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Autore: shadowsymphony    05/04/2013    1 recensioni
"Adesso mi odierai ogni volta che ti dirò 'va bene'?" chiese lei, sorridendo, appoggiando la testa al suo petto. "Potrei farlo" rispose lui, ridendo. "Ti odio" rise anche lei. "Capisco. Sfoga pure la tua rabbia su di me". "Allora preparati alla tortura" ridacchiò, e si alzò in punta di piedi per baciarlo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“indovina un po’…”. Fece dondolare la scarpina davanti ai suoi occhi. E lui la guardava strano, come se avesse parlato arabo. “non ci arriverà mai” pensò tra sé e sé. Doveva dirglielo direttamente. Erano solo due parole. Ma come poteva dirglielo? Non sapeva come avrebbe potuto reagire. Lui non se lo aspettava minimamente, e nessuno dei due era pronto per affrontarlo. Doveva dirglielo assolutamente, ma non aveva preparato un discorso, una frase, niente di niente. “ehm… hai… presente, oggi, quando Judy mi ha detto che saresti un papà perfetto?”.

“… saresti un papà perfetto?”. Sentì solo quelle parole. La guardò negli occhi e poi si ricordò che quel giorno aveva mangiato più del solito, che era stanca, gli sbalzi di umore, che non si era chiuso bene il vestito, e la scarpina… e in un millesimo di secondo collego tutto a un solo pensiero.

“sei…?” chiese, ma non riuscì a finire la domanda. Non importava, aveva capito, non aveva nemmeno dovuto dirglielo direttamente. Tirò quasi un sospiro di sollievo, e poi annuì, cercando di fare un sorriso convincente per nascondere la sua agitazione.

“e…e… da quando?” chiese lui. “circa nove settimane”. Lanciò un’occhiata alla pancia attraverso la gonna del vestito, e iniziò a innervosirsi. “ma perché non me l’hai detto?” domandò. “ma mi avevi detto di non telefonarti, ed io…”. “ma queste cose me le devi dire! Cazzo!” adirato, si alzò improvvisamente dal letto e uscì dalla stanza. Chiuse la porta sbattendola e ci si appoggiò. Non gliel’aveva detto. Una cosa così importante. Le aveva detto di non telefonare più, di non sentirsi più, sembrava tutto finito… ma un figlio superava anche quello. Era mille volte più importante delle sue stupide richieste di “lasciamoci”, “non sentiamoci più”, “tu vivi la tua vita e io la mia”. Non avrebbero potuto più farlo, se c’era un’altra vita oltre alla loro. Avrebbe dovuto dirglielo. Che cosa avrebbe fatto, se non si fossero rimessi insieme? Avrebbe cresciuto il frutto di un amore finito? Improvvisamente si accorse che era stata di nuovo colpa sua. Era stato lui a ordinarle di non chiamarlo più. Lei non avrebbe potuto fare altrimenti. Sembrava una donna così forte, ma non riusciva mai a tenergli testa. Le poche volte che avevano litigato in quegli anni, era sempre stato lui a cominciare, e lei non aveva mai ribattuto alle sue sfuriate. Non aveva mai preso posizione; aveva sempre ascoltato tutte le sue ragioni – le solite cazzate – e non aveva mai detto niente, anche se aveva torto. Lui usciva sempre dalla stanza o di casa, lasciandola da sola e, quando tornava dentro, la ritrovava a piangere. Non riusciva mai a confrontarsi direttamente, come aveva fatto in quel momento. Perché era uscito dalla camera? Perché non era stato capace di rimanere dentro e parlare con lei? E, tornando alla questione di prima, perché le aveva detto di non telefonargli più? Era troppo semplice evitare di affrontare qualcuno, andandosene via così. Riaprì la porta, e la vide sdraiata sul letto a piangere con il viso sul cuscino. Si sentì subito in colpa. Non riusciva mai a trattenere i suoi scatti d’ira, ma odiava vederla piangere per colpa sua. di solito per calmarla bastavano un abbraccio e una scusa… ma quante volte si era scusato quella sera? Si sedette sul letto vicino a lei e le accarezzò la testa, come lei aveva fatto con lui poche ore prima, finché si calmò. “allora cosa facciamo?” chiese.

Si alzò a sedere e lo guardò in faccia. Non sembrava più arrabbiato. Poteva parlargli. “e… tu cosa vuoi fare?”. Non si sentiva ancora pronta per un figlio, specialmente in quei mesi dove il lavoro incombeva. Ma… forse lui lo era. L’avrebbe aiutata. Ce l’avrebbero fatta. Aspettava solo una sua risposta.

Non riusciva ancora a rendersi conto di quello stava succedendo. Avevano parlato di mettere su famiglia alcune volte, qualche mese prima, ma non erano mai arrivati a una conclusione. E poi all’improvviso, senza che nessuno dei due se lo aspettasse… la famiglia era arrivata da sola. Non aveva idea di come fosse successo, forse lei aveva dimenticato di prendere la pillola un giorno, ma non gli importava. Non si sentiva pronto al 100%, ma… ce l’aveva fatta sua mamma con sette figli, potevano benissimo farcela loro con uno. Poi si sarebbero anche sposati, era tutto a posto. Un sogno che si stava realizzando. E al diavolo il lavoro. Aveva causato anche troppi guai tra di loro. “vieni qui” sussurrò, e la abbracciò.

Si strinse al suo collo e appoggiò la testa sulla sua spalla, per la milionesima volta in quel giorno. Non ne aveva mai abbastanza dei suoi abbracci; era anche un idiota, impedito, codardo, egoista, pazzo… ma lo amava più di qualsiasi cosa. Era così perfetto. Quell’abbraccio era la sua risposta, era un sì. Non un “va bene”, un sì.

La baciò sulla guancia e poi abbassò di nuovo lo guardo verso la sua gonna “non…”. “oh ma non si vede ancora niente, è troppo presto!” disse subito lei “però mi sono cresciute un po’ le tette, credo, ecco perché non si chiudeva il vestito”. Il vestito era ancora aperto sulla schiena, e sfilò le braccia dalle spalline. Abbassò il corpetto e si guardò la scollatura “si vede?”. in men che non si dica, lui le tolse il vestito e lo buttò dall’altra parte del letto. Era quasi intrigante, con i suoi enormi slip blu addosso. “ti stanno bene le mie mutande” ridacchiò, e le baciò la scollatura. Adorava baciarla lì, la sua barba le faceva il solletico e si metteva a ridere come una bambina. Le baciò il seno e poi scese fino all’ombelico, dove le arrivavano le sue mutande. Le abbassò, e notò una piccola rotondità del basso ventre. Era quasi invisibile, ma c’era. Si emozionò come non gli era mai successo prima d’allora. “e diamo un bacino a Hope” e le baciò la pancia.

“Hope?” rise lei. Lui alzò la testa e la guardò con il suo bellissimo sorriso. “ma sì, Hope di New York… non te la ricordi?” e, senza lasciarla rispondere, la baciò di nuovo sulla bocca.

La sveglia suonò alle undici in punto, diversamente dal giorno prima, e il bip-bip noioso si confuse di nuovo nel gracchiare della radio. Taylor si svegliò e allungò il braccio per spegnere la sveglia, ma sentì solo qualcosa di caldo. Aprì gli occhi e si vide che stava toccando il braccio di Gaga, che si era addormentata sul lato del letto dove di solito dormiva lui, e la sveglia era sul comodino dall’altra parte. Il rumore non sembrava infastidirla, dormiva tranquillamente. S’inginocchiò sul letto e, allungando il braccio al di sopra di lei, riuscì a spegnere la sveglia. Si stiracchiò e scese dal letto. Alzò piano le tapparelle e guardò di fuori: tutto era imbiancato di neve, le strade, i tetti, le terrazze, le auto, e stava ancora nevicando. Andando in bagno, raccolse da terra la sua camicia, la canottiera, le calze e il vestito bianco, e li appoggiò sul letto. Entrò in bagno e alzò un po’ le tapparelle anche lì per far entrare la luce. Era tutto così surreale, ricoperto di bianco, dentro e fuori. Si spogliò ed entrò nella doccia. Mentre si lavava, sentì la porta di camera aprirsi e subito dopo quella del bagno.

Bussò alla porta a vetri della doccia e poi la aprì. “cucù! Buongiorno” esclamò, infilando dentro la testa. “hey!” la salutò lui, chiudendo l’acqua “aspetta che esco”. “no no stai pure dentro, io ti aspetto” disse, lanciando un’occhiata maliziosa al suo corpo nudo e bagnato, poi richiuse la porta. Notò che sul calorifero c’erano i vestiti e la biancheria che aveva indossato il giorno prima, sembravano asciutti. Finalmente poteva togliersi quegli slip enormi. Mentre si stava rivestendo, lo sentì dire qualcosa, ma non riuscì a capire perché la sua voce era coperta dallo scrosciare dell’acqua. “cosa?” chiese, infilando i suoi pantaloni. L’acqua smise di scorrere per un momento “come stai?”. “ah… sì, abbastanza bene”. Avevano passato una nottata magnifica. Di certo non era stata come quella volta a San Diego, ma i racconti di Taylor su com’era andato di qua e di là per ritrovarla due giorni prima – nello stesso momento in cui lo aveva fatto lei – l’avevano affascinata nello stesso modo. Era incredibile come, nel momento in cui lei era arrivata a casa sua a Chicago, lui era arrivato a casa sua a New York. Si erano cercati contemporaneamente. Era qualcosa di magico. Indossò la sua felpa grigia – che in realtà era di Taylor, ma non gliela aveva ancora chiesta indietro – e poi andò a lavarsi il viso. Aprì il rubinetto, e poi vide l’anello di diamanti al dito. Lo tolse delicatamente e lo appoggiò sulla mensola vicino allo specchio. Ancora non ci credeva.

Verso mezzogiorno, il telefono di Gaga squillò. “devo andare a casa” esclamò all’improvviso, alzandosi dal divano. “ma… adesso?” chiese lui. L’aveva appena ritrovata, e aveva paura di lasciarla andare via di nuovo. Lei appoggiò la tazza di caffè che aveva in mano sul tavolo “non riesco a mandarlo giù…”. “adesso devi andare?” ripeté, inquieto. “sì, l’avevo detto a mia mamma, ho un milione di cose da fare, mi dispiace”. Ma non poteva andare via così. Si erano potuti vedere per poco più di ventiquattro ore, dopo due mesi… “non puoi restare ancora un po’?” chiese, mentre lei prendeva la sua borsa. “no, ho un appuntamento per oggi pomeriggio, non posso”. Ancora il lavoro. Aveva causato la più orribile serie di cazzate mai successa, e ora lei voleva andarsene via così per lavoro? “per favore…”. “non ti preoccupare. Ti chiamo appena arrivo a New York, stai tranquillo”. La guardò mentre si metteva la giacca, e pregò che ci mettesse un’eternità per farlo. Non voleva vederla uscire dalla sua porta così presto. Ma in una decina di secondi fu pronta. “vuoi accompagnarmi tu all’aeroporto? Non ho voglia di prendere un taxi” gli chiese, controllando la borsa. Non poteva più fermarla.

Arrivarono all’aeroporto in tre quarti d’ora. Le strade erano ricoperte di neve, c’erano almeno 10cm. Come avrebbe fatto, con le sue Converse di tela, a camminare? Pregò che non stesse nevicando a New York. Taylor parcheggiò la sua auto davanti all’hangar, dove c’era il suo jet. Per tutto il viaggio, era sembrato molto agitato. Non voleva lasciarla andare. Neanche lei voleva. Gaga sospirò e aprì la portiera; per fortuna la pista dell’aeroporto era stata pulita dalla neve. Prese con sé la borsa e chiuse la portiera. “vieni?” chiese, e anche il ragazzo uscì dall’auto. Entrarono nell’hangar, dove il suo jet era pronto, con lo steward sulla scala davanti al portellone. “sicura che non vuoi restare ancora un po’?” le chiese lui, per la milionesima volta. “non posso. Ma appena ho un momento libero, vengo subito da te” rispose, andandogli vicino. Era così alto che per guardarlo in faccia doveva alzare la testa. Lo abbracciò. “però chiamami prima, sennò può darsi che, mentre stai venendo tu da me, sto andando io da te, e non ci troviamo più” sorrise, ricambiando l’abbraccio. Lei rise. “va bene”. “cosa?” esclamò lui, guardandola negli occhi. "Che c’è, adesso mi odierai ogni volta che ti dirò 'va bene'?" chiese lei, sorridendo, appoggiando la testa al suo petto. "Potrei farlo" rispose lui, ridendo. "Ti odio" rise anche lei. "Capisco. Sfoga pure la tua rabbia su di me". "Allora preparati alla tortura" ridacchiò, e si alzò in punta di piedi per baciarlo. Poi lo lasciò e salì sull’aereo.
 
 
 
E finalmente questa storia è finita. Ringrazio innanzitutto Csilla e Mariana per i grandissimi suggerimenti che mi hanno dato, senza di loro sarei rimasta bloccata dopo dieci righe del primo capitolo. Questa storia mi ha rubato due mesi di vita, e scriverla è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Potrà non sembrarvi così, ma io sono una che si emoziona appena legge una riga delle altre fanfiction dedicate a loro (Raydor ne sa qualcosa, la faccio disperare ogni volta che pubblica un nuovo capitolo), la coppia più bella del mondo, e il solo pensare alle cose che ho scritto… che si lasciano, si cercano, si ritrovano, e la proposta di matrimonio, e il figlio… è stata una tortura per il mio povero cuoricino che balza per un nonnulla! Scrivere una storia così “irreale” su di loro (beh, le altre non sono poi così realistiche XD) è stata una sfida, ma sono contenta di com’è venuta. Ammetto che, per evitare che il mio cervello bastardo incominciasse a farsi i filmini (li ha fatti lo stesso, comunque) sulle cose che stavo scrivendo, ho dovuto scrivere la storia prima cambiando i nomi (grazie al “sostituisci” di Word, dopo li cambiavo); come potete notare, non li nomino spesso, ho usato sempre “lei” e “lui”. È una pazzia, lo so, ma mi emoziono troppo e non posso farci niente. Ho sempre paura che i veri protagonisti delle mie storie possano leggerle per caso e, beh, si farebbero quattro risate – o Gaga verrebbe a casa mia a prendermi a schiaffi.

Sono felicissima che la storia vi sia piaciuta, e spero che il finale sia adeguato. Mi dispiace per l’ansia che vi ho procurato capitolo dopo capitolo, ma fidatevi, io ne ho avuta di più a scrivere :D
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, cosa farei senza di voi? Vi adoro <3 (e mi dovete dieci scatole di ansiolitici + altrettante tisane)

E, alla fine della storia, vi rivelo che tutto questo casino è partito da un sogno che ho fatto durante un pisolino pomeridiano di due mesi fa. Ho sognato Gaga che entrava a casa di Taylor a Chicago, e lui era lì a curare Matthew, e lei gli diceva “ti sei dimenticato del mio compleanno!”. And that’s how it all began.
spero di non fare più altri sogni del genere, perché per scrivere tutta la storia che c’era dietro mi sono serviti 2 mesi e un block notes intero.
Mi piacerebbe molto, però, scrivere un romanzo ispirato a questa storia (cambio i soggetti, l’ambiente, ma tengo le vicende). Ditemi voi cosa ne pensate ;)
 
   
 
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