkins di persona.

Rabbia, sfiducia, delusione … cambieranno le persone e i tempi in cui succedono, ma sembra davvero che certe cose siano sempre destinate a ripetersi nel corso della vita del giovane ex soldato.

 

E da quell’incontro, è giusto ricordarlo, dipendevano anche altre cose. Il lavoro in officina, tanto per cominciare, e, di conseguenza, la possibilità di lasciare il motel e poter mantenere l’affitto di un appartamento.

Perché sì, i risparmi ci sono e non sono certo pochi considerando la sua gestione monetaria non proprio parsimoniosa, se così possiamo chiamarla, ma il loro scopo è quello di pagare le rate del college nel caso Deborah decida di proseguire i suoi studi, ovvero un’altra di quelle cose di cui la sorella non è ancora stata informata. Stanno decisamente cominciando a diventare un po’ troppe, no?

 

In ogni caso, nelle due settimane trascorse dall’incontro-scontro con Burt, Noah ha dovuto fare i conti con una realtà che, passando gran parte degli ultimi anni all’estero, non ha potuto toccare con mano: la recessione economica.

 

Lima non aveva un granché da offrire nemmeno dieci anni fa, in effetti, e il tempo e la crisi non hanno decisamente aiutato. Si è presentato nell’altra officina di riparazioni d’auto della città, più per ripicca che per puro desiderio di fare il meccanico, ricevendo un ‘mi spiace, non assumiamo’ come risposta.

Tre paroline che gli hanno ripetuto praticamente ovunque abbia portato il suo striminzito curriculum, partendo da ‘Jim, il vostro rivenditore d’auto di fiducia’, passando per ‘Breadstix’ e finendo con il centro commerciale. Nada de nada.  

 

Poi, quasi per magia, gli si è presentata un’occasione. E a fornirgliela è stato Devon, il ragazzo della sua sorellina che, proprio tramite Deborah –per qualche motivo Noah non ha ancora avuto il piacere di fare la sua conoscenza di persona, davvero strano–, gli ha parlato del negozio di suo nonno e del fatto che è a corto di personale. Un’occasione da cogliere al volo e un motivo in meno per odiarlo per aver deflorato sua sorella. Giusto? Giusto?

 

 

Ora che si trova all’interno del famoso negozio del nonno e ha la possibilità di vedere di cosa si tratti, però, l’odio nei confronti di quel ragazzo sta subendo una brusca impennata. Perché intorno ad uno smarrito Noah ci sono solo materassi. Materassi ovunque. È come se fosse finito in una …

 

“Benvenuto ne ‘La terra del materasso’, giovane cliente!” l’apostrofa un uomo piuttosto in sovrappeso in giacca e cravatta, sbucando da dietro un enorme pila di materassi. “Se ti serve un materasso nuovo per conciliare il tuo sonno, questo è il posto giusto!”

 

“… sì, certo. Sto cercando il signor Gordon Slawski” lo gela, smorzandone l’entusiasmo. “Sono Noah Puckerman, mi ha mandato qui suo nipote”

 

“Ma sono io Gordon Slawski!” squittisce allegro l’omone, strappandogli una mano dalla tasca e stringendogliela con forza. “Devon mi ha detto che cerchi un lavoro e potrei essere la persona giusta per offrirtene uno!”

 

“Può  smettere di urlare … per favore?”

 

“Oh, sì, mi spiace … posso chiamarti Noah?” chiede, abbassando immediatamente il volume della voce. “Certo che posso” annuisce, rosso in viso per qualche genere di motivo, probabilmente l’affanno per essere sbucato con un saltello, prima ancora che l’ex soldato possa anche solo abbozzare una risposta. “Dicevo … ah, sì, che mia moglie con gli anni è diventata sempre più sorda ed ora devo urlare per farmi capire. Quindi è per questo che parlo così forte. Capisco che possa essere fastidioso, però-”

 

“Tornando al lavoro …” lo interrompe Noah, cercando di riportarlo alla cosa che gli preme di più. Potrebbe sembrare un atteggiamento indolente, il peggiore da tenere durante un colloquio. Eppure …

 

“Già, tornando al lavoro” conferma l’omone, salvo poi interrompersi ed indicare il ragazzone che ha di fronte con un sorriso furbo e l’indice della mano. “Sei un tipo diretto, mi piace. Quindi, stavo dicendo … quali sono le tue credenziali?”

 

“Ho un diploma di scuola superiore ma ho iniziato a lavorare prima, da quando avevo sedici anni” inizia Noah, estraendo il curriculum dal taschino posteriore dei jeans. “Per la precisione come apprendista meccanico, in un’officina della città. A diciotto anni mi sono arruolato nell’esercito e pochi mesi fa ho ottenuto il congedo”

 

“Se sei arrivato qui, la tua ricerca di lavoro non deve essere andata un granché bene, uhm?” punge mister Slawski, dimostrando un’arguzia totalmente inaspettata visto l’aspetto e il modo in cui si è posta fin’ora.

 

“Ammetto di non aver mai pensato a rispondere venditore di materassi quando mi chiedevano che lavoro avrei voluto fare da grande” fa con onestà Noah. “Però sono un tipo che ha voglia di fare, che non si tira mai indietro di fronte ad un compito, che sa dare retta alle direttive del capo e, se necessario, sa farsi ubbidire. E voglio fortemente questo lavoro

 

“Beh …” mormora il proprietario de ‘La terra del materasso’, sistemandosi il nodo della cravatta “… dipendesse solo dallo spirito sicuramente saresti già assunto. Hai grinta e sembri bello massiccio, il che non fa male … come te la cavi con il montaggio delle intelaiature dei letti?”

 

“Non saprei, posso sempre imparare. Sono bravo nei lavori manuali”

 

“Uhm …” rimugina ancora l’uomo, sempre più pensieroso “ … e saresti anche disposto a scaricare manualmente il camion di trasporti se per qualche malaugurata ipotesi il muletto dovesse rompersi?”

 

“Certo” asserisce Noah. In fondo fa pesi tutte le mattine e quando era ancora di stanza a Fort Benning era il numero tre di tutte le compagnie come peso sollevato, senza considerare che i materassi, finché sono avvolti nel cellofan, si possono sempre trascinare per terra.

 

“Bene, perché è per questo che Barry, quello che tu potresti sostituire, se ne è … diciamo … andato” mormora Mr. Slawski, tamburellando le dita sul mento.

 

“Non riteneva che scaricare un camion fosse tra i suoi compiti?”

 

“Gli sono uscite un paio di ernie la scorsa settimana, durante una consegna” ammette l’uomo, aggiungendo senza apparente motivazione una risatina con annesso ‘grugnito da maiale’, una delle peggiori risate possibili tra l’altro. “Non sono un mostro che ride di queste cose, ma Barry diceva sempre che sono fuori forma e che rischio di spezzarmi a metà solo piegandomi a raccogliere una matita e … lasciamo stare, ok?”

 

Le persone così dispersive non sono mai state le preferite di Noah, bisogna dirlo. Ma sopportare questo tizio facendo finta di sorridere alle sue freddure o alle sue storielle è un prezzo che è disposto a pagare pur di avere un lavoro.

“No, ho capito. Lui diceva agli altri di mettersi in forma e alla fine è rimasto bloccato con la schiena. Cristallino e soprattutto divertente

 

“Sì, beh, anche se ci capisce benissimo che fingi apprezzo lo stesso lo sforzo” ridacchia –ancora la risata a maialino, argh– l’uomo battendo la mano sul braccio di Noah che continua a non sapere come comportarsi. “Che ne diresti di fare un giro del negozio mentre ti racconto un po’ cosa dovresti fare se decidessi di prenderti in prova?”

 

“P-prova?”

 

Slawski annuisce, facendo leva con la mano sulla schiena di Noah per farlo camminare. “Siamo in piena recessione, caro il mio … scusa, mi sono dimenticato il tuo nome”

 

“Tutti mi chiamano Puck, è molto più semplice da ricordare di Noah Puckerman” ironizza, inutilmente maligno. È pur sempre il suo quasi/forse capo.

 

“Puck, d’accordo. Dicevo … siamo in crisi, non posso assumerti così, perché mi sembri simpatico e mio nipote insiste nell’elogiarti quasi avesse un debito di sangue nei tuoi confronti” gli spiega, non sapendo nemmeno quanto sia vicino alla realtà dei fatti. “Ti assumo come facchino e nel frattempo tu vedi come funzionano le cose qui da noi. Un mese o due di prova e poi, se ti dimostri capace oltre che simpatico, ti assumo”

 

“Avevo capito che stesse cercando un venditore ma … beh, stando così le cose mi pare giusto” è costretto ad ammettere Noah. “E quanto sarebbe la paga di un facchino in prova?”

 

Mr. ‘La terra del materasso’ ride –potrebbe rifiutare il lavoro solo per la sua risata– ancora, estremamente divertito. “Te l’ho già detto che mi piacciono i tipi diretti?”

 

Il fatto che sembri un lavoro di sola fatica e che tra un paio di mesi potrebbe trovarsi di nuovo alla ricerca di un posto non lo disturbano più di tanto. Come mai tanta fretta, direte voi? Di sicuro non è l’esasperazione di non trovare nessuno disposto ad assumerlo visto che, pur avendo chiesto praticamente ovunque in città, è alla ricerca solo da una settimana a dire tanto. 

Il motivo vero è che, in questo momento, Noah ha un bisogno disperato di dimostrare a sé stesso di poter andare avanti anche senza il supporto di Burt. E da questo punto di vista questo lavoro gli serve davvero, non stava affatto mentendo.

 

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Quando Kurt le aveva scritto di aver bisogno di una mano per qualcosa di non meglio specificato, la prima cosa a cui Quinn è riuscita a pensare è stata Puck, il motivo per cui nelle ultime due settimane il suo collega è stato terribilmente distante, apatico e inconsolabilmente triste. Inutile dire che ci ha preso alla grande.

 

“American Family Motel” mormora la ragazza, leggendo ad alta voce una copia del curriculum che Puck ha spedito a Burt. “Strano nome per un motel. Tra l’altro … perché vive in un motel? Non ha una famiglia da cui tornare?”

 

“Te l’ho detto, situazione famigliare difficile” risponde con il tono un po’ seccato Kurt, intento a guidare la sua macchina nel fastidioso seppur esiguo traffico di Lima. “Suo padre è una specie di presenza che aleggia dappertutto e da nessuna parte in particolare; sua madre invece l’ha cacciato di casa durante l’ultimo anno di superiori e da allora non si parlano più”

 

“E io che mi lamentavo della mia, di famiglia” sospira Quinn, rilassandosi contro i sedili piuttosto comodi dell’auto del suo amico. Getta poi uno sguardo a Beth, seduta dietro e rimasta stranamente silenziosa per tutto il viaggio. Fatto più unico che raro considerando soprattutto che è appena uscita da scuola e quindi di cose da dire ne avrebbe un’infinità. “Tutto bene, tesoro?” chiede per sicurezza.

 

“Mami …” fa la piccola, senza smettere per un secondo di guardarsi intorno e accarezzare la pelle dei sedili “… mi piace quefta macchina. La cambiamo con la noftra?” chiede a sua volta, strappando una risata cristallina alla madre e un sorriso sincero a Kurt.

 

“Quando diventerò un’insegnante di ruolo ti prometto che ne prenderemo una bella come questa” concede la donna, sapendo bene che certe volte Beth può essere dura da convincere a mollare l’osso.

 

“E quando è?”

 

“Spero il prima possibile, tesoro” sorride Quinn, allungandosi per riuscire a pizzicare una della gambe della bimba e farle il solletico, un modo come un altro per distrarla e impedire alla conversazione di continuare. Con i bambini è decisamente più facile.

 

Beth però, dopo una serie di risatine e ‘No, mami, bafta’, è di nuovo pronta a ricominciare a fare domande sulla questione macchina.

Per fortuna di Quinn, prima che la bimba possa avere il tempo materiale di tornare alla carica, Kurt si infila nel piccolo parcheggio del motel e si ferma, mormorando un contrito “Ci siamo”

 

La bionda lo osserva cercare di togliersi la cintura con una serie di movimenti tentennati, ognuno impregnato di nervosismo più del precedente, prima di allungarsi e aiutarlo.

“Cosa vuoi che faccia? Che chieda al proprietario del motel in che camera andare?”

 

“N-no, quello no … è nella numero 8” mormora, continuando a mostrare evidenti segni di tensione. “È che … non so proprio cosa succederà e … potrei aver bisogno di un’amica. Potrei aver bisogno di te

 

“Per chiamare la polizia nel caso … uhm … ti dia un cazzotto?”

 

Gli occhi azzurri di Kurt la fissano per qualche secondo, esterrefatti. Poi lui si lascia andare ad un timido sorriso. “Sono sicuro che non succederà” farfuglia, come se la cosa fosse divertente. “Ti chiedo solo di aspettare qui … e grazie

 

Quinn annuisce e gli sfiora il braccio per fargli capire che è tutto ok. Solo quando la portiera si richiude e Kurt si avvia a passo deciso verso il porticato dell’edificio basso del motel, la bionda si lascia andare ad un verso di frustrazione.

 

C’è qualcosa in tutto questo che non le piace. Come fa Kurt a sapere che, esattamente come il suo fratellastro, non finirà con il prendersi un pugno sul naso?

 

“Dove fiamo mami?”

 

Quinn sospira ancora, slacciandosi la cintura per poter girarsi verso la figlia. “Da un amico di Kurt. Mentre aspettiamo, perché non mi racconti la tua giornata a scuola? La mia è stata noiosissimissima

 

Beth ride divertita per l’espressione buffa della madre e poi inizia immediatamente il suo show personale chiamato ‘tutto il Beth minuto per minuto’.

Quinn invece allunga una mano per quella della figlia, cercando di concentrarsi sul suo racconto e di pensare all’unico consiglio che vale quando si rischia di mettersi in mezzo a problemi di cui non si conosco la soluzione: farsi i fatti propri. Già, le ultime parole famose.

 

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Un contratto da facchino in prova per un mese, ecco cos’è riuscito a strappare Noah Puckerman da ‘La terra dal materasso’.

 

“Maledetto ciccione” borbotta, scuro in viso, ripiegando il bozzetto del contratto di assunzione che dovrà firmare la prossima settimana. “Mi sono fatto fregare dal suo lardo”

 

In fondo, però, non è nemmeno così arrabbiato. Gli rode solo l’essere partito con l’idea di fare il venditore ed essere invece finito con il diventare il facchino. Cosa che, se solo riuscisse a ragionare a mente fredda, gli sarebbe sembrata strana fin dall’inizio: chi è la persona che assume uno su consiglio del nipote mettendolo subito a fare un mestiere di cui non conosce nulla?

 

Borbotta qualche altro insulto tra i denti, muovendosi per la stanza senza una meta e controllando l’ora sull’orologio da polso. Per parlare con Deborah e dirle del suo nuovo lavoro deve infatti aspettare la fine dei suoi allenamenti con le cheerleader.

 

Visto quanto tempo manca ancora, opta per la migliore distrazione possibile: la musica. Si avvia verso lo stereo, pensando già a quale disco avviare. Forse oggi è la giornata giusta per mettere su i Led Zeppelin.

 

Toc, toc, toc.

 

Si gira verso la porta, sorpreso, buttando immediatamente un occhio all’orologio –ci ha appena guardato. Che memoria, eh?

Chi diavolo potrebbe essere? Burt no, ovviamente, non dopo quello che si sono detti. Deborah sicuramente è ad allenarsi, i suoi commilitoni sono partiti da poco più di un mese per l’Iraq … insomma, non ci sono molte alternative.

 

Per questo rimane impietrito quando, aprendo la porta, si trova di fronte Kurt. O meglio, la versione un po’ più adulta del Kurt che conosce.

“C-ciao Noah” sussurra timidamente il ragazzo. “Sono Kurt” aggiunge, quasi abbia paura che si possa essere scordato di lui o che non lo riconosca.

 

L’istinto, a volte, gioca brutti scherzi. E questo è uno di quei casi.

Perché ancora prima di potergli fargli dire qualcos’altro, Noah ha già urlato un “Vattene via!” talmente forte da essere stato udito persino dai suoi commilitoni e ha già richiuso la porta in faccia a Kurt.

 

Le sue mani stanno tremando, così come il resto del suo corpo. Se ne accorge solo quando riesce a riscuotersi dal suo torpore e a fissare il legno della porta che ha appena richiuso con violenza. Le sensazioni che prova non sono diverse da quelle che ha già sentito in tante altre occasioni, fin troppe di più di quante ne meriterebbe una persona normale. È la paura che muove il suo istinto, lo fa da quando ne abbia memoria. E al tempo stesso si odia per quello che ha fatto ma davvero, non avrebbe potuto fare altrimenti. Non ora, non dopo aver parlato con Burt.

 

Toc, toc, toc.

 

“Ti ho detto di andartene, Kurt” geme, appoggiando la fronte contro la porta. “Per favore”

 

“Non sono Kurt” gli risponde una voce femminile. “Aprimi un secondo, devo dirti una cosa importante”

 

C-chi sei?”

 

“Hai solo un modo per scoprirlo, Puck

 

Noah si morde forte un labbro, sforzando ogni neurone del suo cervello per ricordare a chi possa appartenere quella voce abbastanza bassa e delicata. Rachel no, Mercedes nemmeno e … ha avuto troppe ragazze per potersele ricordare tutte.

A quanto sembra però lei sa bene chi è, quindi è facile aspettarsi che sia un’amica di Kurt.

Sospira, chiudendo gli occhi per qualche secondo. L’istinto, ancora una volta, vorrebbe tenere quella porta sigillata. Eppure …

 

La apre con un gesto brusco, pronto a richiuderla nel momento esatto in cui avrà riconosciuto la persona a cui appartiene quella voce.

 

A dispetto di ogni sua previsione, però, si trova a rilassarsi pian piano mentre i suoi occhi chiari scrutano la donna dai lunghi capelli biondi che si trova davanti. Non riesce a ricordarsi chi sia, eppure c’è qualcosa in lei che gli sembra famigliare. Di sicuro non gli occhi, perché un paio così particolare, un misto di verde e marrone chiaro, sono troppo difficili da dimenticare. Dove l’ha già vista?

 

Dall’altra parte, anche la bionda sembra sorpresa di vederlo, cosa piuttosto strana visto che ha bussato alla sua porta e l’ha chiamato Puck.

 

Non appena solleva lo sguardo da quegli occhi particolarmente magnetici e riesce ad intravedere Kurt, abbastanza lontano da non sentire ma non troppo da non farsi vedere, è quasi tentato di dare retta al suo istinto e chiudere la porta in faccia anche a lei.

Si trattiene ancora una volta dal farlo. Il motivo stavolta c’è: vicino ad Hummel c’è una bambina, una specie di angioletto di non più di cinque anni che le ricorda tremendamente … lei, la sorella di Sam.

 

“Grazie per avermi aperto. Io mi chiamo Quinn e non ti conosco, se non per quello che mi ha detto Kurt” inizia la giovane donna, indicando Hummel con una mano e attirando l’attenzione su di sé. “Non so cosa sia successo … non devo spiegarti certo il perché ... sono sicura che non siano fatti miei e, se fossi io al tuo posto, non mi ascolterei. Anzi … non era nemmeno mia intenzione immischiarmi fino a due minuti fa. Però una cosa mi sento in dovere di dirtela. Qualsiasi cosa ti abbia fatto lui, gli pesa enormemente. Perché è vero, non lo conosco da molto, ma da quando ha saputo di te sta molto male e … quanto pensi sia evidente se me ne sono accorta io?”

 

Noah non risponde, limitandosi a fissare il pavimento. Chi è questa Quinn? E perché sembra sapere così tante cose?

 

“Ti chiedo di ascoltare cosa vuole dirti, solo questo. Poi potrai mandarlo via e non parlargli più ma … se c’è stato qualcosa tra voi penso che tu gli debba almeno questo, no?”

 

L’ex soldato aggrotta le sopracciglia, piuttosto sicuro di aver capito male o, in caso contrario, sicuro di star fraintendendo il significato di quel ‘qualcosa tra voi’. Ancora una volta, però, rimane in silenzio.

 

“Capisco quanto ti dia fastidio che sia io, una persona che non conosci, a dirti cosa fare” riprende la donna, in tono estremamente più dolce rispetto a quello deciso usato poco fa. “Ma, per favore, ascolta Kurt e poi valuta cosa fare. Solo … ascoltalo

 

Chi cazzo sei?’, ‘Chi diavolo ti credi di essere per farti gli affari miei?’, ‘Cosa pensi che dovrei farmene dei tuoi consigli?’, ‘Fatti i cazzi tuoi, stronza!’, etc etc etc … la cosa strana non è che tutte queste domande passino nella testa di Noah, no, perché la situazione che sta vivendo è quasi surreale. La cosa veramente strana è come ognuna di queste venga schiacciata da una sola affermazione che si sta facendo largo tra i suoi pensieri: ‘A chi importa chi sia questa o chi si creda di essere se ha così fottutamente ragione?

 

“Credo … credo che farò come dici, sì” farfuglia, accarezzandosi la collottola.  

 

“Sto solo cercando di aiutare un amico” risponde con un sorriso che fa sorridere anche lui di rimando. “Magari sto aiutando anche te, chi lo sa” aggiunge, prima di girare i tacchi.

 

Il nervosismo sale mentre osserva i due parlottare e aumenta in maniera vertiginosa quando Kurt, dopo una carezza alla bambina, si dirige verso di lui.

Solo un enorme sforzo di volontà gli impedisce di mandare a quel paese tutto e rintanarsi di nuovo in camera ma, dopo le parole di quella bionda, l’odio per non aver parlato con Kurt è molto più forte della paura.

 

L’imbarazzo è il terzo sentimento che arriva a contorcergli lo stomaco non appena il giovane Hummel gli arriva di fronte. Perché né lui né Kurt dicono nulla, limitandosi ad aprire la bocca un paio di volte senza emettere un singolo suono, probabilmente spaventati dal dire qualcosa di sbagliato –Noah sicuramente, su Kurt può solo immaginarlo.

 

Quando ormai la situazione sembra in una fase di stallo, Puck si fa da parte, permettendo a Kurt di entrare.

“A-accomodati” balbetta, incerto sul come procedere. Che ne è stato del vecchio Puckzilla determinato e sicuro di sé?

“Mi dispiace di averti chiuso la porta in faccia” mormora dopo altri secondi di silenzio, imitando Kurt e fissando il pavimento. “È che … posso essere sincero? Avevo paura”

 

“D-di me?”

 

“No. Cioè …

Ha detto di essere sincero, no? Allora è giusto continuare ad esserlo.

Kurt non risponde e non sembra dare segni di vita, quindi Noah interpreta il suo comportamento come una specie di via libera.

“La bionda di prima … lei mi ha detto di … che dovevi dirmi una cosa. Cosa devi dirmi?”

 

“Mi dispiace di non essere mai riuscito a capire fino in fondo il tuo dolore”

 

Oh. Allora … oh.

 

“Ora, se non vuoi più parlarmi, ti posso capire” aggiunge Kurt, mentre ora è il turno di Puck di cercare di assimilare la cosa. “Però ci ho pensato molto in questi anni e … tu hai sbagliato, penso che tu te ne renda conto, ma noi? Noi abbiamo sbagliato quanto te e tutti, ognuno di noi, sapeva quanto fossi legato a Sam. Più di me, più di Mercedes … come i suoi fratelli, ne sono sicuro. Perciò sì … mi spiace di non aver capito il tuo dolore. Di … d-di essere stato egoista”  

 

Avete presente la sensazione che si prova dopo aver raggiunto qualcosa di agognato per tanto tempo? Ecco, quello è ciò che sta provando Noah.

E non è l’essere giustificato, l’essere perdonato o qualsiasi cosa di questo genere. È, più semplicemente, l’essere capito per la prima volta nella sua vita.

“Mi rendo conto solo ora di …” mormora all’improvviso, cogliendo di sorpresa Kurt “… di aver rovinato il rapporto tra te e Mercedes dicendo … urlando davanti a tutti della cotta che avevi per lui. Perciò … scusami, se puoi

 

“L’avevo già persa” ammette Kurt. “Quando abbiamo saputo di Sam … noi non eravamo più nemmeno così amici. Non so come sia successo, so solo che … quello che tu hai detto al funerale non è stato altro che un buon motivo per rendere tutto … definitivo

 

“Capisco” mormora Puck, nervoso. E ora? Cosa dire adesso? Chi saprebbe cosa dire in un momento come questo?

 

Io ti perdono. Tu puoi … puoi perdonare me?”

 

Le parole di Kurt lo colpiscono come una granata e lui sa bene cosa voglia dire. “… per c-cosa?”

 

“Per aver detto … per aver detto che avrei preferito che a morire … insomma … che fosse …”

 

“Non ho mai dato peso a quelle parole, Kurt” lo interrompe, rivolgendogli un sorriso stentato. “Ti ho praticamente spinto io a dirle e … sì, all’epoca le pensavo anche io”

 

“Dillo, per favore”

 

“T-ti perdono” balbetta, abbastanza confuso dall’atteggiamento dell’amico.

 

“Ti perdono” ripete Hummel, sollevando lo sguardo e mostrando gli occhi lucidi. “Non mi importa di niente di quello che è successo, di quello che hai fatto, di quello che è successo … ho perso troppe persone importanti nella mia vita e … ho bisogno di te

 

A volte miliardi di parole non servono a nulla, a volte ne bastano appena quattro per dire tutto. E Noah capisce, guardando Kurt piangere per lui, per il dolore della sua assenza, che non tutte le cose complicate sono destinate a non risolversi

Perché sicuramente dire ti perdono non basta, non vuol dire nulla se buttato lì così, praticamente di getto. Ma non è questo il caso. Kurt non ha detto ti perdono perché l’ha rivisto dopo nove anni, bensì perché ha pensato nove anni a quello che è successo.

 

L’abbraccio in cui Puck stringe Kurt è la logica conseguenza e, se ve lo state chiedendo, non sta piangendo anche lui. Ha solo fastidio all’occhio offeso.

 

Ovviamente non funziona così, non si cancella il passato così facilmente con due parole e un abbraccio. Ad essere onesti, però, è un buon inizio per aiutarsi a voltare pagina.

 

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“Sorpresa!”

 

“Papà! Papà!”

Quinn si porta la mano sulla bocca, come fa sempre quando vede Beth allungarsi per aprire la porta, sgranare i suoi occhioni verdi e lanciarsi addosso al padre.

Non è mai stata una persona particolarmente emotiva o, per meglio dire, non ha mai apprezzato le manifestazioni eccessive dei propri sentimenti, ma vedere la sua piccola volare tra le braccia di Christian e stringerlo forte, magari sussurrandogli quanto gli è mancato come sta facendo in questo momento, è semplicemente troppo.

 

“Mi sei mancata da morire, scricciolo” ridacchia l’uomo, sollevando senza fatica Beth e sostenendo il suo peso con un braccio, permettendole di allacciare le braccine dietro al suo collo. “Allora è vero che ti sono caduti i denti davanti” nota con un sorriso, mentre la bimba annuisce con vigore. “E la Fatina dei denti ti ha portato i due dollari che ti spettano?”

 

!” esclama contenta. “Ce li ho nafcofti in camera” aggiunge a bassa voce perché, ovviamente, è bene tenere certe cose segrete.

 

“Fai bene a tenerli nascosti, scricciolo. E ciao anche a te, splendore” si rivolge finalmente alla donna in piedi davanti a lui, donandole pure uno dei famosi sorrisi marchio Smythe.

 

Fino a qualche tempo fa l’imbarazzo era tale che persino salutarsi, per questi due, era una cosa complicata e il classico dubbio tra ‘ci abbracciamo e basta?’ o ‘potremmo darci un bacio sulla guancia, non c’è nulla di male’ era la regola. Perché le cose tra Quinn e Christian erano complicate ancora prima di Beth, questo bisogna dirlo.

 

Oggi, invece, le cose sono cambiate, sono più leggere.

“Ciao Chris” lo saluta, allungandosi per lasciare un bacio a sciocco sulla sua guancia e pizzicandogliela tra le dita, evitando almeno per il momento di fare commenti sul leggero strato di peluria che la ricopre. “Come è andato il volo?”

 

Tokio Los Angeles non tanto bene, c’è stata parecchia turbolenza … grazie” fa a Quinn che, vedendolo un attimo in difficoltà, ha preso il trolley dalla sua mano e l’ha tirato dentro all’appartamento, chiudendo la porta alle sue spalle. “Los Angeles Columbus con scalo a Detroit invece è andato bene, anche perché ero così stanco che ho passato tutta la durata del volo a dormire della grossa”

 

“Papi ieri ho preso un ‘braviffima’ a fcuola! E la maeftra mi ha dato una ftellina! Fai che ne ho già … fette? Vieni a vedere la mia cameretta, dai!” si agita Beth, attirando l’attenzione del padre. “È bella e grande e ho un lettino grandiffimo

 

“Certo, scricciolo” ridacchia Chris, osservando prima la faccina entusiasta della figlia e poi il sorriso dipinto sul volto di Quinn. “Prima, però, pensavo di darti i regalini che ti ho portato”

 

“Oooooh” esclama Beth, facendo ridere i genitori, mettendosi subito a guardare oltre le spalle del padre. “Dove fono?”

 

“Tesoro, lascia almeno il tempo a tuo padre di rilassarsi un secondo”

 

“Tranquilla Q, va bene così” la tranquillizza, tornando a concentrarsi su Beth. “Comunque i souvenir sono nella mia valigia” sorride Chris, mettendo giù la figlia ma tenendole comunque una mano. “Potresti … aiutarmi a mettere il trolley sul tavolo, per favore?” chiede a Quinn che esegue subito, curiosa probabilmente quanto la figlia.

 

“Spero che tu non ci abbia speso troppo” fa la bionda, ottenendo un’occhiata di sbieco da parte di Chris, una di quelle che vogliono dire ‘Ti prego, stai parlando con uno Smythe, noi possiamo’.

 

“Ho speso il giusto” commenta semplicemente, aprendo la valigia in modo da ostruire la visuale a Beth, la cui testolina sporge di poco dal bordo della tavola. “Pronta?”

 

Fì!

 

Il primo oggetto che Chris estrae dalla valigia lascia Quinn di stucco, perché tra tutte le cose che aveva pensato di vedere spuntare dopo un viaggio in Giappone, un peluche grigio e bianco a forma di cuscino, con le orecchie grandi, gli occhi a palla bianchi e una foglia sulla fronte, è decisamente l’ultima che potesse aspettarsi.

 

“Che cos’è?” chiede, davvero curiosa, mentre la figlia non si fa troppi problemi e sta già abbracciando il suo regalo, contenta.

 

“Un coniglio!” esclama contenta la bimba. “Mami, è morbidiffimo!”

 

“Non è proprio un coniglio, è più un incrocio tra un procione e un orso” la corregge Chris, da bravo sapientone qual è. “Si chiama Totoro ed è uno spirito della Natura! … non fare quella faccia, Q …” sorride a Quinn, intendo a scuotere il capo perché ha già intuito come si evolverà la faccenda “… e sii contenta che sia riuscito a limitarmi e a non comprarle la versione a grandezza naturale, un metro e cinquanta di pura coccolosità”

 

“Ringraziamo Dio per questo” concorda, mascherando malamente un sorriso dietro la mano con cui sta facendo finta di massaggiarsi la tempia. Un bambino nascosto nel corpo di un adulto, ecco cos’è Christian Smythe in realtà.

 

“Sai cos’è uno spirito della Natura, scricciolo?” chiede alla figlia che, ovviamente, fa no no con la testa. “Per questo motivo ti ho preso anche questo” sorride di nuovo, appoggiando un cofanetto bello grande su cui campeggia la scritta ‘Studio Ghibli, Inc.’.

 

Fono cartoni?” chiede Beth, estasiata e al tempo stesso incerta, evidentemente dispiaciuta dal dover abbandonare il suo Totoro per poter aprire il cofanetto.

 

“Sono più che cartoni” fa Chris, allargando le braccia per rendere chiaro il concetto. “E sono bellissimi. Scommetto quello che vuoi che ti piaceranno anche più di quelli che hai visto fin’ora”

 

“Dopo li guardiamo, mami?” squittisce Beth, sempre più eccitata, rivolgendo i suoi occhioni verdi alla madre che non può fare a meno di annuire e sorridere.

 

“Sono sicura che tuo padre aveva già pensato a questa possibilità” mormora comunque, lanciando una frecciatina nemmeno troppo velata a Chris il quale, con la solita semplicità, si limita furbescamente a fare spallucce.

 

“Per te sono stato davvero combattuto, quindi-”

 

“Quindi spero che tu non mi abbia preso nulla, testone” l’ammonisce con lo stesso tono severo che usa le rare volte il cui Beth deve essere ripresa.

 

“Mi conosci, no?” sorride Chris. “Ho davvero fatto fatica a trovare qualcosa che non solo ti potesse piacere ma che avresti anche potuto utilizzare. Alla fine …” sorride di nuovo, appoggiando una scatola sottile e ampia di fronte a Quinn “… ho optato per queste

 

“Io lo sapevo, sei sempre il solito. Avrei scommesso che mi avresti … oh

È facile predicare bene, lo è meno quando si ha a che fare con un regalo d’impatto –enorme impatta a giudicare dal modo in cui rimane ferma con il coperchio della scatola in mano e un’espressione quantomeno sbigottita in volto– di cui ci si innamora all’istante.

 

“Che cosa sono mami?” chiede Beth, incuriosita dalla reazione della madre.

 

“Sono delle cinture un po’ particolari, si chiamano obi” le risponde Chris, mentre Quinn continua a non trovare le parole adatte a descrivere quanto quel regalo le piaccia. “Di solito si indossano sugli abiti della tradizione giapponese ma la commessa del negozio dove le ho comprate mi ha assicurato che si possono usare tranquillamente come accessori anche sui vestiti ‘normali’”

 

Beth, a differenza della madre che quantomeno è riuscita ad appoggiare il coperchio della scatola sul tavolo è sta sfiorando il tessuto colorato, non sembra gradire particolarmente, molto più concentrata sull’avere finalmente il padre per sé.

“Vieni a vedere la mia camera, dai!” prega l’uomo, strattonandogli con decisione la camicia.

 

“Arrivo subito, dammi un solo secondo” le fa il padre, tirando fuori dal trolley –avrà dovuto pagare un patrimonio di sovrattasse sul trasporto visto quanta roba c’è dentro– un libro piuttosto massiccio. “Non mi sono azzardato ad addentrami nella letteratura giapponese … perché sì, ne capisco poco di quella nostrana figurarsi straniera … e ho deciso di non farmi picchiare da te portandoti dei manga, quindi ti ho preso questa” spiega a Quinn, porgendole il libro. “Parla un po’ di tutto, dalla geografia alla storia passando per le tradizioni. Ci ho dato un’occhiata, è fatto molto bene. Spero ti possa piacere”

 

“G-grazie, Chris … sono regali meravigliosi” gli sorride Quinn, di rimando, estremamente sorpresa dal tipo di presente piuttosto che dagli oggetti in sé. A volte tende a dimenticarlo ma l’uomo che le è appena passato vicino seguendo Beth verso la sua camera è la persona che più la conosce meglio al mondo insieme a Santana.

 

Mentre prende tra le mani uno degli obi, su cui tra l’altro è stampato un bellissimo motivo floreale, le parole della sua migliore amica ritornano dall’antro del cervello in cui le aveva tenute nascoste per tutto il pomeriggio escono prepotentemente.

E si scopre, come sempre quando vede Christian con Beth o quando la sua sola presenza gli fa tornare alla mente una valanga di sensazioni mai completamente seppellite per via della complessità e al tempo stesso dell’ambiguità del loro rapporto.

 

Sospira, pensierosa, dopo essersi accorta di stare sorridendo praticamente dal momento in cui quell’uomo è entrato in casa.

 

Il difetto peggiore di Santana Lopez? Che ha quasi sempre ragione.

 

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“Esci anche stasera?”

 

Deborah inchioda, usando la porta che si affaccia sul soggiorno per fermare la sua corsa a perdifiato. Sperata di passare il controllo indenne, peccato.

“Sì, mi vedo con Devon … perché?” chiede, cercando di mascherare il leggero nervosismo che le prende la bocca dello stomaco ogni volta che mente a sua madre. Non le piace farlo, così come non le piace il modo in cui gli unici due famigliari che ha al mondo non si rivolgano la parola da anni, ma per suo fratello Noah è disposta anche a dire una bugia.

 

Una donna sulla cinquantina con lunghi capelli bruni si sporge dal divano, osservando insistentemente gli occhi della figlia.

“Vedi di non fare cavolate” le ricorda, evitando fortunatamente la solita paternale che chiunque abbia una madre e sia stato adolescente ha ricevuto. “E torna a casa presto, domani hai scuola”

 

“Ok, mamma. Non mi aspettare alzata”

 

Solo quando la porta di casa Puckerman si richiude alle sue spalle Deborah riprende a respirare normalmente. Onestamente trova un po’ ridicolo questa storia del mentire e non dire a sua madre del ritorno di Noah, soprattutto considerato che Lima non è una metropoli, forse non è nemmeno una cittadina vera e propria e, prima o poi, da qualcuno lo verrà a sapere in ogni caso. 

 

Sbuffa, vagamente infastidita, infilandosi nella sua piccola Ka color bronzo. Appoggia la borsa sul sedile passeggero e mette in moto al volo, quasi abbia una colonna di Uruk Hai alle spalle. Purtroppo, è semplicemente una guidatrice molto aggressiva.

 

La cosa che più la colpisce di tutto quello che le sta succedendo è quanto suo fratello sia cambiato, non solo confrontando colui che è partito con chi è tornato. Il mutamento è stato quasi radicale perfino rispetto a com’era appena un anno fa. 

Quella che più la infastidisce è la perenne sensazione di non sapere la totalità di ciò che gli è capitato. Sa della terapia, ma cosa l’ha scatenata? E, ancora, sa a grandi linee della tremenda litigata avvenuta al funerale di Sam anni fa più qualcosina che Noah si è lasciato sfuggire dopo la discussione con Burt di due settimane fa, ma la verità nessuno gliela ha mai detta. Non sarebbe più semplice se suo fratello si confidasse completamente con lei? Crede che sia ancora la mocciosa che aveva paura del buio? Probabilissimo, conoscendo Noah.

 

Ferma la macchina dopo nemmeno cinque minuti di viaggio, accostando sul ciglio della strada e prendendo fuori il cellulare dalla tasca dei suoi jeans ingannare l’attesa.

Peccato che non abbia quasi il tempo di sbloccare il telefono visto che, circa un secondo e mezzo dopo che ha spostato il cambio sulla P di parcheggio, la portiera sul lato del passeggero si apra.

 

“Mi spiace” sorride la giovane ragazza, cercando di mantenere un’espressione seria. “Abbiamo cambiato i materassi due anni fa, siamo a posto così”

 

Lo sguardo pieno di odio e il dito medio che le rivolge Noah ancor prima di essersi messo a sedere vale interamente la spiacevole sensazione di dover mentire a loro madre.

 

“Wow, abbiamo una comica tra noi” borbotta l’uomo, allacciando la cintura. “Davvero simpatica, non c’è che dire. E comunque io non li vendo i dannati materassi, li imballo e li trasporto”

 

“Davvero?” mormora Deborah, un po’ meno in vena di battute di poco fa. “Perché Devon mi aveva detto che-”

 

“Già, quello che tu hai poi detto a me” la interrompe, borbottando ancora. “Peccato che il nonno sia decisamente più sveglio del nipote, a quanto pare”

 

“Effettivamente erano quasi due giorni che non prendevi Dev per il culo” commenta Deborah, rimettendo in moto. “Solito posto?”

 

“Per me è uguale, volevo solo parlare con te di persona”

 

La ragazza sorride, evitando di dire ad alta voce a quel ruffiano di suo fratello quanto le piaccia sapere di poter essere importante per lui, soprattutto dopo che lui ha fatto e sta facendo ancora tanto per prendersi cura di lei.

“Quindi …” riprende Deborah, dopo un paio di minuti di silenzio che non sono decisamente da Noah Puckerman “… guadagnerò più di te?”

 

“Una comica nata” ripete il fratello, stavolta sorridendo. “Spererei in tempi brevi di essere preso definitivamente e di fare il venditore più che scaricare camion. Per il momento però il mercato offre questo e non me la sono sentita di rifiutare”  

 

“Messaggio ricevuto, niente più prese in giro” ridacchia Deborah, facendogli l’occhiolino.

 

“Puoi farlo, tranquilla, ormai sto facendo l’abitudine alle tue continue frecciatine catt- ahia!” geme, massaggiandosi la nuca su cui la dolce sorellina ha appena stampato una cinquina.

 

L’ex soldato scoppia a ridere subito dopo, anticipando di pochi istanti la ragazza al volante.

Il loro rapporto è cambiato, si potrebbe dire che è maturato con loro, e la verità è che a nessuno dei due dispiace troppo la direzione che sta prendendo. Un amore fraterno che nemmeno la distanza è riuscito a scalfire e, al tempo stesso, un rapporto tra pari di reciproca condivisione dei propri problemi/vittorie, cosa non così scontata vista la differenza di età.

 

“Da domani inizio a lavorare e direi che posso già cominciare a cercare un appartamentino in affitto” riprende Noah. “Vorrei che tu venissi con me”

 

“Ovvio” cinguetta Deborah. “E per i mobili potremmo … ah già, ci pensi tu all’arredamento. Partiamo con i materassi?”

 

“Farò finta di non aver sentito” borbotta Noah. “Comunque ai mobili non ci penseremo solo noi. Nel senso che … potrei chiedere a Kurt di dare una mano”

 

“Sarebbe una figata visto il suo gusto estetico” concorda la ragazza, cercando di non ridere. Perché sa già, senza nemmeno bisogno di guardare, che Noah non si aspettava una reazione del genere. “Cosa c’è?” cinguetta con innocenza, osservando con la coda dell’occhio l’espressione confusa di suo fratello.

 

“Beh … se chiedo una mano a Kurt vuol dire che abbiamo fatto pace. La cosa però non sembra averti molto sorpresa” spiega, perplesso. A meno che …

“Tu lo sapevi, vero?” le fa, puntandole un dito contro con fare accusatorio.

 

“Diciamo che lui potrebbe avermi chiesto dove ti nascondevi e io potrei avergli detto il numero della tua camera di motel” tenta, molto meno convinta della bontà della propria azione. “Guarda che gli ho parlato solo dopo che tu e Burt avete discusso. Ed è stato lui a cercare me, non il contrario” precisa immediatamente. “Sei … arrabbiato?”

 

“No, è che … non me l’aspettavo” risponde tranquillamente Noah. Che motivo avrebbe di arrabbiarsi? “Non sapevo foste in contatto, ecco”

 

“Lui, suo padre e Carole sono gli unici che abbiano provato a stare vicino a me e agli Evans” farfuglia, improvvisamente seria come se un peso le si sia posato sulle spalle. È questo dunque che loro sentono ogni volta che torna fuori quella storia?

“E poi a scuola lo vedo sempre, è un mio professore. Spesso ci fermiamo a parlare del più e del meno, a volte mi offre un caffè della sala insegnanti”

 

“Ci tiene davvero a noi

 

“Già” asserisce Deborah, prendendosi un attimo per sé per riuscire a parcheggiare al meglio di fronte al locale appena fuori Lima dove possono passare in tranquillità le loro serate tra fratelli. “Io non so esattamente cosa sia successo e non sono sicura siano esattamente fatti miei” riprende dopo qualche secondo, usando quasi le stesse parole di Quinn e sorprendendo Noah. “Però posso dirti che Kurt è stato malissimo. Suo papà stava male e tutti i suoi amici erano sparpagliati in giro per l’America. O il mondo. O peggio. Perciò … cerca di ricordatelo, ok?”

 

Eccolo qui, l’imbarazzante momento in cui tua sorella di dieci anni più giovane di te ti insegna, anche se in maniera inconsapevole, una delle lezioni più importanti: di certe persone non si può dubitare.

“Me ne ricorderò, promesso”

 

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Beth solitamente non è una bambina capricciosa, non lo è mai stata. È proprio per questo che è per Quinn è quasi una tragedia vederla puntare i piedi, urlare, piangere, dimenarsi come un’ossessa fino al punto di tremare per la rabbia come sta facendo ora. Una reazione ancor più inaspettata visto la spensieratezza e la gioia che ha manifestato durante tutta la serata e persino al momento di prepararsi per la nanna.

 

“Che succede?” farfuglia Christian, entrando in bagno con un’espressione preoccupata in volto.

 

Quinn si porta indietro i capelli, sospirando e lasciando passare il padre di Beth per permettergli di sollevare la figlia, avvolta nel suo pigiamino verde, e di stringerla tra le braccia per cercare di calmarla.

“Non vuole che tu dorma sul divano”

 

L’uomo annuisce, cogliendo al volo. “Perché, scricciolo?” chiede comunque, rivolgendosi direttamente a Beth che pian piano sta smettendo di piangere. “Vuoi che venga a dormire con te?”

 

“E la m-mam-mma” singhiozza la piccola contro la spalla del padre. “N-nel lettone”

 

“Facciamo così, scricciolo” fa Chris dopo qualche secondo passato a scrutare gli occhi nervosi di Quinn. “Ora io ti porto nel lettone, ti soffio il nasino e ti rimbocco le coperte. Io e la mamma abbiamo alcune cose di cui parlare, però ti prometto che dormiremo tutti insieme stanotte. Ok?”

 

Quinn è tentata dal rispondere alla semplicità con cui l’uomo sembra affrontare una questione molto più complicata di quel che può apparire ma, di fronte al sorriso sghembo che Beth rivolge ad entrambi, soddisfatta di aver raggiunto il suo scopo, è costretta a mordersi la lingua.

 

Lo fa solo per i dieci minuti che Chris impiega a mettere a letto sua figlia perché, non appena torna in bagno per parlare con lei sfoggiando un’aria trionfante, non può trattenersi.

“Che diavolo pensi di fare?” sibila tra i denti, evitando accuratamente di urlare.

 

“Accontento nostra figlia” risponde con snervante nonchalance Chris. “Sono anche io imbarazzato dal dormire con te dopo tanto tempo, cosa credi?”

 

“N-non è questo” cerca di dire con sicurezza Quinn, sperando di non arrossire. “È che non vorrei che Beth-”

 

“Che Beth cosa? Si illudesse di qualcosa?” chiede Chris, per fortuna senza il solito sorriso strafottente da Smythe. “Si rende conto perfettamente della situazione e non scambierà il dormire assieme per una notte con il tornare assieme dei suoi genitori”

 

“Tu … tu non … tu la idealizzi troppo. Non è così matura” lo gela la bionda, assumendo un’espressione dura. “Come pretendi che capisca certe cose?”

 

“Lei lo capisce, punto. Come capisce che siamo una famiglia, nonostante tutto, e capisce che le voglio un bene dell’anima e farei di tutto per lei”

 

“No, non lo capisce” ribatte Quinn, testarda. “Perché se lo capisse come dici tu, non avrebbe passato le ultime settimane a chiedermi perché non eri ancora venuto a trovarci qui a Lima”

 

Ecco qui la cosa che non è mai riuscita a dire ad alta voce: accusare Christian Smythe di aver sbagliato. Non è un’accusa vera e propria come lo sarebbe aver gridato ad alta voce ‘sei un genitori incapace perché non sei presente. Anzi, non puoi nemmeno considerarti suo padre perché non ci sei mai’, ma l’effetto è praticamente lo stesso.

 

E non è stata Santana a svegliarla dalla sua, come l’ha definita la stessa latina, ingenuità e non è stata la discussione avuta in mattinata a convincerla ad affrontare questo argomento. È stata la stessa Beth che ormai è abbastanza grande da manifestare il proprio disagio emotivo come ha fatto durante le ultime settimane e poco fa con quella scenata.

 

“Merda” geme Chris, colpito dalla rivelazione della donna come da una scarica di pugni alla stomaco, lasciandosi cadere sul bordo della vasca da bagno. “Merda” ripete, sconsolato, passandosi una mano sul volto. “Non pensa che la odi o qualcosa del genere, vero?”

 

“Non lo pensa” lo rassicura immediatamente Quinn, limitandosi  poi a scuotere la testa un paio di volte e a sedersi di fianco a Chris per lasciarlo alle sue solite elucubrazioni mentali.

 

“Forse … dovrei accettare il lavoro che nell’azienda di famiglia, tornare a Chicago e trasferirmi stabilmente lì” sospira l’uomo dopo diversi secondi di riflessione, cercando conferme nello sguardo della bionda.

 

“Ma non è quello che vuoi”

 

“Nemmeno vedere mia figlia una volta ogni due o tre mesi lo è” ribatte Chris. “E, se dovessi scegliere a cosa rinunciare, sai bene quale sarebbe la mia decisione. La stessa che prenderesti anche tu” 

 

“Lo so” sorride Quinn, passando amichevolmente la mano tra i corti capelli bruni a spazzola del padre di sua figlia. “Comunque non c’è bisogno di cambiamenti così drastici. Beth sa benissimo quanto tieni a lei e io so quanto saresti disposto a sacrificare per la sua felicità. Ti chiedo solo di … essere un po’ più presente, ecco”

 

 “Devo solo … con questo ultimo lavoro probabilmente mi sono assicurato una promozione e un bell’ufficio” fa Chris, guardando di nuovo gli occhi verdi-marroni della bionda al suo fianco. “Se così fosse potrei aumentare il numero delle mie visite ad almeno un paio di volte al mese”

 

“Beth ne sarebbe molto felice” assicura Quinn, sorridendo. “Per quanto riguarda il dormire tutti assieme forse … forse non è un’idea così malvagia

 

“Dici?” sorride Chris in maniera tutt’altro che allegra. “Perché in questi due minuti scarsi mi hai fatto rivalutare praticamente ogni cosa pensassi di sapere su mia figlia e … non so, nella mia testa sembra tutto una stronzata gigantesca”

 

“Penso che sia quello di cui ha bisogno in questo momento” ribadisce Quinn, quasi con assoluta certezza. “Con il mio lavoro probabilmente già a gennaio sarò in un’altra città e dovrà salutare le sue amichette. Credo … credo abbia bisogno di capire che noi ci siamo e ci saremo sempre, ecco”

 

Dopo aver valutato attentamente le sue  parole, Chris si alza, afferra il polso di Quinn e la solleva dal bordo della vasca, stringendola in un forte abbraccio che vale più di mille parole. E no, non è un modo di dire, perché lei sa perfettamente cosa racchiuda quel gesto: affetto, gratitudine e tanto altro, tutte cose che gli tutti gli Smythe sono incapaci di dire ad alta voce, probabilmente per il tipo di educazione ricevuta.

 

“Grazie di tutto, Q” aggiunge l’uomo, poggiando delicatamente le labbra sulla fronte della bionda, non troppo più bassa di lui. “Ora … potremmo andare a fare un caffè, parlare un po’ di cosa combini in città e andare a letto”

 

“Ci sto”

 

Il suo difetto peggiore? Che, pur sapendo alla perfezione cosa sia meglio per sua figlia, non sia mai stata in grado di capire cosa sia meglio per sé stessa.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Scusatemi per il ritardo, se potete.

 

Ecco, direi che questo è il modo migliore per iniziare queste note. Lo so, avrei dovuto pubblicarlo la settimana scorsa –mio Dio, mi fa male anche solo leggerlo–, peccato che il problema di cui ho accennato nelle note dello scorso capitolo nelle ultime due settimane è triplicato. Purtroppo non è una stima sparata a caso: un po’ di tempo fa era mio nonno materno a stare male, ora sono in tre visto che si sono aggiunti entrambi i miei nonni paterni.

 

Per fortuna non è nulla di così grave –a parte per il nonno materno che ora sta bene ma vederlo andare via in ambulanza non una ma due volte, di cui una il giorno di Pasqua non è stato bellissimo–, altrimenti ora non sarei nemmeno qui a scrivere, ecco.

 

Tutto questo per dire cosa? Che il ritardo è dovuto al fatto che mi sono dovuto abituare al nuovo ritmo di cose da fare e alla nuova situazione, quindi … mi spiace e spero proprio di non dover mai avere ritardi così abnormi. Almeno, questo è quello che mi auguro, si vive molto alla giornata ultimamente.

 

Passando al capitolo, la cosa migliore del fiume di parole che ho scritto è il titolo. Spero che a voi piaccia anche il resto :)

 

Come avrete capito, l’amicizia di Quinn e Santana è molto particolare, molto diretta e anche un po’ cruda. Me l’immagino così, considerando i soggetti con cui abbiamo a che fare. E cosa nasconde la bella Santana? Nulla di tragico, promesso! Anzi …

 

Il lavoro da far fare a Puck è stato senza dubbio la parte più difficile che abbia mai scritto. Ero indeciso tra questo coso dei materassi dove i ragazzi hanno cantato Jump –mi manca la prima stagione– e il market dove lui e Finn hanno lavorato, sempre nella prima stagione se non sbaglio. Alla fine ho scelto la Terra del materasso ma solo perché il tipo aveva una faccia buffa :)

 

Sul confronto Puck-Kurt-Quinn non ho molto da dire, spero ardentemente che vi sia piaciuto. Di sicuro non vi aspettavate un primo incontro del genere per la Quick ma … beh, da qui è tutto in discesa anche se, come ho scritto nelle note del prologo, non sarà una di quelle storie ci conosciamo, andiamo a letto, ti amo, sposiamoci nell’altro di due settimane. Su Kurt e Puck la cosa non è finita, ahimé. Ci saranno altri confronti e saranno belli tosti. Soprattutto dovrò farvi capire come mai anche Kurt sembra molto più insicuro di quello che è in Glee e come mai sia tornato a Lima. 

 

Christian … già, il fratellone etero di Sebastian. All’inizio volevo usare uno dei personaggi già esistenti per il suo ruolo, peccato che nessuno mi convincesse molto. Così ho pensato di crearne uno io, cercando al tempo stesso di dargli un legame con il Glee di Murphy. Non so, ditemi voi. Ovviamente il rapporto che ha con Quinn sarà spiegato molto meglio e lo vedremo attraverso gli occhi di Puck.

 

Sulla parte dei souvenir sono andato molto a tentoni e per sentito dire da un’amica fissata con il Giappone, quindi spero di non aver scritto troppe str- cavolate.

 

Ringrazio chi ha letto ed è arrivato fin qui, coloro che hanno messo tra ricordati, preferiti etc e le tre gentilissime persone che hanno commentato. Mi auguro che vi sia piaciuto e che abbiate passato delle bellissime vacanze pasquali! Ovviamente gli auguri li faccio a tutti, nessuna preferenza. Solo che a loro di più :)

 

Come al solito, per dubbi, domande, correzioni, suggerimenti, insulti non abbiate timore a farvi sentire.

Spero –quante volte l’ho scritto in dieci righe?– a molto presto.

Pace.

 

 

  
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