Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Orient_Express    08/04/2013    2 recensioni
Il castello di carte si sta sfaldando davanti ai miei occhi e la verità inizia ad emergere in trasparenza sotto i giorni di menzogne, sotto il loro trucco sbavato. La bella favola è diventata una parata in maschera grottesca e patetica a cui non credo più nemmeno io.
Nessuno è così bravo a mentire a se stesso.
***
Guardiamo svogliati un film al computer, Rafael con la testa appoggiata sulla mia spalla mentre mi stringe piano una mano, mi accarezza coi polpastrelli le dita rovinate.
«Juan?»
«Mh?»
«Quando inizia il tradimento?»
Sussulto.
Dovunque inizi, io quel punto l’ho varcato.
«Perché?»
Scrolla le spalle, senza alzare la testa.
Mi chiedo distrattamente come faccia a sopportare i personaggi del film che si muovono inclinati da un lato, mi chiedo come può tollerarli mentre sfidano la forza di gravità e vivono le loro vite da una prospettiva tutta nuova.
«Così. Per sapere»
«Secondo te dove inizia?»
«Nella testa»,
risponde tranquillo, come se a questa cosa ci avesse pensato tanto.
[Prima classificata al contest “Le sfumature del dolore” indetto da phoenix_esmeralda; ha partecipato con il prompt "Tradimento"]
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic   

  




II

Lunedì 7 maggio

«Non sei pronto? Guarda che siamo in ritardo!»
«Non siamo in ritardo, mancano venticinque minuti!»
«Saremo in ritardo se non partiamo entro cinque minuti»
«Tu parti ora, io parto tra cinque minuti»
«Non ricominciare… Non oggi, eh… Oggi no, proprio no!»
«Tu non ricominciare. Lo sai che è così»
«E tu sai che io non lo sopporto! Almeno oggi!»
«E tu sai che io non sopporto–
«Che cosa? Che ti vedano con me?»
«Che pensino che sono gay»
«Ma tu sei gay!!»
«Non lo sono! Ma che vuoi saperne tu

Nella stanza cade il silenzio.

«Fai come ti pare»,

ribatte gelido,

«Vado da solo»,

esce di casa così, senza neanche girarsi a guardarmi.

***

Ieri sera io volevo solo fare l’amore con te…
…ma tu hai dormito per l’ennesima volta sul divano.

***

Apro deciso la porta del piccolo centro estetico, una pioggia di campanelli tintinna e annuncia il mio arrivo.

«Buongiorno!»,

la ragazza alla reception mi accoglie con un sorriso allegro e cordiale, ricambio solo con un cenno del capo.

«Ho appuntamento per un massaggio alle quattro, Rodríguez»
«Certo, mi faccia controllare… Ah… ma… non dovevate essere in due…?»
«C’è stato un contrattempo, sono solo»
«Sì, chiedo scusa. Può accomodarsi nella stanza in fondo al corridoio a sinistra, il massaggiatore le dirà cosa fare»

***

Apro deciso la porta della piccola sala giochi, i rumori dell’interno m’investono e accrescono solo il mio malumore.

«Buongiorno, è libero un tavolo da biliardo?»
«Buongiorno!»,

l’uomo di mezza età controlla al computer,

«Sì, è libero il tavolo tre»

Lascio i soldi sul bancone e salgo le scale.
Mi avvicino al ripiano delle stecche e ne scelgo una; sto per dirigermi al tavolo che mi è stato indicato quando mi accorgo di un ragazzo biondo, che mi fissa da uno dei tavoli vicino alle finestre.
Mi fermo un attimo, lo guardo a mia volta.
È solo, ha interrotto il gioco e mi sta fissando, senza nessuna espressione particolare. Ha la pelle chiara e i tratti del viso precisi, puliti.
Deglutisco.
Mi avvicino.

«Posso allenarmi qui?»

Il ragazzo allarga le belle labbra in un sorriso, scopre i denti bianchissimi:

«Prego»,

mi fa l’occhiolino.
Non guardarmi così.
Non sono gay.

***

Il massaggiatore è un ragazzo alto, forse qualche centimetro più basso di me, ma comunque alto, e potrà avere venticinque o ventisei anni, credo. È un ragazzo carino dalla pelle scura: accenno di barba sulle guance, ruvida alla vista, e capelli mossi legati in un codino.
Le sue dita lunghe premono più volte nello stesso punto, all’inizio sembra non succedere nulla ma poi le sento affondare nella carne, i nodi nei muscoli si sciolgono uno alla volta.

«Cerca di rilassarti di più…»,

il massaggiatore ha anche una bella voce profonda,

«Così non riesco ad entrare»
«Sono stressato»
«Infatti, per questo devi cercare di rilassarti»
«Senti, il mio ragazzo mi ha dato buca, è normale se sono stressato, no?»

***

Mi guardi con il sorriso sfacciato, lo sguardo frizzante.
Smettila.
M’innervosisce.
Non sono gay.
Le dita m’iniziano a sudare, la presa sulla stecca si fa meno salda.
Non dovevo passare il gesso sulla punta?
Mi chino sul tavolo, posso sentire il tuo sguardo percorrermi la linea della schiena, del sedere, delle cosce.
Sono gay.
L’erezione preme indesiderata contro il bordo del tavolo.
No, non sono gay.
La biglia schizza come impazzita e si scontra più volte sul legno del bordo, totalizzando punteggio zero.
Il ragazzo mi si avvicina e mi appoggia la mano sulla spalla.
Non smette di sorridere.

«Perché non la finiamo in privato, la partita?»

Non sono gay.

«Magari la metti in buca… stavolta…»

Ma vorrei.*[1]

***

Ho finito il turno, sto per uscire quando il cellulare mi vibra nella tasca dei jeans.

          Non faccio in tempo oggi pomeriggio, 
          ho incontrato un vecchio amico. 
          Ci vediamo per cena!

Il ragazzo a cui ho appena fatto il massaggio passa davanti, Rafael, mi pare, e si chiude alle spalle la porta del centro estetico senza una parola di saluto.
Rimetto in tasca il telefono e lo seguo in strada, d’istinto, senza pensarci.

«Aspetta… Ehm… Rafael, giusto?»

Si gira.

«Sì…?»
«Ho… un’ora libera… inaspettata. Ti va un caffè?

***

«Ah…! Mh… sì… Ah! Aah…»
«Nh…! Mh…»
«Sì… sì, così…»

I respiri sono irregolari, rumorosi.
Ho la pelle sudata e non abbiamo nemmeno usato il preservativo.
Il ragazzo resta sdraiato sul letto e mi chiede piano, senza guardarmi:

«Come ti chiami?»
«Juan… Tu?»

Non Rafael
Ti prego, non Rafael

«Andrés…»
«Beh, Andrés… È stato un piacere…»
«Ahah… Piacere mio…»

Faccio un sorriso tirato e inizio a vestirmi, non voglio restare in quest’albergo da quattro soldi neanche un secondo di più.

«È stato bello…»,

continua lui,

«Ci rivediamo?»
«Non giudicarmi… Io…»

Non sono gay.

«…io sono fidanzato…»

All’improvviso, il suo sguardo sembra farsi assente.

«Non ti giudico… Ho il ragazzo anch’io…»

Bisbiglia appena.
C’è quest’attimo sospeso in cui mi guarda negli occhi con uno sguardo che sembra quasi… triste.
Eppure… 
Ci scambiamo lo stesso i numeri di telefono…

***

«Posso prendere l’ordinazione?»
«Sì, per me un cappuccino»
«Per lei?»
«Anche»

La cameriera si allontana.

«Mi chiamo Diego»
«Sempre Rafael»
«Certo… Piacere»,

sorride.
Non c’è niente da ridere. Sono pessimo, con le battute.

«Piacere mio»

Ci stringiamo la mano, o meglio, lui mi stringe la mano in una morsa ferrea.

«Allora… mh… sei fidanzato…»
«Sì»
«Da quanto tempo…?»
«Quattro anni. Quattro anni oggi… Il massaggio era per festeggiare, sai, volevamo fare qualcosa di carino… Però oggi il mio ragazzo m’ha fatto incazzare»

Annuisce appena, come se capisse.

«Sì, anche il mio… ieri sera…»

Lo guardo in faccia, all’improvviso interessato.

«Ah… Io… capisco… Quindi… anche tu…»

Sei gay.

«Sì…»
«Mh…»

Annuisco.

«Il mio ragazzo dice di non essere gay»,

gli dico all’improvviso.
Sai?, non è mica una cosa che dico a tutti.
Nella vita c’è bisogno di un po’ di pudore.
Forse è perché gli somigliavi tanto, la pelle scura e il sorriso caldo, la curva solida delle tue spalle, le mani così diverse ma forti come le sue.
O forse, invece, è perché non gli somigliavi affatto.
Forse è stato per il modo in cui hai sgranato gli occhi scuri, profondi, bellissimi anche nel loro lieve strabismo, forse è per questo che ho fatto quel gesto con la mano che voleva dirti ‘ma questo non è importante, certo che è gay’ e ti ho raccontato di mio padre, che sa che sto con un uomo e non so come l’ha presa, ma l’ha presa, in un modo o nell’altro, e ti ho raccontato di mio padre che non l’ha mai incontrato perché lui non vuole farsi vedere in giro con me, forse è stato per quello sgranare degli occhi, per i laghi profondi dei tuoi grandi occhi scuri, forse è per quello che ti ho raccontato di come lui ami ripetersi la bella favola del ‘tu sei l’unica eccezione’ e di come, tra tutti i possibili modi di amare, quello non era più il modo giusto di amare me.
O forse è stato per gioco.
Forse è per gioco che anche tu mi hai raccontato dei suoi orari strampalati, delle ore passate a farsi il bagno in piena notte in compagnia delle sue riviste, delle frustrazioni di cameriere che si spacca la schiena in quel ristorante di lusso, delle ambizioni di aspirante chef che non riesce a realizzare neanche continuando a spaccarsi la schiena in quel ristorante di lusso, forse è per gioco che mi hai parlato dei suoi succhi di frutta.
Forse è sempre per gioco che mi hai offerto il cappuccino.
Sì, forse è iniziata per gioco.
L’inizio è sempre per gioco.

***

Appena entro in casa Andrés mi viene incontro nel piccolo ingresso.

«Bentornato»,

un incontro fugace di labbra e già si allontana,

«Vieni a vedere cos’ho cucinato!»,

mi dice sorridente.
Entro in cucina: un’enorme torta al cioccolato a tre strati troneggia sul tavolino.
Serro le labbra in una piega dura.

«Cos’è, ceniamo con questa?»

Cazzo, sono stato troppo acido.
Ma non lo capisci che a me serve una cena vera?

«Beh, poteva essere un’idea…»,

borbotta, offeso come solo lui sa offendersi, con quell’atteggiamento sdegnoso da principessina.
Non ribatto, apro il frigorifero e prendo i resti della cena di ieri.

«Oggi è venuto un ragazzo a farsi fare un massaggio…»,

dico così, per smorzare la tensione, tanto per fargli sapere che non siamo l’unica coppia fatta male al mondo.

«Doveva venire col suo fidanzato, ma quello gli ha dato buca e allora si è incazzato»
«Col suo fidanzato?! E tu che ne sai?»
«Me l’ha detto lui…»
«Perché te l’ha detto?»

Assottiglia lo sguardo, sospettoso.
Oh, non cominciare.

«Boh, sarà stato così tanto incazzato da abbassare la guardia… Perché il suo ragazzo dice di non essere gay…»
«Cazzo, che situazione… Ma tu perché lo sai?»
«Perché qualcuno ha dato buca anche a me e allora ci siamo presi un caffè insieme…»

Sbuffa:

«Oh, scusami… Sono stato trattenuto…»
«Già… Com’è andata, almeno?»
«Mah, così… Abbiamo fatto due chiacchiere…»
«Ma con chi?»
«È… mh… un ragazzo che faceva il corso di cucina con me… ma tu non lo conosci…»
«Beh, ti sei divertito?»
«Non lo so…»,

scrolla le spalle,

«A ripensarci, preferivo venire con te…»
«Già, ci pensi sempre dopo…»
«Oh, che c’è?»
«Niente»
«Sicuro…?»
«Sì…»
«Davvero?»
«Ho detto di sì!»

Sbuffa di nuovo.

«Okay, okay…»,

alza le mani come a dire beh, scusami e riscalda il riso nel forno a microonde.

 

Diego si versa le porzioni nel piatto e si siede al piccolo tavolo della cucina, inizia a mangiare senza neanche aspettarmi.
Carino, sì, davvero carino.
Ma c’avremmo messo cinque minuti a cucinare!
Mi siedo accanto a lui senza apparecchiare, tanto t'incazzi sempre perché non so mettere bene i tovaglioli e le posate ai bordi del piatto, e non sei lateralizzato, e come fai a non riconoscere la destra dalla sinistra, sei un cameriere e manco sai apparecchiare, stronzo, fallo tu il cameriere di merda, no?
Inizio a mangiare il cibo avanzato direttamente dai contenitori di plastica, che umiliazione, un aspirante cuoco che mangia così… Questa è l’immagine di me che non vorrei mai mostrare a nessuno.

«Ascolta…»,

inizio dopo un po’, facendo il vago,

«Ho un po’ di mal di schiena… Perché non mi fai un massaggio…? Magari con… ehm… due candele… o… non so, un po’ d’incenso…»
«Scusami, sono stanco… Perché invece non vediamo un film?»
«E sposatela, quella maledetta tv!»
«Ehi, ehi! Calmino!»
«Sono calmissimo»,

ribatto, gelido,

«Ho solo pensato che nel mio giorno libero avresti voluto stare da solo con me»
«E io ho pensato che nel tuo giorno libero avresti voluto farmi trovare qualcosa di pronto–
«Ho cucinato la torta!»,

lo interrompo.

«Qualcosa tipo una cena! Per mettermi di buon umore…!»
«Ah, quindi è colpa mia se non hai voglia!»
«Non è questo, sono stanco»
«Finché ti pagano, non sei stanco!»
«Ma ti senti? Per favore… E di cosa stiamo parlando?»
«Lo sai benissimo di cosa stiamo parlando!»,

quand’è stata l’ultima volta che hai fatto l’amore con me?,

«Quand’è stata l’ultima volta che hai fatto un massaggio a me?!»
«Andrés, per favore!!»,

mi urla in faccia,

«Quand’è stata l’ultima volta che tu hai cucinato per me?!»

Ammutolisco.
Ferito nell’orgoglio.
Non mi capacito di ciò che ho appena sentito.
Per dieci secondi nessuno parla, non ci guardiamo neanche negli occhi.
Perché finisce sempre così?
Perché devi sempre rinfacciarmi tutto?
Non è colpa mia!
Sento la rabbia crescermi dentro, sento gli occhi pizzicare, due lacrime di frustrazione premono per uscire.
Mi alzo di scatto e me ne vado senza dire nulla, mi chiudo in bagno sbattendomi rumorosamente la porta alle spalle.

 

Sbuffo di frustrazione, volevo condurre una conversazione civile e invece ho perso il controllo un’altra volta.
Non ne posso più di vedermi davanti agli occhi il tuo viso contratto da quell’espressione dura, la piega rigida verso il basso delle tue belle labbra.
Esco dalla cucina, all’improvviso mi si è chiuso lo stomaco. Mi accascio sul divano e passo una mano tra i capelli.

«Ma sì, bravo… Complimenti… Dai, che così andiamo lontano…»,

e non so neanche con chi sto parlando davvero.

 

Perché non fai più l’amore con me…?
D’istinto, quasi senza pensarci, mi ritrovo a scrivere al cellulare. Mando a Juan un messaggio, gli chiedo di fare un’altra partita a biliardo.

***

          Opzioni:
          cancella messaggio.
          Sicuro di voler cancellare questo messaggio?
          Cancella.

Metto in standby il cellulare e lo riappoggio sul comodino.

«Chi era?»

Resto qualche secondo sovrappensiero, con lo sguardo perso nel vuoto.
Rafael mi dà un colpetto leggero sulla spalla.

«Allora, chi era…?»
«Eh?»,

mi riscuoto.

«Il messaggio…»
«Ah, sì… Mia madre…»
«Non rispondi?»
«Rispondo domani… Vuole solo sapere come sto…»
«Che figlio terribile…»,

commenta senza distogliere lo sguardo dalla televisione, che trasmette gli ultimi successi musicali.
Non rispondo. Distendo le gambe nel letto e riprendo in mano il libro, cerco di concentrarmi nella lettura ma mi sorprendo a percorrere più volte la stessa riga con gli occhi senza capire neanche una parola. Appoggio anche il libro sul comodino, mi giro verso Rafael e gli metto a tradimento una mano tra le gambe.

«Oh! Che fai? Sono ancora arrabbiato per oggi!»

Dolce come sempre, eh, tesoro mio?

«Scusami…»

Mi dispiace tanto, Rafael. Mi dispiace tanto…

«Non ti va…?»,

addolcisco il tono, quando lo sento irrigidirsi appena sotto le dita.

«Sì…»,

anche lui addolcisce la voce,

«Mi va…»


 

Martedì 8 maggio

Mi sveglio a mezzogiorno passato.
Non sono più abituato ad addormentarmi presto, e neanche a svegliarmi presto.
Apro lo sportello del frigorifero e deformo la bocca in un’espressione di disgusto. Mi nausea l’odore dei cibi salati così di prima mattina.
Prendo il cartone del succo di frutta all’ananas, svito il tappo e bevo appoggiandoci direttamente le labbra, senza versarlo in un bicchiere, senza neanche chiudere il frigorifero. Richiudo la confezione e la rimetto dentro, anche se la sento talmente leggera da capire benissimo che ormai è quasi vuota.
Tutto ciò che fa impazzire Diego di fastidio: mi pare di sentire la sua voce nella testa, chiudi quello sportello, e prenditi un bicchiere, perché non butti il cartone?
Scrollo le spalle.
Al cellulare ho un messaggio non letto, chissà quando è arrivato.
Juan?
Ho una leggera stretta allo stomaco che non so bene se sia speranza o paura.

          Buongiorno, principessa!*[2]
          Scusami per ieri sera.
          La torta era buonissima, come sempre…
          Non riesco a tornare per pranzo, 
          ma non volevo lasciarti a bocca asciutta…
          Visto che non sono bravo come te, 
          ho ordinato a domicilio al ristorante greco, 
          te lo portano alle tre.
          Puoi pagare con i soldi nel mio comodino!

Il messaggio è stato scritto senza neanche un’abbreviazione.
Non capisco perché Diego ha interrotto gli studi dopo il liceo: tra le persone che conosco, è quello che padroneggia la grammatica in assoluto meglio di tutti.
Spero quasi che Juan non risponda mai al mio messaggio.

***

«Sei sicuro che è gay?»
«Eh?»

Camminiamo affiancati in direzione centro estetico, dopo un pranzo improvvisato e inaspettato al ristorante greco dove Rafael ha voluto portarmi a tutti i costi per ricambiare il cappuccino di ieri.

«No, dico… Il tuo ragazzo. Come fai a saperlo? Forse lo sa lui, no?»
«No»

Scuote la testa con una sicurezza di sé che non ammette repliche,

«Perché lui… fa l’amore con me…»,

bisbiglia.

 

E vorrei dirtelo, che fa l’amore vuol dire che si fa scopare e che questo gli piace e che sempre ci dà di potenza e non di resistenza e anche se quando lo prende dura appena di più dura sempre poco e si vede, che gli piace, e se non sei gay non ti piace, punto e basta.
Vorrei dirtelo e sto per farlo ma non lo faccio, perché mi anticipi:

«Comunque è facile: ho letto da qualche parte che gli etero pensano al sesso ogni nove secondi e i gay ogni cinque, quindi basta controllare se ogni cinque secondi ti guarda tra le gambe oppure no»

Libero una risata leggera, scuoto appena la testa e ci penso su un attimo.
Lo farò.
Ci farò caso.
Lo penso anche se so benissimo che questa è una di quelle cose a cui invece non farò mai caso.

«Non pensi mai che magari è solo prudente? Non è una cosa che puoi dire al primo che passa»
«Ma non è questo: lui non lo nasconde, capisci? Lui lo nasconde a se stesso! È una questione di principio, se me lo dicesse chiaramente, almeno a me, o almeno a se stesso, pace, potrei sopportare questa vita da latitante, che sarebbe anche saggia, perché no, ma così… Lo so che mi sbilancio, lo so che esagero, ma mi ci porta anche, certe volte… Non sopporto che lo neghi così spudoratamente anche a me!»

Non lo sai ancora, ma tutta la mia vita è basata su principi ferrei: coerenza, sincerità con se stessi, onestà, onore alla parola data, puntualità e professionalità.
Ma soprattutto sincerità con se stessi.

«Ma tu sei… il suo primo ragazzo…?»
«È chiaro»
«E ragazze?»
«Boh…»

Scrollo le spalle.

«Che ne so, non gliel’ho mica mai chiesto. Non voglio sapere…»
«E lui anche, è il primo?»

Scuoto piano la testa.

«Come l’hai conosciuto?»

Ridacchio.

«È imbarazzante! C’ho fatto una figura di merda… L’ho salutato alla fermata dell’autobus perché l’avevo scambiato per un amico di mia sorella. È che… avevano i capelli tinti uguali! Quando ho visto che non era lui, niente, ormai gli ho detto scusami, ti ho scambiato per un altro e poi… niente… l’ho… diciamo stalkerato, per un po’…»

Diego sorride.

«E poi… all’inizio gli dava fastidio, credo… Perché si vedeva che ci stavo provando… E poi, beh…»

Ci fermiamo, siamo davanti al centro estetico.

«E poi?»
«E poi cosa?»
«Beh, cos’è successo?»
«Eh…»

Mi stringo nelle spalle, imbarazzato.

«E poi non si può dire…»

“Rafa… Non sono gay…”
“Sh…”
“Rafael…”
“Non importa…”
“Mi piaci…”

 

«Rafa?»
«Eh?»
«Posso chiamarti così?»
«Certo»
«Allora?»,

insisto.

«Allora che?»
«Allora…? Che è successo?»
«Ma niente…!»

Incrocia le braccia: ovviamente il discorso si chiude qui.

«Che schifoso…»,

mormora con un sorriso che va da un orecchio all’altro.

«E tu?»,

chiede di botto, forse per cambiare discorso.

«Che cosa?»
«Ah… ehm… come… com’è successo?»
«Ah… Ma… guarda… non c’è proprio niente da raccontare. Eravamo al liceo insieme, il primo anno ci parlavamo solo ogni tanto, mi sembrava carino, sì, ma alla fin fine, erano di più le volte che ci ignoravamo… Poi, il secondo anno abbiamo fatto una recita di classe, e… dovevi vederlo… Dovrebbe fare spettacolo, sul palcoscenico è così diverso… Dà il meglio di sé, ha… qualcosa… come un’aura… Sprigiona una luce, non so dire, i suoi occhi illuminavano la sala… Lì ho capito che lo volevo. Poi niente, c’abbiamo messo qualche anno, eh, ma alla fine ce l’abbiamo fatta…»

“Perché non la smettiamo, e basta? Siamo sinceri… È faticoso, continuare così…”
“Cos’è faticoso? Cosa dovremmo smettere?”

Me l’hai chiesto con quello sguardo furbetto di chi aveva già capito tutto.
E in quel momento anch’io l’ho capito, che potevo averti.
Ho capito che saresti stato mio.

***

Al rientro dal lavoro, Andrés mi viene incontro vestito di tutto punto e con i calzettoni di spugna ai piedi.

«Bentornato…»
«Ehi, stai già uscendo?»
«No, tra poco…»
«Ma hai un’ora d’anticipo! Tu sei troppo professionale»
«Non esiste troppo! O sei professionale, o non lo sei»
«Mh, se lo dici tu…»,

scrollo le spalle.
Andrés mi segue mentre vado in camera e inizio a spogliarmi.

«Ti è piaciuto il pranzo?»
«Sì, era buono»
«Magari la prossima volta ci andiamo insieme»
«Magari, sì…»

 

Appena rimasto in boxer, Diego entra nel bagno.

«Ti ho lasciato la cena pronta»

Sorride soddisfatto, mette i boxer nella cesta dei panni sporchi ed entra nella cabina della doccia.

«Ti ho comprato anche il vino»
«L’hai comprato a me? Che, devo ubriacarmi da solo?»
«Ma che c’entra?»
«Niente, scherzo…»

Mi appoggio alla parete, le braccia incrociate sul petto. Mi ostino a guardarmi la punta dei piedi, la stoffa pesante dei calzettoni di spugna che isola appena il freddo delle piastrelle.
Sono certo che anche ora Diego mi stia ignorando in quel suo modo così naturale, dall’altra parte del vetro talmente liscio e trasparente da non lasciare neanche un centimetro di privacy. Sono certo che anche adesso si stia lavando con quel suo particolare modo di fare come se io non ci fossi, regalandosi generoso alla mia vista e facendo però finta di non darmi importanza.
Ma ora sono io a non darti importanza, mi ostino a non guardare i tuoi svariati centimetri di privacy negata e generosamente offerta alla vista e cerco di trovare qualcosa d’interessante tra le fibre spesse dei calzettoni di spugna, che isolano appena il freddo delle piastrelle.

«Mi passi l’accappatoio?»
«Tieni»

Si siede sul coperchio del water e inizia ad asciugarsi.

«Andrés?»,

corruga la fronte, come fa sempre quando gli viene in mente qualcosa, qualcosa di dubbio, quasi sempre, e mi guarda serissimo negli occhi:

«Che devi farti perdonare?»

Ma te ne accorgi?
Le vedi le mie guance che sbiancano?
Le vedi o non te ne accorgi, perché la mia pelle è sempre chiarissima?
La senti la tensione che mi strizza i muscoli e m’immobilizza?
Capisci che non riesco a respirare senza dilatare le narici? 
C’è un tremolio in fondo ai miei occhi sbarrati?
Perché davanti a te devo sempre sentirmi così nudo?
Te ne accorgi che mi spogli con le parole? Che mi strappi di dosso i vestiti e la pelle, e non lasci respirare nessuna menzogna?

 

Andrés si stampa in faccia il suo migliore sorriso sfacciato:

«Lo sai benissimo…»
«No»,

ribatto lentamente,

«Non lo so»

Andrés torna serio.

«Scusami per ieri. E… per…–
«Va bene»,

Lo interrompo e lo abbraccio, non m’importa che l’accappatoio possa inumidirgli la giacca,

«Perché non resti un po’ con me?»,

gli sussurro all’orecchio, sfiorandogli il lobo con le labbra.

 

Quando sussurri, la tua voce sa essere straordinariamente sexy.

«Io… devo andare…»,

mi piange il cuore per quest’occasione mancata.

«Ma sei in anticipo…»

Mi passa una mano lungo la schiena, ma gliela blocco appena sopra le natiche.

«Non posso… Per favore…»

È già abbastanza brutto così.
Non ho mai odiato tanto il mio lavoro.

«Ho capito»,

Diego si stacca.

«Sei incazzato
«Non ho due anni. Sono dispiaciuto»

Ti guardo senza rispondere, triste.

«E non guardarmi così! Posso sempre farmi una sega»
«Ma io no!»,

ribatto stizzito.

«Questa è la logica conseguenza delle tue scelte»

Non riesco a decifrare questa intonazione. Dopo più di sei anni, pensavo di conoscerti un po’ meglio.

 

«Andrés?»
«Sì?»
«Io… ehm…»

Ti amo.

«Buon lavoro»,

gli sorrido sincero.

«Grazie»,

sorride anche lui.

***

«Ci sei?»,

chiedo ad alta voce non appena entro in casa, abitudine che non riesco a togliermi anche se so perfettamente che Rafael è già in casa perché la porta non era chiusa a chiave.

«Sono in bagno!»,

mi urla dall’altra parte del piccolo appartamento.
Mi accascio sul divano e mi passo entrambe le mani sulla faccia. Calcio via le scarpe, facendo pressione con la punta del piede destro contro il tallone della scarpa sinistra e viceversa. Ricadono pesantemente sul parquet del pavimento. Forse è il caso di comprarne un paio più leggero, appena il tempo si riscalda un po’. Sfilo la giacca, la lascio sulla spalliera del divano dietro di me e mi ci appoggio sopra.
Sono sfinito.
Anche se lavoro solo di pomeriggio, sono sfinito. Devo allentare un po’ i ritmi con la palestra del mattino.

 

«Bentornato»
«Grazie»,

risponde aprendo appena gli occhi.

«Dai, non dormire, ti ho preparato una cosa»

Vado in cucina e torno con due bicchieri colmi di frullato alla banana.

«Uuh, banana… Grazie!»

Juan appoggia le labbra al bicchiere e beve fino all’ultima goccia, densa, che riesce a colare lungo le pareti di vetro e staccarsi. Nel punto in cui si è accumulato più liquido cerca di raccoglierlo con la lingua, leccando l’interno del bicchiere. Non soddisfatto, si alza e va in cucina, mentre io lo seguo con il frullato ancora quasi intatto, concentrato solo nel decidere quale sarà il momento giusto per parlare. Juan prende un cucchiaino con cui raccoglie accuratamente tutto il frullato avanzato e finalmente, una volta colmo, lo mette in bocca e sorride trionfante.

«Hai da fare stasera?»,

mi butto, ora o mai più.

«No»

Risponde solo questo, mentre mette bicchiere e cucchiaino nel lavello e ci lascia scorrere sopra un po’ d’acqua.

«Allora… ti va di stare con me?»
«Certo»,

si appoggia al ripiano della cucina e incrocia le braccia.
Lascio il bicchiere semipieno sul tavolino e prendo fiato.

«Ti va di stare con me anche se io intanto sto anche con altre persone?»

 

Lo chiede parlando talmente veloce che per qualche secondo penso d’aver capito male.

«Che vuoi dire?»,

m’irrigidisco.

«Non metterti subito sulla difensiva!»
«Non ho fatto niente»

 

Non è vero!
Ti aspetti che io ti attacchi da un momento all’altro!

«Mia sorella fa una piccola cena per il suo compleanno, solo la famiglia e qualche amico, e niente, ha invitato anche noi»
«Perché anch’io?»
«Perché stai con me? È una cosa normale tra fidanzati, sai?»,

forse ho inacidito troppo il tono di voce,

«Non mi sembra molto educato se non vieni, vuole solo conoscerti»
«Non se ne parla»

 

Con la tua famiglia e tutti gli altri?
Vuoi umiliarmi così davanti a tutti quei maschi?

«Juan, è mia sorella
«Appunto, vacci tu»
«Ma veramente non te ne frega un cazzo di conoscere la mia famiglia? Io non sono nato d-da… da… da un fungo
«Senti, se a te va bene di fare il frocio davanti a tuo padre, a tuo cognato e a tutti gli altri, fai, io
«Io non faccio il frocio, Juan!»,

urla Rafael interrompendomi,

«Io lo sono!! E se stai con me, allora sei frocio pure tu!»

 

Juan deforma la bocca in una smorfia come se avesse ingoiato acido e fa per lasciare la stanza.

«Scappi dalla realtà?»,

lo spingo con le mani sulle spalle e cerco di ricacciarlo indietro, ma lui non si sposta, saldo nei suoi settanta chili di muscoli. Mi si blocca davanti alla distanza di dieci centimetri e si limita a sollevare la testa per guardarmi negli occhi con aria di sfida.

«Dici di non essere gay, giusto?»,

torno calmo.

«Non lo sono»
«Perfetto. Allora se non sei gay e se hai qualche considerazione della famiglia che mi ha cresciuto vieni stasera e dillo anche a loro, no? Diglielo, dai, sto con tuo figlio ma non sono frocio, come ho capito io capiranno loro, o ti vergogni forse di stare con me?»
«Non capiranno»
«E perché non capiranno? Non provare a dire che sono stupidi perché tu non sai proprio un cazzo di niente! Non capiranno perché è una stronzata, perché fa acqua da tutti i buchi e perché non ci credi manco tu! Perché se tu credessi tu per primo a quello che dici non esiteresti un secondo a venire con me stasera e dimostrare che hai ragione! Ma lo senti anche tu che cazzate t’inventi?»

 

Ora ti allungo uno schiaffo.

«Non sono gay!! Sei solo tu, perché non vuoi capirlo?!»

“Come ti chiami?”
“Juan… Tu?”
“Andrés…”

M’immobilizzo.
Non sei più l’unico.
La figura di Rafael davanti ai miei occhi si fa sfocata e la sua voce prende a rimbombarmi nelle orecchie. Lascio la cucina con le gambe improvvisamente malferme e la testa che pulsa, mi siedo sul divano e sprofondo il viso nel palmo delle mani mentre tutto mi sembra improvvisamente vuoto e privo di senso.
La consapevolezza somiglia sempre così tanto ad un mattone lanciato in pieno petto?
Fa sempre così male?
La realtà
la mia sola realtà
si è sbriciolata.
Non so più neanche se Rafael di là continui a strepitare, se mi abbia seguito fin qui o se invece se ne sia già andato in camera.
Ho bisogno di un po’ di tempo…

«Lasciami in pace…»,

bisbiglio all’orrenda vocetta, che poi è la mia voce, che nella testa continua a ripetermi frocio.

***

Quando attraverso la stanza per uscire, Juan non si muove, non alza nemmeno lo sguardo.
Lo guardo per un attimo, la mano già appoggiata sulla maniglia. Lo guardo così fragile, così piccolo e solo su quel divano, guardo le sue spalle ricoperte di muscoli ora completamente inutili per proteggerlo dalle insidie del mondo, del suo mondo interiore che lo sta consumando e in cui io non posso entrare.
Lo guardo e penso che da qualche parte esisterà pure un universo parallelo in cui io adesso sto attraversando l’ingresso, lo sto baciando e gli sto sussurrando ti amo
Ma non in questo, in questo universo faccio solo un piccolo sospiro triste e mi chiudo la porta alle spalle.

***

Sono gay sono gay
No non sono gay non sono gay
Dopo un certo intervallo di tempo che non ho nessun interesse nel quantificare, mi decido finalmente a uscire dall’immobilità in cui ero caduto e alzo piano la testa, mi guardo intorno.
Fuori sta già facendo buio. Forse ricomincerà a piovere.
Infilo la mano nella tasca della giacca e prendo il cellulare.
Ieri non so che mi è successo.
Forse tu sei una strega e io sono stato vittima del tuo incantesimo.
Ma oggi non succederà niente.
Io non sono gay.
Scrivo un messaggio.

***

          Non posso.
          Lavoro tutte le sere al ristorante Vesuvio*[3]
.

Rispondo solo questo e spengo il telefono, convinto che ciò basti per non rivederlo mai più.
Nina mi chiama, è ora di iniziare il turno.

***

Quando finisco la pizza, apro il frigorifero per prendere una lattina di birra fresca. Il vino rosso non l’ho neanche aperto, è qualcosa che si beve in due.
Appena vedo la confezione del succo di frutta la afferro di scatto per buttarla (forse nel secchio dell’immondizia, forse giù dalla finestra), ma mi fermo subito: è quasi piena.
Di quella vuota, non c’è neanche traccia.

***

Il Vesuvio è un posto veramente chic.
Il ristorante italiano più chic del quartiere: l’arredamento è chic, il personale è chic, il sorriso della signorina che prende le prenotazioni telefoniche, le mani del ragazzo che appende i soprabiti dei clienti, le uniformi dei camerieri, i cuscini delle sedie, le luci soffuse, le tende, i colori, i calici di vino, la carta del menù, la grafia con cui sono scritti i nomi di piatti che non conosco, i sorrisi dei camerieri, il tenue profumo dei cibi… tutto è tremendamente chic.
Mi guardo intorno: inizio a pentirmi di essermi precipitato qui di fretta senza curare più di tanto l’abbigliamento. È sgradevole questa sensazione di trovarmi in un posto che sembra non pensato per me, anzi: sembra pensato esattamente per tutto quello che io non sono. Mi sento un estraneo, uno straniero brutto, sporco e goffo in un mondo di persone dannatamente chic. Per fortuna, anche senza prenotare sono riuscito a trovare un posto in un piccolo tavolo all’angolo. Per essere un posto tanto chic, e di conseguenza pericolosamente costoso (per inciso, spero di riuscire a cavarmela con i soldi che ho nel portafoglio), è piuttosto affollato.
Finalmente, una giovane cameriera inizia a muoversi in quella che spero si mantenga la mia direzione. Ha un’eleganza raffinata nei modi, nello sguardo e nel lieve sorriso.
Quasi nello stesso istante Andrés entra nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei suoi occhi scuri e all’improvviso non penso più a niente. All’improvviso il cuore e i pantaloni mi si fanno stretti e riesco solo a rimpiangere di non aver messo, se non la cravatta, almeno la camicia.

 

Nina cambia improvvisamente direzione e mi si avvicina discreta, m’intercetta a circa quattro metri dal tavolo.

«Andrés…? Che fai? Quello è uno dei miei tavoli…»
«Ah, sì… Scusami… Lo conosco, vorrei servirlo io…»

Mi guarda un attimo perplessa.

«Sì… certo. Allora, io faccio il tredici al posto tuo…»
«Grazie»

 

Non appena Andrés mi arriva davanti, il sorriso gli si spegne all’istante.

«Che vuoi?»,

sibila con le labbra tirate in quello che dovrebbe essere la pallida imitazione di un sorriso di circostanza.

«Non so, lei che mi consiglia?»
«Non ti ho chiesto cosa prendi, ti ho chiesto cosa vuoi da me»
«È un ristorante, no? Voglio solo cenare»
«Allora sei nel posto giusto. Spero che tu non abbia particolari esigenze economiche…»
«I conti in tasca me li faccio da me, grazie»,

piego le labbra in una smorfia acida, che sono certo non somigli a un vero sorriso più di quanto gli somiglia l’espressione ancora congelata sul suo viso.

«Allora, che ti prendi? Un primo, un secondo?»
«Cos’avete di primo?»
«C’è scritto lì»,

indica svogliatamente il menù.

«Il personale è sempre così disponibile?»
«Di primo abbiamo gnocchetti al Sagrantino, tortellini di carne alla panna e prosciutto, bucatini all’amatriciana»,

ha impostato la voce monocorde di chi ripete un copione già acquisito da tempo,

«Vuoi che ti dica a memoria tutto il menù?»
«No, grazie. C’è farina di grano?»
«Certo»

Schiocco la lingua con disappunto.

«Allora niente, sono celiaco»
«Ah. Sennò abbiamo risotto allo zafferano–
«Meglio un secondo»
«Di carne o di pesce?»
«Una fiorentina va bene. E un bicchiere di vino rosso, quello che vuoi tu»
«Va bene. Fiorentina alla griglia e vino rosso, quello che voglio io»
«Non prendi appunti?»

S’indica la tempia e si lascia andare a quello che sembra il primo sorriso sincero della serata, una luce beffarda gli brilla negli occhi.

«È tutto qui dentro»

Si gira e fa per andarsene ma non ha il tempo di muovere neanche un passo che lo richiamo.

«Sì…?»
«Non è vero che voglio solo cenare»

Andrés si irrigidisce.
Vestito così, sei straordinariamente sexy.

«Io… vorrei anche parlare… con te. Ho avuto una brutta giornata»
«E hai pensato a me…»
«È così»

Si guarda intorno, con espressione indecifrabile.

«Aspetta. Ti porto la fiorentina quanto prima»

 

Mentre mi destreggio tra un tavolo e l’altro, rifletto febbrilmente.
Sono sempre stato un dipendente modello, non ho mai dato motivo di lamentarsi a nessuno: né ai clienti, né ai miei colleghi, né tantomeno ai superiori.
Arrivo sempre con almeno mezz’ora d’anticipo, sono tra gli ultimi a lasciare il ristorante, non mi tiro mai indietro quando c’è da fare degli straordinari o da sostituire qualche collega, ho scambiato il giorno libero con Nina ogni volta che lei me l’ha chiesto, non mi sono mai concesso un’assenza da lavoro se non per malattia, neanche quella volta che Diego voleva portarmi alla beauty farm per il nostro sesto anniversario.
Sospiro, da un lato Diego ha ragione: sono troppo scrupoloso ed è colpa mia se la nostra storia d’amore è ormai alla deriva.
Dall’altro lato, sicuramente non c’è niente di male se mi prendo un paio d’ore di permesso con la scusa di accusare mal di testa e sento cosa ha da dirmi Juan. Il proprietario dovrebbe concedermelo senza problemi e anche gli altri sicuramente copriranno la mia assenza se non volentieri, almeno senza protestare.
Da un altro lato ancora, probabilmente Juan non avrà proprio nulla da dirmi: l’ha capito molto bene, non sono un adolescente alle prime esperienze. Ma proprio perché non sono un adolescente alle prime esperienze posso permettermi di andare con lui e partire quando più lo riterrò opportuno. Confido ancora nella mia capacità di gestire le situazioni.
E poi… sinceramente, in fondo m’intriga questo giovane uomo così concreto e un po’ sbrigativo, così diverso da me.

 

Finalmente, Andrés si avvicina con la tanto ambita fiorentina e l’altrettanto ambito responso.

«Ecco qua. Non ti ho portato il pane…»
«Grazie»
«Buon appetito»

Mi serve anche il vino e mentre lo versa nel bicchiere ne approfitta per bisbigliarmi all’orecchio:

«Va bene, tra un’ora finisco il turno, tu aspettami fuori, okay?»
«Sì»

Prima di allontanarsi mi guarda serissimo negli occhi:

«Solo due chiacchiere»
«È ovvio»

***

«Duri sempre così poco?»

Sono fradicio di sudore.

«Sei venuto subito anche tu…»,

borbotta Juan senza guardarmi, sdraiato su un fianco.

«È un caso»
«Anche ieri?»
«È che sei troppo bravo»
«Che puttana…! Prima mi insulti e poi fai il ruffiano!»
«È la verità»

Gli palpo il sedere.

«Beh, che fai?!»,

Si gira di scatto dalla mia parte.

«Scusa. Il tuo culo voleva toccarmi la mano»

Juan si lascia scappare una risata leggera.
Mi accoccolo vicino a lui e inizio a toccarlo.

«Non sei contento? Abbiamo ancora tempo per un’altra volta…»

***

«Ti piace…?»
«Sì… mi piace…»
«Sono più bravo… del tuo ragazzo…?»

Non me lo ricordo più, come facevo l’amore con lui…

«Sei molto bravo…»
«Anche tu… Sei bellissimo, Andrés… Sei bellissimo… sei bellissimo…»
«Sono più bello di lui…?»
«Sì…»

 

Non ho mai trovato bello Rafael.
Non ha mai pensato che fosse brutto, solo… non ho mai neanche pensato che fosse bello.
Mi sono innamorato, e basta.

 

Mercoledì 9 maggio

Apro la porta di casa.
Sono stanco.
Calcio via le scarpe infangate e tolgo la giacca inzuppata di pioggia. Lascio che sgoccioli sul pavimento, le gocce precipitano al suolo e formano una piccola pozzanghera.
Un bel temporale notturno è proprio quello che ci voleva per concludere in bellezza la giornata.
Il solito brusio proveniente dall’altra stanza mi accoglie come ogni notte ed è la traccia più viva e più vera della nostra vita vissuta in due. 
Nessun bentornato, nessun abbraccio.
Nessun calore.

«Buongiorno a te, carissima…»,

sussurro alla voce metallica.
Inizio a sentire in bocca il sapore amaro del caffè, eppure non ho bevuto caffè. Ho fame. Sempre lo stesso sapore amaro ogni volta che mi viene fame, dovrò chiedere al medico se è questione di succhi gastrici…
Per aver passato nove ore a digiuno e aver fatto più attività fisica del solito, non me la sto cavando male. Dovrei stare già morendo di fame.
Non mi piace solo cucinare, mi piace molto anche mangiare, solo che ora di mangiare non ho proprio voglia.
Apro la credenza, prendo una confezione di succo di frutta alla pesca e la apro. Bevo appoggiando direttamente le labbra, finché non mi sento dissetato e momentaneamente sazio.
Devo andare a dormire prima che mi torni fame.
Non ho neanche voglia di farmi il bagno, cazzo, Juan, mi fai passare la voglia di mangiare, mi fai passare la voglia di fare il bagno, ma cosa sei?
Sono contento d’aver speso due minuti in più a farmi la doccia prima di rientrare.
Entro in bagno e mi spoglio di tutti vestiti, anche quelli puliti o miracolosamente asciutti, li tolgo e li butto a lavare come chi si libera di una giornata troppo pesante, come se lavare i vestiti bastasse a ripulirmi la coscienza.
Mi guardo allo specchio.
Juan mi ha graffiato una spalla.
Tre strisce rosse mi marchiano a fuoco la pelle bianca come il latte.
L’hai fatto apposta?
O io stesso mi sono lasciato marchiare appositamente affinché Diego possa scoprirmi e porre la parola fine a questo dolore?
Indosso uno striminzito paio di slip e il pigiama: la t-shirt arancione perché da un paio di giorni non ritrovo quella azzurra, e i pantaloncini azzurri perché da un paio di giorni non ritrovo quelli arancioni, ma pazienza, nella vita succede anche di questo.
Entro in salotto.
Diego russa piano sul divano, accompagnando il rumore soffuso della tv.
La televisione parla e parla al suo corpo addormentato riempiendogli il cervello di chissà quali messaggi subliminali.
La spengo.
Il buio si impossessa della stanza, della casa, della mia testa.
Quasi come fosse diretta conseguenza della mia cecità momentanea, un altro senso, l’olfatto, percepisce nuovi stimoli.
Diego ha di nuovo fumato in casa.
Mi avvicino alla finestra, incerto, la apro. Un vento gelido che sembra venuto direttamente dalla Siberia mi fa rizzare ogni pelo del corpo e rabbrividisco sotto il pigiama leggero.
La richiudo.
Cerco di farmi strada verso la poltrona in stile vittoriano che non si abbina a nessun altro mobile della casa, ma era troppo comoda e non ho saputo resistere alla tentazione di comprarla. Lungo il breve tragitto, inciampo nelle ciabatte di Diego.

«Mmh…!!»

Non so se con questo mugolio di protesta, basso e prolungato, spero di svegliarti e per questo motivo non sono rimasto zitto, o se invece spero di non svegliarti e per questo motivo non ho urlato.
Comunque, non ti svegli.
Mi accoccolo sulla poltrona.
Il sonno mi schiaccia le palpebre, il cervello, le idee.
Affondo la testa nelle braccia e due lacrime sottili mi rotolano giù dagli occhi.
Diego, ti odio. Ti odio perché non riesci a non fumare in casa, non riesci a non lasciare le ciabatte in mezzo alla stanza e non riesci a spegnere quella cazzo di televisione, non riesci ad aspettarmi sveglio, a letto, a venirmi incontro quando rientro da lavoro, ti odio perché non mi sussurri più alle labbra bentornato, non mi tocchi, non mi baci, ti odio perché non fai più l’amore con me.
Mi odio così tanto perché tu non fai più l’amore con me.
Sai, mi ricordo ancora perfettamente il motivo per cui mi sono innamorato di te, non riesco a dimenticare l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore che diventa giorno dopo giorno più sfocata, lontana, confusa e irreale… e tutto questo è così… patetico
Mi odio perché non riesco a mettere la nostra storia d’amore prima del mio lavoro e delle mie ambizioni, mi odio perché non riesco a lasciarti e, maledizione, non riesco neanche a non tradirti.
E sai, Juan?, odio anche te, perché con te è talmente facile trovare un po’ di piacere…

***

«Juan…?»
«Mh…?»

Ceniamo uno di fronte all’altro, lentamente e in silenzio.

«Sei… ancora arrabbiato…?»

Juan sospira.

«Non lo so. Non so più che dirti, guarda… Sono arrabbiato con te, sono arrabbiato con me, sono incazzato col mondo intero e poi sono amareggiato, triste, e dispiaciuto, mi sento in colpa, vorrei prenderti a schiaffi, ho voglia di piangere, di lasciar tutto e… e di…»,

sospira di nuovo,

«Non lo so»,

prende aria e sbuffa sonoramente, soffiandola tra le labbra e gonfiando le guance,

«Scusami»

Mi mordo il labbro inferiore e lo guardo in silenzio.
Una volta mi hai detto che la mia espressione tipica è indecifrabile come quella di una sfinge. Sono sicuro che stai pensando questo anche adesso, della mia faccia.

«Juan?»
«Sì?»
«Pensi mai…»
«Cosa?»
«Che…»
«Mh…?»

Che sarebbe meglio se non m’avessi incontrato?

«Che…»
«Oh! Stai balbettando»

Mi sa che non voglio sentire la risposta.

«L’ho dimenticato»
«Che bugiardo»
«E se rapissi Mozart?»
«E chi è Mozart?»
«Il gatto, quello che gira qua intorno da un po’»
«Ah! Ma guarda che è una gatta»

Strabuzzo gli occhi.

«No!»
«Eh sì»
«E come lo sai?»
«Sì vede. Cioè, non si vede… che… che è un maschio»
«Che schifoso! Guardi i genitali degli animali?»
«Ma! Ma che cazzo dici? Non è che ci guardo, l’ho visto, e basta…»
«Me l’ero scordato… che esistono anche le gatte…»
«Eh, sveglio…»
«Ma ora non ci va più bene il nome Mozart?»
«Perché?»
«Non lo so, è una femmina…»
«E beh? Mozart è un cognome… E poi non è tua, quindi non puoi dargli un nome»

Lo guardo torvo.

«Penso che non se ne accorge nessuno se me la prendo. Passa più tempo qua…! E poi che faccio se un giorno prende e se ne va?»
«La lasci andare così com’è venuta, perché questa è la cosa giusta. Sai, no?, come si dice, se ami qualcuno devi lasciarlo libero di andare?»
«E da quando sei così filosofo?»

Juan schiocca la lingua nel suo tipico verso di disappunto.

«Non è questione di filosofia. Sarà anche solo un gatto, ma se non sei capace di lasciare libero neanche un gatto, come pensi di cavartela con gli esseri umani?»
«Mi stai lasciando?»

Mi guarda allibito.

«Rafa»,

parla lentamente, pesa le parole,

«Ti lascio alla prossima cazzata che dici, eh?»

Increspo appena gli angoli delle labbra in un sorriso. Una volta mi hai detto anche che non so sorridere. È vero.

«Hai ragione tu, non so cavarmela con gli esseri umani»
«Cioè?»
«Cioè non credo che sarei capace di lasciarti andare. Forse…»,

bisbiglio, quasi non volessi davvero farti sentire,

«…forse ti ammazzerei…»

Juan non risponde niente, perso in chissà quali pensieri.
Poso distrattamente lo sguardo sull’orologio appeso alla parete e per un paio di minuti non lo vedo neanche, non mi accorgo del ticchettio delle lancette e del loro rincorrersi ritmato e sempre uguale. Poi, come riscosso dal torpore, metto a fuoco l’ora.

«Okay, devo andare!»,

scatto in piedi.

«Dove vai?»
«Gelato con gli amici, vieni con noi?»

Serra le mascelle talmente forte che mi sembra di sentire lo stridio dei suoi denti digrignati.
Non gli do neanche il tempo di rispondere:

«Ho capito»

Mi hai rotto qualcosa dentro una volta di troppo.

«Juan»,

e se ti sembra che io ti stia minacciando, bravo, è perché ti sto minacciando,

«Non tirarla troppo, o prima o poi si spezza»

 

Apro la bocca per ribattere e io? Che dovrei dire, io? Sempre lì a pungolarmi con questa storia insopportabile! ma Rafael ha già lasciato la stanza.
Il problema è che le fratture possono crearsi in qualunque momento durante un rapporto e questa sembra proprio una di quelle fratture insanabili. Siamo corpo a corpo, due monoliti inamovibili, due ingranaggi che non s’incastrano, due guerrieri alla resa dei conti, ai ferri corti, un amore messo a ferro e a fuoco, due anime gemelle distanti anni luce che non sanno stare lontane eppure non riescono neanche a stare insieme senza farsi male.
Maledizione.

***

«Pronto, Diego…?»
«Ehi, ciao!»
«Sei a cena?»
«No, ho finito…»
«Ti disturbo…?»
«No no…»
«Sei… solo…?»
«Sono tutto tuo!»
«Ehm…»

Deglutisco rumorosamente e un po’ a fatica, la gola sembra essersi fatta più stretta.
È tanto grave se un gay chiede il numero di cellulare a un altro gay?
E se glielo chiede quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
E se uno dei due gay chiama l’altro gay quando arriva ai ferri corti con il fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?

«Rafa?»
«Scusa, non ti sentivo!»
«Ora mi senti…?»
«Sì, dimmi pure»
«No, tu dimmi! M’hai chiamato tu, eh…»
«Oh, giusto. Ehm, sì, ehm, hai… hai molto da fare adesso?»
«No, perché?»
«No, così, perché, non è un appuntamento, eh?, mi chiedevo solo… è… che sono libero e… mi sto annoiando e allora… magari…»
«Mi stai chiedendo di uscire?»
«No!»
«Rafael?»
«Eh, sì, scusa, non parlavo con te, ma ora parlo con te, sì, insomma, ti va un gelato?»

È tanto grave se un gay disdice un impegno con gli amici per stare insieme a un altro gay a cui ha precedentemente chiesto il numero di telefono, quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva? 
E se il primo gay fa tutto questo all’insaputa del proprio fidanzato pure gay ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
Perché suona tanto come un tradimento?

***

«Ah, lui mi piace un sacco!»,

indico col cucchiaino verso la televisione, sta passando in onda la pubblicità di un telefilm in prima mondiale e l’attore coprotagonista è tutto ciò che si potrebbe volere in un uomo,

«È proprio il mio tipo!»
«Cazzo, che figo! Credo che sia il tipo di tutti! E lui, gli somiglia?»
«Sì, come no»,

rispondo sarcastico e sghignazzo,

«Soprattutto l’altezza»
«Perché?, è basso?»
«È alto un cazzo e un barattolo! E non solo è nano, è uno scimmione peloso tutto muscoli e niente cervello–
«Oh, oh! Tutto muscoli!»,

Diego ammicca e mi interrompe, ma io lo ignoro:

«…e non si zitta un secondo! Non fa altro che sparare cazzate da mattina a sera con la sua vocetta acuta che non si può sentire!»

A parte quando canta…
Anche se ultimamente non canta più tanto…
E non ride… neanche tanto…

«Perché niente cervello, poveraccio?»
«Cioè, no, secondo me in realtà è molto intelligente, eh, però ha studiato poco, perché fin da piccolino è stato avviato alla carriera sportiva–
«È un atleta?»
«Adesso fa l’allenatore di judo ma fino a qualche anno fa faceva proprio le gare e ha vinto anche qualche medaglia, se lo cerchi in internet forse trovi anche qualche video… Però per fare lo sportivo non ha finito il liceo… All’inizio, figurati, è stato contentissimo, tanto la scuola fa schifo a tutti, poi però… ogni tanto penso che sia un po’… forse non pentito, ma almeno amareggiato, o almeno… da quello che dice… È che ormai non studia più praticamente da dieci anni e un po’ si sente, quando parla… Fa qualche errore un po’ stupido… e va beh, nessuno è perfetto… E tra voi due, chi parla meglio?»

 

Mi prendi in contropiede.

«Ehm… Boh… è importante?»

Rafael scrolla le spalle.

«Nah… sono solo curioso»
«È che… non posso dirlo bene, perché Andrés non è di qui, viene da… un posto vicino Almería»
«Aah… Andaluso»,

c’è una traccia d’ironia nel modo in cui pronunci la parola ‘Andaluso’.
Sì, l’unico andaluso bianco della nazione, lentiggini capelli biondi e pelle da Biancaneve.
Potrebbe tranquillamente essere venuto qui da un altro mondo.

«Che c’è, non ti piace l’accento?»
«Non tanto…»
«Già, neanche a me. Ma tanto ormai parlo anch’io come lui…»
«Ma no, neanche tanto, sai? Non si sente troppo»

Immergo la punta del cucchiaino nel cappuccino, perso nei miei pensieri.

 

«Piuttosto, ma lo sai che Mozart è una femmina?»
«Il gatto? Quello che mi dicevi ieri?»

Diego mi risponde con leggerezza, concentrato a raccogliere la schiuma soffice e bianca.

«»
«E allora?»
«E allora?!»,

ma perché nessuno si accorge della gravità di questa rivelazione?

 

«E allora questo è terribile! Io… ma perché non l’avevo pensato? Che stupido! Ma io… io non ricordavo proprio che esistevano le gatte! Ho dato per scontato che un gatto fosse maschio, e… è… è stato uno shock!»
«E come l’hai scoperto?»,

ridacchio sotto i baffi, faccio solo finta di seguire il filo del discorso mentre in realtà mi sto prendendo gioco di lui, ma bonariamente, con affetto. È divertente quella faccia da bambino con cui parli del mondo, ogni volta che apri bocca è una nuova sorpresa.

«Me l’ha detto Juan…»
«E insomma, per te esistono solo i maschi, eh…?»

Rafael mette il broncio e guarda fuori dal vetro del bar, verso la strada, le luci, le persone.

«Per te no…?»,

borbotta.
Sorrido, finisco il cappuccino e non dico niente.
Certo, anche per me.

«Diego…?»
«Sì…?»
«Da dove viene il fascino?»
«Boh… Perché?»

Scrolla le spalle.

«Perché io non sono affascinante»
«Eeh…»,

emetto un suono prolungato che dovrebbe essere solo l’inizio di una parola all’inizio di una frase che dovrebbe smentirlo, ma dopo un lungo secondo rinuncio al mio proposito,

«No, in effetti»
«Eh, lo so»
«Però sei molto carino»

Te lo dico serio e lo penso davvero, mentre ti guardo negli occhi, non lo dico solo per consolarti. Non lo so neanch’io dove, ma tu sei indubbiamente carino.

«Grazie…»,

abbassa lo sguardo per un istante soltanto.

«Sì, ma da dove viene il fascino?»,

riprende subito dopo, senza darmi tregua,

«È qualcosa che si più ottenere col tempo o ci si nasce? È legato a una parte fisica del corpo oppure no?»

Devo pensarci un momento.
Penso ad Andrés, senza dubbio uno dei ragazzi più affascinanti che abbia mai incontrato.

«Mmh… Sai, forse… è nel viso… negli occhi o nel sorriso… no, negli occhi no, nello sguardo…»
«È diverso secondo te?»
«Non lo so… Ma penso che se ipoteticamente si potesse togliere gli occhi a qualcuno e metterli a qualcun altro senza che questo sia, scusami, fosse?, scusa, non lo so, straordinariamente schifoso, mi segui?, se si potesse fare probabilmente non avrebbero lo stesso sguardo, perché lo sguardo è dato da tutto il viso, dalla pressione dei muscoli facciali, da… boh, non lo so neanch’io da cosa…»

Mi stai guardando negli occhi con lo sguardo fisso di un bambino, serio e interessato, e solo adesso noto qualcosa…

«No, però forse mi sbaglio… Perché tu hai qualcosa come una lucina che ti brilla in fondo agli occhi…»
«Smettila! È imbarazzante!»

Rafael volta la testa di lato, di scatto.

«Scusa… Quindi forse non è lo sguardo…»
«Non lo so, non ho mai riflettuto sullo sguardo. La voce, forse?»

Penso di nuovo ad Andrés e scuoto deciso la testa.

«No, la voce no, decisamente. Forse è solo una questione di atteggiamento generale, il modo di muoversi o di occupare lo spazio o qualcosa del genere»,

concludo con un’alzata di spalle, non saprei che altro dire.

«Insomma, ho capito, non riuscirò mai ad essere affascinante»
«Non puoi solo accontentarti di essere carino?»
«Carino può essere straordinariamente simile a bruttino»
«Non dire cazzate, carino è carino e basta, altrimenti direi che sei bruttino, no?»

Piega verso l’alto solo un angolo della bocca, simultaneamente alla spalla destra.

«Se lo dici tu. Senti, ma… e se fossi un sentimento… Quale saresti?»

Il discorso sul fascino t’ha già stancato?
Tu t’annoi subito, eh?

«Un sentimento? Certo che fai domande strane. Tu che saresti?»
«L’ansia da prestazione»
«Eeh?!»
«Ma non sessuale! Quell’ansia che ti viene prima di una prova…»
«Sei un tipo ansioso?»

Si mordicchia il labbro inferiore.

«Un po’, ma tanto non si vede. Cioè, Juan dice che sono glaciale, che non riesco a esprimere bene le mie emozioni, che non ho il pieno controllo dei muscoli facciali, che soffro della Sindrome di Asperger, un volta m’ha chiamato Vergine di Ghiaccio, sai?, ma insomma, non è colpa mia, sono fatto così, non tutti hanno i pensieri che gli si leggono sul viso come un libro aperto, che c’è di ma–
«E se fossi una pratica sessuale?»

 

«Eh?! Che cazzo chiedi?»
«Quale saresti?»
«No, non mi piace questa domanda»
«E dai, si fa per parlare…»
«Tu che saresti?»
«Di sicuro qualche preliminare… Che so…»
«Tipo un massaggio erotico?»
«Ah ah… Sì, tipo. Tu invece…»
«No»
«Secondo me saresti…»
«E dai, smettila»
«Qualcosa di molto perverso!»
«Non urlare, cazzo!»
«Mmh…!»

Fai la classica faccia di chi è arrivato a qualche soluzione geniale e assolutamente inaspettata, con un sorrisino buffo e gli occhi che brillano, e io della tua soluzione geniale e assolutamente inaspettata ho paura.

«Bukkake!»

Sento le guance infuocarsi.

«Non so se esiste un altro termine per dirlo»
«Fa niente, ho capito»,

mormoro mentre mi guardo intorno, agitato, spero solo che nessuno abbia sentito.

«Allora…?»
«Che?»
«Ti piace?»

E a te?
A te piace? 
Me l’hai detto perché vorresti…? 
Con me…? 
Vorresti farlo… a me…? 
Su di me?

«Ehi, ti sei offeso?»
«No... »

Ti accarezzo il corpo con lo sguardo, mi sembra di vederti per la prima volta sotto una luce nuova.
Attraverso il cotone morbido, grigio, dei pantaloni da ginnastica posso vedere le tue forme… Un rigonfiamento tenue e perfetto che sembra promettere grandi cose…
È tanto grave se un gay si ritrova a spiare la bozza nei pantaloni di un altro gay quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva? 
E se il primo gay, dimenticandosi per un istante solo del proprio fidanzato pure gay ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso, immagina di prenderglielo in bocca?
Scuoto la testa, schifato da me stesso.
Perché suona tanto come un tradimento?

 

Giovedì 10 maggio

“Ti piace…?
Sì… sì, così…
Sono più bravo… del tuo ragazzo…?
Sì… mi piace…
Sei molto bravo…
Come ti chiami?
Ah…! Mh… sì… Ah! Aah…
Andrés...
Sì… sì, così…
Sei molto bravo…
Anche tu…
Sei bellissimo, Andrés…
Sei bellissimo…
Sei bellissimo…”

***

«Ahi!»

Mi sveglio di soprassalto, Juan mi ha tirato una gomitata tra le costole.

«Ma che cazzo…?»

Lo spingo dalla sua parte di letto, lui beato continua a dormire e trascina con sé coperte e lenzuola.
Mi stropiccio gli occhi.
Non ho il coraggio di controllare l’ora… Tanto saranno le tre, o le quattro. O le cinque. No, le cinque no. Le quattro, forse. Comunque notte fonda, troppo fonda per essere svegliato da una gomitata tra le costole.
Afferro le lenzuola e le tiro verso di me un centimetro alla volta.
Mi giro a guardare Juan, intravedo la sua sagoma nella penombra della stanza. Attraverso le tende filtra sempre un tenue bagliore.
Si contorce piano, nel tipico modo in cui si muove chi sta facendo un sogno erotico.
Gli passo una mano sugli slip.

«Hi!»

Sussulta e si sveglia, spaventato e confuso.

«Sh… Sono io… Continua a dormire…»

Grugnisce appena e affonda la faccia sul cuscino.
Io infilo la mano sotto la stoffa.


 

Martedì 15 maggio

La tua collega è bellissima.
L’avrei pensato subito, quella sera al Vesuvio, se solo in quello stesso momento tu non fossi entrato nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei tuoi occhi scuri.
E invece, in quel momento tu sei entrato nel mio campo visivo illuminando tutta la sala con lo sguardo magnetico dei tuoi occhi scuri e io ho sentito il cuore e i pantaloni farsi improvvisamente stretti e non ho più pensato né alla tua collega né a nessun’altra donna, bella o brutta che fosse, ho solo rimpianto di non aver messo, se non la cravatta, almeno la camicia, e la mia attenzione è stata tutta, senza speranza né possibilità d’appello, per te.
E questo m’infastidisce estremamente, perché ora la guardo e penso che sia davvero bellissima, lo penso per la prima volta perché al Vesuvio non ho avuto il tempo di pensarlo, la guardo e penso che avrei voluto pensarlo, avrei voluto pensare che era bellissima e non mi piace pensare che nonostante bellissima lo sia davvero non è comunque abbastanza bella da poter attirare prepotentemente il mio sguardo come invece sai fare tu, che senza far nulla, senza guardarmi neanche, entri di forza nella mia vita, nei miei pensieri, ti pianti lì come un chiodo rovente in mezzo al cervello e ti autoproclami il centro del mondo.
Sbuffo, innervosito.
Vi volto le spalle.
Una coppia di belli che guarda le vetrine solo una decina di metri più giù, a guardarvi potreste esser fidanzati, che ritratto patetico di questa felicità negata.
Vi volto le spalle, un grumo di disgusto mi opprime la gola, percorro rapidamente la via affollata del centro, in direzione opposta, ostinata e contraria.*[4]

 

«Andrés, che c’è?»
«Eh?»

Mi giro di scatto verso di lei, colto in flagrante.

«Che cosa?»
«Non mi stai ascoltando…»
«Scusa»
«Lo conosci?»
«Chi?»
«Quel ragazzo…»
«No…»

Lei si ferma un attimo a guardarlo più attentamente.

«Come, no? Non è il tuo amico? Dai, quello che è venuto a cena l’altro giorno?»

Lo osservo.
No, faccio solo finta di osservarlo.
No, no, lo osservo.
Gli passo il raggio laser sulle cosce, sul culo, sulle spalle…

«Andrés?»
«Eh? No, no, non lo conosco… È… sì, gli somiglia solo… molto»

Mi giro per guardarlo di nuovo, ma Juan se n’è andato.

«Andrés?»

Nina mi appoggia dolcemente una mano sul braccio e mi guarda dritto negli occhi, sembra appena preoccupata:

«Tutto bene…?»
«Sì, tranquilla»,

sorrido, e ancora non l’ho mica capito se quel corso di recitazione del liceo mi è tornato utile nella vita o se invece è stato solo una delle tappe nel mio naturale sviluppo di bugiardo, perché a recitare, a mentire, sono sempre stato bravo, bravo soprattutto quando mento a se stesso.

***

          Carina la tua collega.

Sei una maledizione.

          Grazie

          Hai da fare?

Sei una persecuzione.

          Lavoro

          Domani mattina?

Assolutamente no.

          Alle 10 è ok
 

 
Mercoledì 16 maggio

È buffo come, qualunque cosa io faccia, finisco sempre per ritrovarmi con te.
Ti inserisci nelle pieghe della mia vita come l’acqua, sei in ogni interstizio, in ogni crepa, in ogni fessura, riempi tutti i vuoti con la tua presenza così concreta, più concreta della televisione accesa, delle pantofole lasciate in mezzo alla stanza, della puzza dei mozziconi di sigaretta.

«Piove»
«»
«Aspettiamo?»
«»

No, non è buffo.
È preoccupante.
Se iniziamo a darci l’appuntamento, non ne usciremo mai più.

 
Andrés è sdraiato sul letto a pancia in giù e punta i gomiti sul cuscino. Con le gambe piegate verso l’alto, lascia dondolare i piedi mollemente e ogni tanto li sbatte contro il materasso producendo un tonfo attutito.
Guardo pigramente fuori dalla finestra di questa stanza d’albergo e le gocce di pioggia che s’infrangono leggere contro il vetro aumentano la mia sonnolenza.

«Non li usi mai i preservativi?»
«Sì sì, li usiamo. Non sempre, ma insomma… spesso. Rafa ha paura delle malattie»
«È il tuo ragazzo?»
«Sì…»

Si gira su un fianco e mi dà una leggera pacca sulla spalla.

«Bravo ragazzo, continua»
«Perché?! Hai qualche malattia?!»

Andrés scoppia a ridere, la sua risata cristallina è così forte e spontanea che mi serve un lungo momento prima di sentirmi deriso.

«Sarai mica tu ad aver paura, eh?!»,
 
continua lui, impietoso.

«Non ho paura!»
«No…?»

Metto il broncio.

«Forse… solo un po’…»
«Se hai paura puoi usarli, a me non dà fastidio»
«Stiamo facendo una cosa molto pericolosa, vero?»

Mi guarda serio. Troppo serio.

«Da che prospettiva?»
«Da tutte»

Ci mette un po’ a rispondere.

«Non ho malattie»,

dice lentamente, alla fine.

«Il tuo ragazzo?»

Schiocca la punta della lingua, verso che interpreto come un no, forse perché è così simile a come io schiocco la lingua quando voglio dire di no.

«Il tuo?»
«Usiamo il preservativo»
«Già. Bravo piccolo lepu»
«Piccolo… che?!»
«Coniglietto!»
«Eh?? Una cosa meno gay?»
«Ma io sono gay»

La tua sincerità fa paura.

«E come lo sai?»
«Ma che domanda è…? Lo so e basta, no? Tu come lo sai?»

Contraggo ogni muscolo del corpo.
Io non lo so.
Mi sembra di annaspare alla ricerca di aria, alla ricerca di una risposta.
Io non lo sono.
All’improvviso sento, fortissimo, il bisogno irresistibile di picchiare qualcuno.

***

 
Destro
Sinistro
Sono gay sono gay
Destro
Sinistro
No non sono gay non sono gay
Un pugno
Sono gay
Un altro
Non sono gay
Un altro
Rafa
I piedi scalzi
Ti odio
I calzoncini
Ti amo
Il pavimento freddo
Ti odio
Il sudore
Rafa, sono gay, non sono gay, sono quello che vuoi
Destro
Sinistro
Destro
Sinistro
Destro
Andrés, ti odio, ti odio, non sono gay non sono gay sono gay
Sinistro
I muscoli
Dolenti
Sono gay sono gay no non sono gay non sono gay sono gay
Un pugno
I tonfi sordi
Un altro
Un altro
Un altro
Frocio schifoso!
Scappi dalla realtà? 
Codardo
Se stai con me sei frocio pure tu!
Io non lo so!
Tu come lo sai?
Sono gay sono gay
Io non lo sono!
Bugiardo
No non sono gay non sono gay
Ma io sono gay!
Io non faccio il frocio, io lo sono!

Mi stai lasciando?
Traditore
Destro
Destro
Lasciatemi tutti in pace!!
Perdo il ritmo, colpisco con il palmo della mano, uno schiaffo alla vita, alla mia miseria, il sacco da boxe finora quasi immobile ondeggia lontano e poi si riavvicina pesante, cerco di colpirlo ma il sudore mi cola dalle ciglia e lacrime di frustrazione mi offuscano la vista e ormai ho perso l’equilibrio e la concentrazione e sono troppo sbilanciato e riesco a toccarlo solo di striscio.
Il sacco mi colpisce in pieno viso.
Cazzo!
Sento il naso pizzicare.
Mi ha rotto il setto nasale?
Mi lascio cadere a terra.
Mi porto le mani al volto, il naso fa malissimo.
È umiliante.
Ricevere un colpo al viso è così umiliante.
Non riesco a fermare le lacrime, lacrime di dolore, lacrime in risposta fisiologica al colpo ricevuto, lacrime di chi non ne può davvero più.
Non ne posso più, non mi capisco, non mi riconosco e mi do anche un po’ fastidio.
Lacrime liberatorie di un senso di colpa troppo grande.
Mi copro il viso con le mani e mi lascio piangere, per un po’.
 
***

Andrés rientra in casa.
Mi stacco dal silenzio della stanza, gli vado incontro e gli sorrido e lo bacio leggero sulle labbra, abitudine che non ho mai avuto ma che ad Andrés fa piacere, e a me fa piacere sforzarmi di ricordarmelo, ogni tanto.
Lo guardo incuriosito.

«Mattiniero…! Com’è che sei uscito stamattina?»
«Ah, ehm… Sì… Che ci fai qui?»
«Ci vivo»

Libera nell’aria una risatina nervosa.

«Già, l’avevo scordato. La palestra?»
«Ho finito prima. Allora? Che hai fatto?»
«Niente… commissioni… Pranziamo insieme?»
«Okay»
«Che profumo hai messo oggi?»

Sussulta.

«Eh? Ma… che dici?»,

si porta un lembo di stoffa davanti al naso e annusa la maglietta,

«Ma no… Nessun profumo…»

Mi avvicino e lo annuso anche io, affondo il naso nell’incavo del suo collo, vicino all’orecchio.
Andrés cerca di ritrarsi.

«Come, no? È buono»

Socchiudo gli occhi.

«L’hai… provato in qualche profumeria…?»

Avanti…
Ti sto dando la scusa perfetta… 
Dimmi di sì… 
Dimmi di sì…

«No…»,

sembra confuso,

«Ah! Forse… Sì, c’era… questo tipo… con… un profumo fortissimo… accanto a me… Sì, sull’autobus. Forse mi è rimasto addosso…»

Eppure… 
Non ascolto neanche cosa risponde, smetto di prestargli attenzione, improvvisamente mi viene in mente qualcosa.
È che mi sembra proprio di averlo già sentito… 
…da qualche parte…

 
Giovedì 17 maggio
 
Apro deciso la porta del piccolo centro estetico, una pioggia di campanelli tintinna e annuncia il mio arrivo.

«Buongiorno!»,
 
la ragazza alla reception mi accoglie con un sorriso allegro e cordiale.

«Buongiorno a lei, ho appuntamento per un massaggio alle quattro»
«Certamente, può dirmi il suo nome…?»
«Rodríguez, Rafael. Avevo telefonato… per chiedere…»

La ragazza scorre rapidamente una lista di nomi su un registro, non so neanche se mi sta ascoltando.
Seguo la punta del suo dito indice con lo sguardo, quando si ferma all’altezza del mio nome annuisce:  

«Sì, mi ricordo di lei, ha chiesto espressamente di Diego, giusto…?»

***

«Ah, Rafael, che sorpresa!»,

Diego mi accoglie con un sorriso beffardo, lo sguardo brillante.

«Anche stavolta dovevate essere in due…?»
«No, Juan non lo sa»
«Che ti faccio, oggi?»

Dio, tutto quello che vuoi.
È molto grave se un gay salta le lezioni del pomeriggio all’insaputa del proprio fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
E fa tutto questo per andare a farsi fare un massaggio da un altro gay, quando tutti e due stanno disperatamente tentando con le unghie e con i denti di tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
Perché suona tanto come un tradimento?
Deglutisco, nervoso, e mi guardo intorno.

«Tu che mi consigli?»
«Un massaggio concentrato sulla pancia…?»
«Perché sulla pancia?»
«Prima di tutto, perché è molto piacevole. E poi anche perché serve una certa dose di fiducia per farsi toccare sulla metà davanti del corpo, no? C’hai mai fatto caso?»
«È vero…»
«Allora, ti va bene?»
«Sì…»

 
Rafael si sdraia sulla schiena seguendo le mie indicazioni.
All’inizio gli appoggio solamente le mani all’altezza dell’ombelico e le lascio lì, così, per una manciata di secondi, ad alzarsi e abbassarsi seguendo il suo respiro che gli riempie l’addome come se fosse un neonato.
Poi, poco alla volta, sotto la pressione delle mie dita la sua pelle diventa più elastica e morbida.

«Rafa, ma tu che profumo usi?»

C’è qualcosa che mi inquieta fin nel midollo.
Ecco dove l’ho sentito.

«Eh? Moschino… Perché?»
 
Scuoto la testa, istintivamente, e scrollo le spalle, anche se Rafael non può vedermi.

«No, niente… È… è buonissimo…»
«Ti piace?»
«Sì…»
«Grazie»

Non m’importa niente del nome del profumo, i miei pensieri si attorcigliano tutti attorno alla stessa idea e le mani vanno quasi da sole sul corpo di Rafael che nella mia testa arriva a perdere consistenza e a somigliare forse più a materia informe da plasmare con il mio tocco, molto più di quanto mi ricordi un corpo umano, con un viso, un nome, una vita, una voce, un profumo. Sono sicuro che questa sia esattamente la stessa fragranza che ho sentito addosso ad Andrés ieri, quella fragranza che prima non avevo colto sul corpo di Rafael ma che deve essermi rimasta incastrata da qualche parte nel naso e nel cervello e nei ricordi perché mi sembra proprio di averla già sentita, da qualche parte, quella stessa fragranza che potrebbe essersi accumulata nelle poche eppure intense ore che abbiamo passato insieme, ore in cui mi è sembrato di avvicinarmi a Rafael molto più di quanto si possa esprimere a parole, perché mi sembra di sentir vibrare una connessione, tra di noi. Quella stessa fragranza che ha riattivato un qualche sensore ieri quando l’ho sentita addosso al mio fidanzato e che ora sta attivando un campanello d’allarme molto, molto pericoloso: quella fragranza che senza quasi avvertirla davvero forse stavo iniziando a trovare sexy sul corpo di Rafael e che ora trovo solo spaventosamente inquietante.
Il tuo corpo è un terreno molto pericoloso.
Lo conosci? 
Rafa, è possibile… 
…che tu…? 
Lo conosci?
Sei tu?
Puoi farmi questo?
E tu, Andrés?
Puoi farmi questo?

«Diego, quanti motivi ci sono per fare sesso?»

Interrompe il mio groviglio di dubbi e sospetti, lasciandomi un attimo interdetto. Mi viene spontanea una risatina leggera.

«Mah, infiniti, credo. Per amore per noia per soldi… Per fare la pace, per affermare potere, per divertirsi un po’… Per chiedere scusa…»
«Si può fare sesso anche per fare male a qualcuno?»
«Hai fatto sesso con qualcuno che ti ha fatto male?»

Sento qualcosa di amaro in fondo alla gola, al solo pensiero.

«No, dicevo… Fare sesso con qualcuno per fare male a un altro…»
«In che senso? Tipo… un tradimento?»
«Sì»
«Mi sembra un ottimo modo per fare male»

Gli esercito una pressione più forte sulla pelle, per attirare la sua attenzione.

«Rafa?»

Socchiude gli occhi.

«Mh?»
«Vuoi fargli del male?»
«No… Non ne sarei capace. Dicevo così, tanto per dire»

 

Venerdì 18 maggio

Se iniziamo a darci appuntamento, non ne usciremo mai più.
L’appuntamento ce lo siamo dato di nuovo, perché quando si inizia a nuotare in acque tanto pericolose è difficile tornare a riva, tornare a galla.
L’appuntamento è venerdì mattina dopo la palestra, per Juan, da quanto ho capito.
Per me, è venerdì mattina dopo sei ore di sonno invece di nove ore di sonno: una simile eccezione non l’ho mai fatta neanche per mia madre, neanche per Diego, neanche per me stesso, e nel giro di tre giorni è già la seconda volta che trasgredisco forse per Juan o forse per me stesso, per trovare un po’ di pace, per farmi un po’ di male, per sentirmi un po’ apprezzato.
Osservo di nascosto Juan che, semisdraiato, guarda fisso un punto sul muro rosa pallido davanti a sé.
Il suo corpo è così solido… La pelle è scura, calda, sudata, elastica, il suo fisico basso, ma compatto, muscoloso, sottile di profilo ma dalle spalle ampie… Lo osservo di nascosto e gli passo il corpo esausto e nudo ai raggi X e penso che una tale intesa sessuale con un’altra persona diversa da me deve essere una specie di miracolo, com’è possibile trovare in un altro così… tanto…? Con Juan è tutto semplice, il sesso è semplice, il piacere è semplice, la sua compagnia è una compagnia facile, è naturale, quasi scontata, se non c’è non ci penso ma se c’è esiste solo lui al mondo, Juan è una presenza confortante e così concreta nella mia vita…
Mi avvicino e gli appoggio il mento sopra l’anca, sulla fossetta, a dieci centimetri solo dal suo pene afflosciato di lato. Gli tocco la mano sinistra con la punta delle dita.

«Juan, che profumo usi?»
«Mh? Moschino, perché?»
«È forte…»
«Non ti piace?»
«Sì. È buonissimo… Però…»,
soppeso le parole,
«Mi rimane addosso…»

Juan annuisce lentamente, all’inizio non risponde niente. Poi parla e quando lo fa dice qualcosa che proprio non mi aspettavo: Juan ha una prospettiva tutta sua sulla vita.

«Allora compralo anche tu, no?»
«Mh…»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Chi?»
«Il tuo ragazzo. Come si chiama?»
«Diego. Sì, ieri… No, insomma, l’ultima volta»
«Ho capito. Beh, basta che compri lo stesso profumo e poi non si farà più domande, no?»
«Già… Tu sei un truffatore nato!»
«Eh, che vuoi farci…! Uno deve imparare a cavarsela!»
«Ma che c’entra!»

Mi volta le spalle all’improvviso, sottraendo il suo corpo che mi manteneva in equilibrio. Affondo il mento sul materasso, troppo vicino al suo fondoschiena, cazzo, allontano subito il viso. Juan si sporge giù dal letto, fruga nel borsone della palestra e all’improvviso mi punta contro qualcosa come fosse un’arma:

«Ta daan!!»,

mi spruzza profumo su tutto il corpo.


«Aah! Dai!!»

Andrés strilla in un modo talmente gay da farmi venire la nausea, acutizza in modo innaturale la voce che altrimenti è piuttosto profonda e tossisce anche un paio di volte,

«Ma che fai?!»
«Tanto lo compri, no? Così adesso abbiamo lo stesso profumo!»
«Sì, io, te e Rafael!»

Nella stanza cade il gelo.
Serro la mascella.

«Ma come fai…?»,

mi chiede piano.
Appoggio la boccetta sul materasso con un sospiro, gli volto le spalle e passo un braccio sotto il cuscino.
La stessa domanda vorrei farla a te.
Ma in realtà la stessa domanda vorrei farla a me stesso e vorrei anche trovare una risposta, una qualsiasi, una che vada bene.
Perché Rafael è bastato per tutta la vita e ora non basta più?
Con che coraggio posso fargli una cosa del genere?
A chi sto facendo davvero male, a Rafa o a me stesso?
Cosa cerco di dimostrare con Andrés, a me stesso o a Rafael non lo so neanche più?
Perché continuo a cercarlo?
A dirgli di sì quando vengo cercato?
A stare così tanto bene con lui, con una facilità spaventosa?
Sono gay?
Vorrei solo trovare il coraggio di rispondermi sinceramente, per una volta nella vita.
Ma non oggi.
Ancora no.

«Non dirmi niente»

***
Andrés, mi farai impazzire.
Conosci un ragazzo che si chiama Rafael?
Lo conosci?
Se te lo chiedessi…
…tu…
…saresti sincero?
Andrés, sono stanco.
Stanco di rientrare in casa e sentire il suo profumo spaventoso sulla tua pelle.
Sono stanco di chiedermi, e se fosse con lui?, senza riuscire a darmi una risposta, senza trovare neanche il coraggio di chiedere e scoprirla, la risposta.
Sono stanco di non capire se la amo o la detesto, questa fragranza ricorrente, stanco di non riuscire a decidere se la trovo straordinariamente sexy o profondamente disgustosa.
Faccio un profondo sospiro.
Andrés sfoglia distrattamente una rivista sprofondato sulla poltrona in stile vittoriano che non si abbina a nessun altro mobile della casa, ma a sentir lui era troppo comoda e non poteva non comprarla.
Sfilo le cuffie dalle orecchie, spengo la musica, che ho iniziato ad ascoltare perché tanto con te non c’è dialogo, sempre con il naso incollato tra quelle pagine patinate, e ancora non hai buttato via il cartone del succo di frutta, e guai ad accendere la tv, se ci sei tu in salotto, poi!, bisognerebbe essere degli aspiranti suicidi per azzardare tanto, e allora meglio la musica, almeno mi illudo di stare con te, anche se tu distante un solo metro sei quanto di più lontano esiste al mondo, anche se sei diventato una terra straniera, sconosciuto e irraggiungibile come l’universo profondo.
Ma adesso basta, adesso sospiro e spengo la musica, e sfilo le cuffie, e ti guardo serio, deciso, e basta adesso perché adesso ho sentito il profumo, perché solo adesso ha trovato la via per le mie narici, l’odiato, l’amato profumo, amato perché mi ricorda Rafael e la sua parlata sciolta e le sue domande strane e la sua psicologia lineare e i suoi discorsi contorti, e la luce accesa in fondo ai suoi occhi, e odiato e temuto perché vorrei solo lavarlo via dalla pelle del mio uomo insieme al dubbio di due metà della mia vita che si uniscono senza di me e il dolore di non riuscire più a toccarti senza sfiorare anche il dubbio è diventato atroce, così atroce che

«Adesso basta»


«Eh?»

Sollevo lo sguardo dalla rivista, sorpreso:

«Come dici?»
«Andrés»

Non chiudi la S in fondo al mio nome, difetto di pronuncia che hai preso da me.
Mi guardi serio. C’è una sfumatura strana nella tua voce.
Come di supplica.
O di minaccia.

«Sì»

Avverto il peso della tua voce scura, appoggio a terra la rivista e ti guardo, aspetto.

«Hai ancora lo stesso profumo»
«Sì…»

Chiudo gli occhi e di recitare non ho più voglia, di mentire, anche a me stesso.
Faccio un profondo sospiro, prendo aria prima del tuffo, prima della caduta libera, prima di schiantarmi a terra, prendo aria e mi copro la faccia con le mani e forse li sento anche inumidirsi appena, i palmi delle mani, due gocce di rugiada sottilissima mi bagnano la pelle.

«Diego… è… è del…»
 
È del mio amante.
Diego, è da dieci giorni che ti tradisco.
Non ce la faccio più.
Ti amo.
Non so niente di lui, ma lui è tutto quello che tu non sei.
Diego, tu mi tradisci da mesi con la televisione accesa.
Ti odio.
Perdonami.
È colpa mia.
Lasciami.
No, è colpa tua.
Non mi ami più, vero?
Non sono degno di fare l’amore con te?
E tu?
Mi tradisci anche tu?
Diego, lui mi fa sentire bello.
Te lo ricordi?, quando mi hai detto

«Andrés da dove viene il profumo?!»
 
Mi afferri di scatto per le spalle mi spaventi mi scuoti con forza mi urli in faccia.

«L’ho provato in profumeria»
 
Non lo so, da che angolo del mio cervello sia nata e automaticamente uscita una bugia tanto spontanea, una schifezza così perfetta.
Mi guardi sorpreso.
 

 «In profumeria»,
 
ripeti lentamente, sembri non capire.

«Sì, tu… l’altro giorno… ti piaceva, no? Insomma, mi era sembrato che ti piacesse»
«Sei andato in profumeria?»
«Stamattina. Ho cercato un po’ ma poi l’ho trovato»

 
Mi guardi, sospettoso.

«E… come si chiama?»
«Moschino»

 
Quasi non ho il coraggio di battere le ciglia, forse per paura che la rugiada possa staccarsi e rigarmi le guance.

«E quanto costa?»
 
Passo al ventaglio una serie di ipotesi alla velocità della luce, non lo so non ho chiesto non mi ricordo sparo una cifra a caso era in sconto.

«Uffa, tu rovini sempre tutto!»,
 
sbuffo dopo solo un secondo e incrocio le braccia, piego le labbra in un’espressione imbronciata.
Diego mi guarda allibito:

«Perché?»
«Volevo farti un regalo! Non posso dirtelo, quanto costa! Ma mi rovini sempre tutte le sorprese!»
«Un regalo…!»,

 
ripete a bassa voce,

«Un regalo…»,
 
mi guarda col sorriso e scuote appena la testa, e chissà perché decidi di credermi, di berti le mie stronzate e d’ignorare questo stridio fastidioso che sono io che mi arrampico patetico sugli specchi.
Mi abbraccia.

«Torno al lavoro…»,
 
mi sussurra all’orecchio.
Annuisco piano, neanche il tempo di parlare e Diego è già uscito dal salotto.
Ha dimenticato le cuffie sul divano.
Batto un paio di volte le ciglia. Finalmente la rugiada si stacca, brucia sulla pelle come fosse fuoco.


 
Lunedì 21 maggio

La tua spalla è così solida.
Amo le spalle di Juan, le ho sempre amate. 
Me lo ricordo ancora lì alla fermata dell’autobus quattro anni fa, con i capelli tinti di chiaro e le braccia scoperte, quando ancora non aveva le spalle così solide eppure io già le amavo, tanto che a volte mi chiedo se davvero ho sbagliato persona quella mattina d’aprile quando Juan aveva le braccia scoperte e i capelli tinti di chiaro e io l’ho salutato chiamandolo con un altro nome, mi chiedo a volte se ho sbagliato persona o se invece in fondo lo sapevo già, che lui era quello giusto, anche se che ne esista uno solo giusto non l’ho mai creduto, ma già lo amavo, quella mattina d’aprile, quando l’ho salutato alla fermata dell’autobus e già lo sapevo che quelle sarebbero state spalle su cui appoggiare la testa mentre si guardano i film, spalle da stringere mentre si fa l’amore, e adesso, adesso che guardiamo pigramente un film al computer sprofondati sul divano, penso che sì, decisamente quella mattina non ho sbagliato persona, e le sue sono le uniche spalle su cui vorrò per sempre appoggiare la testa mentre guardiamo i film e stringere quando facciamo l’amore.


Guardiamo svogliati un film al computer, Rafael con la testa appoggiata sulla mia spalla mentre mi stringe piano una mano, mi accarezza coi polpastrelli le dita rovinate.

«Juan?»
«Mh?»
«Quando inizia il tradimento?»

Sussulto.
Dovunque inizi, io quel punto l’ho varcato.

«Perché?»

Scrolla le spalle, senza alzare la testa.
Mi chiedo distrattamente come faccia a sopportare i personaggi del film che si muovono inclinati da un lato, mi chiedo come può tollerarli mentre sfidano la forza di gravità e vivono le loro vite da una prospettiva tutta nuova.

«Così. Per sapere»
«Secondo te dove inizia?»
«Nella testa»,

risponde tranquillo, come se a questa cosa ci avesse pensato tanto.
Scuoto subito la testa e lo allontano da me, contrariato.

«Come, nella testa?»
«Sì, perché chi ama davvero qualcuno non ha bisogno di nessun altro, no? O anche se non ami… insomma, è questione di rispetto. Se stai con una persona non ha senso neanche che tu ci pensi a un altro, perché non dovresti neanche sentirne il bisogno»
«Cioè, mi stai dicendo che se penso di fare sesso con un altro uomo è tanto grave quanto se io ci faccio veramente sesso?»
«Ah! Hai detto con un altro uomo!»
«Non cominciare»
«Secondo me sì, se pensi a un altro già mi tradisci. Se stai con me ti devo bastare solo io, puoi anche dire, sì, passa un ragazzo, o le vedi in tv, e dici, non lo so, è bello, è proprio il mio tipo, me lo farei, anche, va bene, ma non davvero! Se inizi veramente a pensare di potermi tradire con qualcuno… stai già nella giusta direzione per tradirmi, quindi, in un certo senso, già tradisci. La fedeltà inizia nella testa»

Scuoto di nuovo la testa.

«Non sono d’accordo. No, ascoltami, non fare così! Nella testa siamo liberi, no? Solo nella testa possiamo fare tutto quello che ci pare senza fare male a nessuno. Si può mettere in carcere una persona perché ammazza, ma non perché immagina di ammazzare, neanche se dichiara di aver immaginato di uccidere, finché non agisce, non è un criminale, no? Perché con il tradimento è diverso? Io non sono un assassino perché penso di uccidere, quindi non posso essere un traditore perché penso di tradire, se togli la libertà di pensiero… che ci rimane?»
«Ma non c’entra niente! Ammazzare è illegale, tradire è solo un’ignobile bastardata! E anche una prova del fatto che non hai le palle. Un tu generico, eh! Non puoi confondere i due piani»

Accuso il colpo.

«Ma non pensi invece… che io ti dimostro molto di più il mio amore se non tradisco anche quando magari ho avuto… un pensiero…?»

Rafael scuote piano la testa, sconsolato.
Mi sembra di sentire ogni cellula del tuo corpo protesa al vano tentativo di farmi cambiare idea, di farmi pensare come te, c’è un moto di repulsione e di rifiuto verso le mie parole che si stacca dalle tue labbra nel momento in cui le serri e torturi con i denti quel punto un po’ più arrossato, irritato.

«Il punto è che io dovrei essere il centro del mondo per te! So che ci sono molti ragazzi molto più belli di me, ma se stai con me perché dovresti pensare a loro?»

Mi alzo in piedi e mi metto a sedere cavalcioni sulle sue cosce magre, puntando le ginocchia sul divano ai lati dei suoi fianchi.

«E io? Sono il tuo centro del mondo?»
«Sì!»,

neanche un’esitazione, mi bacia le labbra e sorride, poi mi appoggia le mani sui fianchi e inizia ad accarezzarmi lentamente.

«Juan, io lo so che non ho nessuna possibilità di convincerti, ma ti amo e vorrei fare una cosa con te, e credo…»,

abbassa la voce,

«…che se mi ami tu questa cosa la devi fare e basta…»

Sento una sgradevole sensazione, come di brutte notizie in arrivo, e anche una molto gradevole sensazione, che sono le mani di Rafael che mi stanno toccando, accidenti, il ragazzo ci sa fare.

«Dimmi»

 
«Tre mesi fa ho comprato due biglietti per il concerto della mia cantante preferita che stasera fa l’unica tappa a Madrid»
«Ho capito»
«E se non vieni con me…»,

mi balena in mente l’immagine di altre spalle, un po’ meno muscolose ma dalla linea curva così gradevole alla vista, dalla pelle scura come quella di Juan, due spalle su cui potrei appoggiare la testa anche durante un concerto perché Diego non nasconderebbe quello che siamo davanti agli altri, ma dura solo un secondo perché ecco che una figura senza volto ma con un nome ben preciso appoggia la testa su quella spalla e mi riscuote all’improvviso dai miei pensieri,

«Se non vieni con me–
«Lo so, si spezza»

Juan sembra molto tranquillo.
Quasi rassegnato.
Sospiro.

«No, fai quello che vuoi. Se non vieni con me lo chiedo a un amico»

Non riesco a capire se non lo sto ricattando perché un amore basato sul ricatto è un amore malato, oppure perché in realtà spero che dica di no così da poter chiedere a Diego.
Ma mi convinco della prima ipotesi quando Juan mi dice:

«Quello che voglio è venire con te»

E aggiunge in fretta:

«Anche se ovviamente noi due non stiamo insieme»
 

Rafael sorride che sembra un bambino.

«Questo è chiaro! Ma va bene, sono contento!»,

mi bacia di nuovo sulle labbra.
E voglio venire con te perché non so più chi è il mio centro del mondo e voglio che sia tu.

***

La cantante è davvero brava.
Sono contento di essere uscito, mi piace la sua voce forte, ma dolce, forse appena nasale e allo stesso tempo un po’ raschiante come se avesse una grattugia in gola che quando canta la sfibra appena.
La cantante è brava anche perché suona molti strumenti, alcuni dei quali neanche li conosco e li vedo adesso per la prima volta in vita mia e non so dare loro un nome.
Il concerto è all’aperto, in un parco enorme dove non ci sono nemmeno le sedie e tutti stanno seduti sull’erba, e non cantano, e non si muovono, ascoltano solo come se fosse a teatro e applaudono alla fine delle canzoni, e basta.
E forse non è neanche tanto famosa perché a vederla, anzi, a sentirla non siamo più di due o trecento, un’atmosfera intima e raccolta tanto che mi chiedo chi glielo abbia fatto fare di venire fin qui per guadagnare così poco, visto che da quel che ho capito anche il prezzo del biglietto era misero.
Tra lo scroscio di applausi mi guardo intorno furtivo, ma nessuno mi sta guardando, perché stiamo un po’ indietro e perché è buio e perché tutti hanno gli occhi puntati su di lei, che così esile con questa voce portentosa si inchina più volte con un sorriso quasi imbarazzato e biascica un graziestentato e i suoi lunghissimi capelli castani le vanno tutti davanti alla faccia.
Mi guardo intorno ma nessuno mi sta guardando e quando Rafael, estasiato, smette di applaudire allora allungo quasi con timore una mano e stringo la sua, dolcemente.
Vorrei solo dirti che non lo so se sono gay ma non me ne frega un cazzo, sono solo così contento di stare con te stasera sotto le stelle, ma Rafael sobbalza e si gira a guardarmi e mi stringe più forte la mano e mi sorride che sembra un bambino e poi si guarda intorno furtivo e immagino per star più sicuri mi lascia la mano, e il momento passa, e non dico nulla, e pazienza, lo dirò dopo, ed ecco che inizia un’altra canzone.

***

La porta di casa. 
Sbatte. 
I piedi calciano via 
malamente 
le scarpe leggere. 
Una confusione di mani sui corpi.
Le giacche cadono a terra.
Labbra.
Contro le labbra.
Ti mordo, succhio avido le sue labbra carnose.
Labbra sulla pelle del collo,
mani sul petto,
Rafael passa le mani sulle mie spalle le stringe mi spinge una gamba tra le gambe.

«Hai visto…? È andato tutto bene…»
«Sì… facciamo l’amore…»
«Sì…»

Mani sotto la stoffa, 
gli passo le mani sui fianchi, 
alzo la maglietta lo spoglio.

«Facciamolo qui…»

Lo mordo gli stringo la vita sottile strattono il bottone dei jeans.

«No… vieni in camera…»


Lo butto sul letto.
Juan si lascia spingere, si lascia spogliare.
Faccio pressione con un ginocchio contro il suo inguine, 
scopro il suo bellissimo petto.
I peli.
Ascellari.
Mi lecco le labbra mi chino alle grotte segrete.
Juan mi afferra i capelli 
sottili
dietro la nuca.

«Ah…!»

Li tira all’indietro, cedo alla forza apro appena la bocca.

«Juan–
«Sh…! Leccati questo…»

Slaccia il bottone.
Mi lascia i capelli.
Lo bacio
lo bacio
lo bacio
le mie mani frugano.


Sospiri
leggeri.
Mi lecca.
La lingua.
La saliva.
La tua bocca calda.
Il respiro è pesante e
gonfio
di piacere.

«Facciamolo in piedi…»
«Perché in piedi…?»
«Perché mi va…»


Mi spinge contro il muro,
i palmi aperti sulla parete fredda.
Il petto
chiaro
magro si alza e si abbassa 
veloce
di paura di voglia,
l’aria non basta il cuore non pompa
abbastanza
sangue
il sangue
è tutto a ingrossarmi il membro che Juan scopre quando abbassa a fatica i jeans attillati e i boxer,
a mezza coscia al ginocchio in terra, intorno alle caviglie.


Rafael che non è mai stato bello ora è bellissimo così chiaro nudo contro il muro bianco.
Le spalle larghe magre il punto vita stretto.
Gli premo il sesso tra le gambe lo schiaccio contro il muro gelido con il peso del mio petto caldo 


e il contrasto
freddo improvviso
davanti
ai capezzoli
al basso ventre
e bollente
dietro
sui reni
tra i glutei
bollente sui fianchi dove Juan stringe una mano calda
sudata
il contrasto
mi secca la gola.


Esisti solo tu che non sei mai stato bello ma che ora sei così vero e così bello contro il muro bianco, 
le mani contro la parete le dita bene aperte
la fronte appoggiata sul muro la nuca sudata
le spalle contratte che si alzano e si abbassano con il respiro
le gambe che tremano appena, 
solo questo esiste davanti a me,
il mio centro del mondo è il tuo corpo di spalle davanti a me che senza far niente
senza guadarmi neanche mi si pianta come un chiodo rovente in mezzo al cervello.
Stringo di più sui fianchi e lo faccio piegare con forza sulle gambe, lo faccio abbassare di quei dieci centimetri che bastano, quei dieci centimetri in più che la natura non mi ha dato e che ad essere meno stronza poteva anche darmi, lo faccio abbassare e quasi non sento le sue lamentele per le ginocchia che sbattono ripetutamente contro il muro gelido, ogni colpo secco dell’osso contro il muro è una spinta possente dentro di lui, 


Juan mi riempie con forza, con una naturalezza che mi sorprende ogni volta, con il suo calore, con le sue spinte profonde, con le sue dita che mi affondano nella carne molle del ventre e forse anche con la sua voce bella solo quando canta, non ne sono sicuro, ma mi sembra di sentirla riempirmi l’orecchio quando sussurra
«Rafa, mi dispiace… Io… Mi dispiace tanto…»

 
Martedì 22 maggio

Esco di casa sfoggiando alle ginocchia due lividi violacei grossi come noci.
Nessuno può vederli sotto la stoffa forse un po’ troppo leggera dei pantaloni chiari, ma io li sento, lì, presenti, dolenti, sull’osso appuntito, due lividi grossi come noci fonti di tutta la sicurezza che mi serve per uscire di casa ed andare in palestra, anche se all’attività fisica sono allergico, unica eccezione il ballo.
Li sfoggio con orgoglio nel tragitto tra lo spogliatoio e la sala degli attrezzi, sotto i pantaloncini da ginnastica di cui non mi vergogno anche se sono troppo corti, troppo attillati e di un rosso improponibile in contrasto con la mia pelle bianca e con i lividi violacei alle ginocchia, e non mi vergogno neanche dei lividi che ora tutti possono vedere, anzi ne sono orgoglioso, vorrei quasi dire, guardate, guardate tutti, questa è la prova che noi ci amiamo, perché queste macchie di blu sulle ginocchia sono il più autentico pegno d’amore di Juan per la mia pazienza ferita, frustrata, delusa, e finalmente ripagata ieri sera, con una stretta di mano inaspettata bella come l’aurora, e finalmente appagata contro un muro bianco gelido come il ghiaccio che m’ha colorato le ginocchia d’amore.
Entro nella sala degli attrezzi con i miei pantaloncini di un rosso improponibile e la pelle bianca come il latte e i lividi viola che fanno male ad ogni passo ma di un dolore quasi bello, che mi danno forse quasi il diritto di entrare nella sala degli attrezzi con questa tranquillità e con la sicurezza di chi si sente padrone del mondo sicuro di me e della mia presenza qui nella sala degli attrezzi e dell’assenza da lezione che se continuo così quei due esami mi resteranno indietro per sempre, entro e vado a passo sicuro verso Juan che fa gli addominali su un tappetino all’angolo e


quando lo vedo quasi mi strozzo con la saliva e smetto di fare gli addominali e scatto a sedere e riesco solo a dire lentamente

«Che ci fai qui…?»

e la testa mi pulsa: ho fatto un movimento troppo brusco. Avverto anche un leggero capogiro, maledettissima pressione bassa.

 
«La palestra è pubblica»,

rispondo solo, mentre cerco di convincermi che no, quel tono non può essere davvero così odiosamente freddo.
Più freddo del muro bianco.


«Da quando te ne frega qualcosa dell’attività fisica?»

Mi alzo lentamente in piedi e intanto non posso fare a meno di guardarmi intorno, furtivo come un ladro, colpevole, sempre colpevole, di amare Rafael, di tradire Rafael, di essere gay, di nascondere di essere gay, colpevole con lui e senza di lui, colpevole di ritagliarmi un minuscolo spazio tutto per me e colpevole anche ora che in questo spazio minuscolo siamo in due.

 
«Stai tranquillo, anche ieri è andato tutto bene… Voglio solo fare un po’ d’esercizio…»,

cerco di tranquillizzarlo a bassa voce, anche se dell’esercizio me ne frego e speravo solo di poter pretendere un po’ di più, dopo ieri sera.


«Non nella mia palestra!»,

lo sibilo ma in realtà vorrei urlarlo, vorrei solo urlarti in faccia che questo è il mio territorio! Qui non sono gay e non sono etero e nessuno pretende niente da me!
Ma se non urlo è perché il terrore di essere notato con Rafael è già schizzato alle stelle e forse è per questo che divento aggressivo, come un animale all’angolo, braccato, con il fiato sul collo, ogni volta che Rafael mi mette alle strette, ogni volta che pretende sincerità da me. Sincerità con me stesso, soprattutto. Quasi sempre.
O forse no.
Forse se non urlo è per via di questo ragazzo alto e molto carino che ho già visto qualche altra volta in palestra e che ora si avvicina pericolosamente a noi, cammina nella nostra direzione con quell’odioso sorriso di chi ha capito tutto di me, mi ha scoperto, ci ha scoperti, lui sa, e a solo un metro di distanza mi volta quasi le spalle ignorandomi e saluta Rafael con un caldo sorriso:

«Buongiorno!»


Sbarro gli occhi e forse un lieve rossore mi colora le guance e il cuore mi batte talmente forte nel petto che sono sicuro che Juan stia contando ogni colpo colpevole e traditore del mio cuore confuso e pericolosamente accelerato e messo alle strette in un fuoco incrociato tra il gelo di Juan e il calore di Diego riesco solo a balbettare la frase sbagliata:

«Ah! C-ciao, anche tu qui? Questo è Juan!»
«Questo è troppo»,

sbotta Juan e si allontana senza più guardarci.

***

Rientro in casa con un peso sul cuore.
Mi hai rotto qualcosa dentro una volta di troppo.
In cielo si stanno addensando le nuvole, sembrano batuffoli di cotone: le tipiche nuvole che portano pioggia, e che palle quest’estate che non vuole arrivare.
La casa è silenziosa, e semibuia, ma lo so che Juan è già dentro. Lo so o almeno lo spero, o forse invece lo temo: forse vorrei non rivederlo più per questa sera, vorrei non rivederlo più per l’intera settimana o magari per tutta la vita. 
Ma una parte di me, al contrario, vuole solo affrontarlo subito e porre la parola fine a questo dolore.
Mi chiudo la porta alle spalle con un peso sul cuore.
Spingo piano la porta della camera.

«Juan…?»
«Sta’ zitto»

È sdraiato sulla schiena, immobile e completamente vestito sul letto intatto. Tiene i palmi delle mani a coprirsi la faccia, anche la voce esce appena distorta, più profonda, rimbomba appena colorandosi di una tinta diversa.
Mi avvicino lentamente e mi fermo a circa un metro dal letto.

«Ehi… Non è successo niente…»,

sussurro.
Juan scopre il viso, si puntella su un gomito.

«Hai detto a quel tipo che stiamo insieme»,

m’interrompe, brusco. Il suo sguardo è truce.

«M-ma no, che dici? Non gli ho detto niente…»,

guardo nervoso a destra e a sinistra, non riesco a sostenere il suo sguardo accusatore.

«Perché sapeva tutto di me?»,

ogni frase è uno schiaffo alla coscienza.

«Non sa niente…»

Mi zittisce con un gesto della mano.

«Ma smettila! Che cazzate t’inventi?»
«E a te che te ne frega a chi racconto della mia vita?»,

gli ribatto, acido,

«Ho anche degli amici, sai? Ma tanto fuori da questa casa siamo due estranei…!»
«Tu non capisci!!»

 
Scatto in piedi e per un secondo mi si offusca la vista, Rafael si fa sfocato davanti ai miei occhi e mi gira anche la testa, il sangue prende a pulsarmi violento nelle tempie.

«Che cosa–
«Sta’ zitto! Sta’ zitto!»,

gli urlo contro come non ho mai fatto prima,

«Tu non mi conosci! Non hai capito un cazzo di me! Ma che vuoi saperne? E vai in giro a dire al primo stronzo che passa per strada, vai a dirgli–
«Io posso–
«No!»,


fa un passo verso di me, minaccioso, indietreggio,

«No, cazzo, tu dovevi solo stare zitto! Te l’ho detto subito, non sono gay! E poi, e poi, lo sapevi com’era! Potevi non starci se poi dovevi starmi a rompere il cazzo ogni secondo a pretendere cose da me–
«Avresti prefer–
«Stai sempre lì a dirmi cosa devo fare, e lasciami in pace per una volta! Non voglio uscire con te, è così difficile?!»

Indietreggio istintivamente e mi sembra anche di sentirmi inumidire gli occhi.

«Non voglio che vieni in palestra, non voglio che vieni in palestra, cazzo! Quello è il mio posto, non puoi solo lasciarmi in pace per una volta?!»,

ad ogni mio passo indietro Juan ne fa uno in avanti e le sue urla riempiono l’appartamento, colpiscono le pareti della stanza e le pareti della mia testa, colpiscono le pareti della mia coscienza e mi riempiono la testa e non ne posso più delle tue urla che fanno male,

«E stai sempre lì a dirmi chi sono, lo so io chi cazzo sono! Smettila! Smettila! Smettila! Non hai mai capito un cazzo di me! Pretendi sempre, ma quando dai? Sempre a chiedermi cose che non sopporto, e tu non vuoi farlo un cazzo di sforzo? Sono solo io quello sbagliato? Sempre lo stronzo! E no, eh, sei stronzo pure tu! Dici che mi ami, e non m’accetti per come sono! Ma che cazzo vuoi da me?»
«Sincerità–
«Non ti fidi?! Non mi credi?»

Tocco la schiena contro il muro gelido.
Juan mi urla contro a mezzo metro da me, la parete è talmente fredda da far venire voglia di piangere.


«Non lo sopporto! Non lo sopporto! Non sono gay! Non sono gay!! E tu devi solo fartene una ragione! E basta! Smettila! Mi vuoi? Sono così! E non dire ai tuoi cazzo di amici cose che non sai!!»,

gli afferro la mandibola e la stringo talmente forte da far diventare bianche le nocche.

«Mi fai male…»,

bisbiglia Rafael in un filo di voce.
Lo lascio all’istante, spingendogli la testa all’indietro con un movimento brusco che gli fa sbattere la nuca contro il muro.


Non avevo mai visto Juan così incazzato, e incazzato Juan mi fa paura.

«Io lo so che sono fatto male,

la sua voce non urla più, si sta incrinando. Vedo le mie stesse lacrime bagnarti le ciglia, tu piangi sempre così facilmente,

«E vorrei essere meno complicato! Ma tu dove cazzo sei quando ho bisogno di te?! Quando ho solo bisogno di un po’ di comprensione?»

 
Andrés non pretende mai niente da me!
Non riesco più a dire una parola, la mia testa è improvvisamente vuota e la stanza anche si svuota nel silenzio improvviso, rotto solo da un odioso singhiozzo che mi sfugge tra le labbra e dalla voce fredda di Rafael, che forse ha assorbito il gelo del muro e me lo sputa addosso con voce appena tremante, ma acida da fare male:

«Sai, Juan? Io non ho mai creduto, neanche per un istante, che al mondo c’è una persona sola giusta per noi»,

lo guardo sgranando gli occhi senza riuscire a spiccicare parola, senza sapere neanche cosa pensare,

«Quindi perché non mi lasci e ti trovi una ragazza che va bene per te?»


Juan scuote la testa:

«Tu non sai che cazzo dici…!»,

ma io non voglio vederlo un secondo di più, lo scanso con una spallata ed esco dalla stanza, sbattendo sonoramente la porta.

***

Sono sempre stato un dipendente modello, non ho mai dato motivo di lamentarsi a nessuno: né ai clienti, né ai miei colleghi, né tantomeno ai superiori.
Arrivo sempre al lavoro con almeno mezz’ora d’anticipo, sono tra gli ultimi a lasciare il ristorante, non mi tiro mai indietro quando c’è da fare degli straordinari o da sostituire qualche collega, non mi sono mai concesso un’assenza da lavoro se non per malattia.
E per Juan, ma questo è un pensiero talmente spinoso da farmi paragonare Juan a una malattia, una malattia del cuore incurabile e mortale, perché solo così posso sopportarlo: un pensiero così spinoso che preferisco resettarlo dai ricordi e convincermi che tutto sommato, sì, resto ancora un dipendente modello e, nonostante questo, o magari proprio per questo, oggi mi sono permesso di chiedere un giorno di ferie. L’ho chiesto perché non ne chiedo mai, e per questo il capo mi ha detto che sì, non c'è problema. L’ho chiesto perché ieri ho fatto di nuovo gli straordinari, come se fare gli straordinari potesse automaticamente promuovermi dal ruolo banale di cameriere a quello ambito di chef, che mi darebbe molti più problemi nella vita ma anche molte più soddisfazioni, ma insomma, ho fatto di nuovo gli straordinari e ho rinunciato al giorno libero, e ho rinunciato a Diego, alla sua televisione accesa e alle sue ciabatte sparse sul pavimento e alla puzza delle sue sigarette, ai suoi continui rimproveri, alle sue domande sospettose. Ma ho rinunciato anche alle sue labbra, alle sue mani, alla sua pelle calda… L’ho chiesto perché oggi è il giorno che ho scelto per salvare la mia relazione dal naufragio, perché chiedere un’assenza dal lavoro per Diego mi permetterà forse di perdonarmi per averne chiesta una sola in tutta la vita e di averlo fatto per Juan, mi permetterà forse di guarire il mio cuore dalla sua malattia incurabile e mortale.
Tavolo apparecchiato per due, i piatti preferiti di Diego, bottiglia di vino ancora sigillata dall’altra volta e che stavolta ci aiuterà forse a sciogliere i cuori (ma niente lume di candela perché per essere una quasi-coppia-sposata in crisi mi sembra eccessivo): mi viene da sorridere mentre contemplo il mio lavoro, mi sento come se stessi corteggiando Diego una seconda volta, e non sono più neanche tanto sicuro di essere stato io, a corteggiarlo la prima volta. Non sono neanche sicuro che basti una cena romantica per portarmi a letto un ragazzo, il mio ragazzo, quello che non dovrei aver bisogno di corteggiare per farci l’amore, quello che non ho mai provato a corteggiare con una cena romantica e a letto insieme ci sono finito lo stesso, una volta, due volte, sei anni, senza riuscire più neanche a ricordare se sono stato io a corteggiarlo o se invece sono stato corteggiato, ma stavolta va bene, andrà bene, lo corteggerò con una cena romantica anche senza lume di candela e faremo l’amore e ci perdoneremo e dimenticherò Juan una volta per tutte e guarirò da questa malattia incurabile e mortale e anche la nostra relazione guarirà, la salverò dal naufragio, anche senza lume di candela.


Rientro in casa proprio quando sta iniziando a piovere, e che palle quest’estate che non vuole arrivare.
Giro la chiave nella toppa e mi sorprendo di non trovare la porta chiusa a doppia mandata, la giro verso sinistra e dopo neanche mezzo giro la serratura scatta e la porta si apre.

«Andrés…?»
«Sono in cucina!»

Lascio le scarpe all’ingresso accanto alle sue e appoggio l’impermeabile sulla sua giacca leggera.
Andrés mi viene incontro e mi bacia leggero sulla bocca, abitudine che non ha mai perso e che io non ho mai avuto e che comunque non vorrei mai che perdesse.
Non ricambio il bacio, lo allontano spingendolo delicatamente sulle spalle e lo osservo con un mezzo sorriso.
Wow.
Andrés indossa la divisa da cameriere: camicia bianca infilata nel bordo pantaloni neri, con le maniche arrotolate a metà braccio, cravatta nera e grembiule pure nero, lungo fino ai piedi. E calzettoni di spugna bianca, perché tutto non si può avere dalla vita.

 
«Allora, ti sei incantato?»,
 
gli chiedo senza trattenere un sorriso, orgoglioso dell’espressione con cui mi stai guardando.
Scuote piano la testa.

«Stai bene…»,

mormora, anche lui con il sorriso sulle labbra.

«Grazie»

 
Dopo un secondo mi riscuoto, all’improvviso:

«Perché sei a casa?»
«Ho chiesto un giorno»

Annuisco.

«Non sei contento?»
«Sì, sì, sono contento»
«Dai, vieni a mangiare…»,

mi prende per mano,

«La cena si fredda»
«Arrivo subito, passo un attimo in bagno»
 
***
 
La cucina è un tripudio di odori.
Entro in casa mia e non la riconosco, il calore che si respira è tutto nuovo, inaspettato, e non è dovuto solo al forno che ci dissanguerà il portafoglio quando arriverà la bolletta.
Sono appena confuso, ma piacevolmente, come dopo una bella sorpresa.

«Andrés…?»
«Sì…?»
«C’è forse… qualcosa… che vuoi dirmi?»


Chiudo gli occhi, stringo i pugni sulle ginocchia, sotto il tavolo, faccio un profondo respiro.
Ora t’insulto, ti sputo addosso, spacco tutto, confesso, confesso.

«Sì»,

apro gli occhi.
Sembri sorpreso.

«Che cosa?»
«Scusami per ieri»

Scusa se ho messo un’altra volta il mio amato odiato lavoro prima della nostra relazione.

«E… e per…»
«Sì…?»
«…per tutti i succhi di frutta»

Diego scoppia a ridere:

«Lo vedi? Quando sei carino hai sempre qualcosa da farti perdonare»

Faccio un sorriso tirato.
Mantieni il controllo.
Avanti, fallo questo cazzo di sforzo.

«Non lo sai? I ragazzi sono così, no?»,

rispondo con nonchalance,

«O dobbiamo chiedere scusa, o vogliamo ottenere qualcosa!»

E nel mio caso, tutt’e due.

«Puoi dirlo forte!»
«E poi io sono carino»
«No»
«Eh?»,

sgrano gli occhi, non ci credo!

«Così non sei carino, sei molto sexy»

Ridacchio.

«Non te l’ho mai detto?»,

insiste Diego.
Scuoto la testa, anche se forse Diego me l’ha già detto, anzi, no, sicuramente me l’ha detto, più volte, ma mai abbastanza e certamente non di recente.

«Così come
«Con la divisa da cameriere»
«Ti piaccio?»
«Sì»
«Ti piaccio più con o senza?»
«Ahah…»
«Vuoi un po’ di vino?»
«Sì… grazie»

 
Osservo le sue mani da uomo muoversi sicure, esperte: ha le nocche delle dita grandi e le ossa formano un disegno in rilievo che sembra parlare, raccontare storie. Ho sempre amato le sue mani, anche quando dieci anni fa avevamo sedici anni e solo le mani di Andrés erano uomo: avevamo sedici anni, le spalle strette e neanche un pelo ma già le mani da uomo.
Tutta la sua virilità è concentrata nelle mani, che osservo con attenzione mentre stappano sicure la bottiglia di vino e me lo versano nel calice a stelo. Il liquido è di un rosso denso, intenso, di una tinta affascinante, da far venire voglia di fissarlo a lungo per imprimerne bene il colore nella mente prima di assaggiarlo.
Le sue mani virili si muovono sicure ed esperte anche quando tagliano i cibi con forchetta e coltello, quando mi versano il cibo nel piatto e poi quando tolgono i piatti sporchi e li mettono l’uno sopra l’altro in un’alta colonna e li appoggiano nel lavello.
Tutta la sua virilità è concentrata nelle mani, ma ora anche tutta la sua professionalità è concentrata nelle mani: la sicurezza con cui gestisce la cena è un piacere per gli occhi.
E poi parliamo.
Parliamo molto.
Andrés parla a bocca piena e sputacchia anche un po’, e ride di gusto e gesticola e parla e parla e parla, parla con le mani, parla con gli occhi e con la bocca piena. Andrés ha sempre monopolizzato l’attenzione, da sempre, da quando avevamo sedici anni ormai dieci anni fa, ma a me non dà fastidio. Non mi ha mai dato fastidio.
Andrés mi appoggia i piedi sulle cosce, sbattendo piano le ginocchia contro il tavolo, e sento il suo calore attraverso i calzettoni di spugna.
Mentre lo guardo ridere e parlare e gesticolare torno con la mente al liceo, al susseguirsi infinito di pranzi alla mensa quando guardavo Andrés mangiare e parlare e ridere e gesticolare e monopolizzare l’attenzione e io pensavo solo alle sue mani da uomo da cui volevo farmi toccare e alle sue labbra perfette da baciare con dolcezza e alla sua pelle liscia e candida da sfiorare con le dita tremanti o da stringere con forza con le mani sudate, a quella pelle del viso macchiata solo dal velo sottile di lentiggini che la sporcavano appena, che io adoravo e che Andrés si è fatto ripulire col trattamento laser come regalo per i suoi venti anni, e quando anni dopo gli ho chiesto perché? e lui ha risposto per piacerti di più allora finalmente mi è piaciuto davvero di più, per il pensiero e non per il gesto. Nel susseguirsi infinito di pranzi alla mensa io pensavo solo a quel velo di lentiggini e alla sua pelle candida e liscia e alle sue labbra perfette e alle mani da uomo e ai suoi occhi luminosi che avevano quello sguardo di chi capiva tutto di me e io non l’avevo capito, io di lui invece non avevo capito niente: per me quello sguardo era solo lo sguardo di chi diceva scopami e mi ricordo benissimo di come volessi farci l’amore ogni volta che incrociavo il suo sguardo luminoso e magnetico, perché anche se il suo non è mai stato un corpo di una bellezza mozzafiato il suo sguardo faceva miracoli, e mi ricordo anche della prima volta in cui finalmente abbiamo fatto l’amore e ancora non l’avevo capito, che quello sguardo, lascivo e voglioso solo ai miei occhi, in realtà era lo sguardo intelligente e vivo di chi di me aveva capito tutto, di chi riusciva a leggermi dentro.
Andrés mi legge dentro anche adesso, mentre mi serve il dolce e torna a sedersi e toglie la cravatta e slaccia un paio di bottoni della camicia e sorride e mi ammicca, e i suoi occhi brillano, due fiammelle gli ardono dentro.
Sarà il vino, sarà il cioccolato del dolce che come è risaputo ha effetti afrodisiaci, sarà il suo sguardo luminoso, ma adesso inizio a sentire caldo.
E poi, Andrés con la divisa è veramente sexy.
O la t-shirt, o la camicia, questo ho sempre pensato: due capi d’abbigliamento senza troppe pretese, ma indubbiamente i migliori per valorizzare il suo fisico. E tra i due, meglio la camicia.
Il suo corpo che non è mai stato di una bellezza mozzafiato ora ai miei occhi, forse innamorati forse ubriachi, sembra quanto di più ambito ci sia al mondo.
Come dieci anni fa.
Sono sempre stato consapevole della non-bellezza-mozzafiato del suo corpo, eppure la consapevolezza non è mai riuscita a spegnere il desiderio.
Forse era la luce nei suoi occhi a tenerlo acceso.
Eppure, il fisico di Andrés è obiettivamente strano: è abbastanza alto ma non lo sembra. Ha anche le spalle piuttosto larghe, eppure anche questo non colpisce la vista se non gli si dedica sufficiente attenzione (e io gliene ho sempre dedicata, molta). Ha le ossa grandi senza apparire massiccio, è magro ma non per questo risulta snello, o esile o sottile. Le gambe sono sode, perché a causa del lavoro passa molto tempo in piedi, camminando, e tuttavia, per il resto, non ha un filo di muscoli. In conclusione, il suo corpo non ha davvero nulla di eccezionale: è molto carino, questo sì, ma di una bellezza contenuta cui bisogna prestare attenzione, perché altrimenti rischia di passare inosservata.
Questo succede perché la sua bellezza si trova altrove. Le sue mani da maschio sono belle, le sue labbra rosa sono belle, la precisione indescrivibile dei suoi lineamenti è bella, il suo sguardo magnetico è bello, ma anche questo sbiadisce in confronto a ciò che è veramente bello, di Andrés: la presenza con cui lui vive il corpo.
E ora il corpo chiede di essere vissuto in due.

«Certo che devi averne combinata una proprio grossa, eh…»
«Perché…?»
«Stasera mi hai viziato troppo. Così rischio di abituarmi…»

Sorride:

«Se vieni a letto ti vizio un altro po’…»

A questo punto, è quasi naturale lasciare i piatti sporchi nel lavello e la tovaglia piena di briciole sul tavolo.
 
***

Gli appoggio le mani dietro al collo, gli accarezzo la pelle calda con la punta delle dita, lì dove si sentono appena le ultime vertebre, e sfioro le sue labbra calde con le mie, leggere come due ali di farfalla.

 
Le mie mani gli slacciano i bottoni della camicia, lentamente, e prima ancora di averla sbottonata del tutto sono già sulla sua pelle bianca, sotto la stoffa bianca, ad assaggiarla con le dita mentre la bocca gli assaggia le labbra di velluto, mai una screpolatura perché le nutre generoso di burro di karité in ogni periodo dell’anno. Le assaggio con le mie mentre scopro di nuovo il piacere della sua pelle sotto le mani, stringo la stoffa bianca tra le dita e la tiro leggero verso il basso, gli scopro una spalla, affonda il viso nell’incavo del collo e respiro il suo odore e finalmente del Moschino non c’è più traccia, non c’è traccia di Rafael sulla sua pelle, affondo il viso nell’incavo del suo collo e a Rafael non penso, penso ad altre labbra rosa e ad altre dita da maschio e a un altro candore di pelle, penso al profumo lieve di mandorle che è il bagnodoccia di Andrés quasi finito.


Gli sfilo la maglietta, lo spingo lievemente sul petto per farlo sdraiare, spingo una gamba tra le sue mentre mi chino e gli lecco un capezzolo, scuro, delicato tra le mie labbra.
Diego fa un verso basso e gutturale, di protesta, perché gliel’ho stretto troppo tra i denti.


Andrés sghignazza con la sua solita faccia da schiaffi quando gli afferro il colletto della camicia e lo tiro verso di me e lo bacio mentre mi porto una sua mano sul pube, sul cotone grigio dei pantaloni da ginnastica. 


Interrompo il bacio, faccio scorrere la mano sotto la stoffa dei pantaloni e sotto quella dei boxer e affondo il viso a leccare i suoi peli ascellari, impregnati di quell’odore acre di sudore che non è ancora sgradevole, o che almeno per me non lo è. 


Ma Andrés due cose insieme non sa farle e così accompagno la mia mano alla sua per non perdere il ritmo, e quando la spalla inizia a farmi male lo scanso e lo spingo verso il basso e Andrés me lo prende in bocca, e di bocca lavora bene, ha sempre lavorato bene, tanto che la prima volta quasi non ci credevo che non avesse avuto nessun altro, perché uno come lui non poteva restare inviolato troppo a lungo: davvero nessuno ti aveva voluto? Davvero non avevi voluto nessuno? E dove avevi imparato, a succhiarlo così? Andrés due cose insieme non sa farle ma se ne fa una sola per volta allora sa farla bene, e ha sempre saputo leccarlo da far vedere le stelle.
Ma neanch’io me la cavo male, solo che io ho imparato con lui, col tempo, un po’ ho imparato da lui e un po’ ho imparato per lui, per vederlo chiudere gli occhi e aprire la bocca e sospirare discreto e per sentire le sue dita da maschio tra i capelli spingermi più giù in gola il sesso sì piccolo ma capace di grandi cose, per sentire quella vena un po’ più sporgente pulsarmi viva tra le labbra, per sentirlo sospirare discreto come sta facendo adesso che ho ribaltato la posizione e gli sto succhiando piano la punta e

 
          She said
          you can’t be committed
          I said
          baby I don’t really get it
          She said
          you’re not the right type…*
[5]

Il telefono entra prepotente nella nostra vita, viola prepotente la nostra intimità e quello che era un passo a due ora diventa una relazione a tre, io, te, e lui, e mi sembra quasi di sentire Moschino nell’aria.

«Hai personalizzato la suoneria?»,
 
mi chiede Andrés con sospetto.
«No…»,

mento. Non ho bisogno di guardare il telefono per sapere quale nome c’è scritto,
 
«L’ho cambiata…»

Afferro il cellulare e metto la vibrazione, perché non sia mai che mi arrivi un’altra chiamata e Andrés scopra la meschinità di questa bugia.


Riappoggia il cellulare sul comodino e quello continua a vibrare per una decina di secondi e poi tace, di nuovo.
Lo guardo sospettoso per un lungo momento, poi decido di non rovinare tutto proprio adesso.

«Dai, continua…»,

gli sorrido di un sorriso appena forzato mentre gli accarezzo una guancia, l’accenno ruvido di barba mi graffia le dita.


Gli bacio leggero le labbra con un peso sul cuore, e in questo momento il telefono ricomincia a vibrare.
Ci stacchiamo, all’istante.

 
«Chi ti chiama?»,

gli chiedo secco, con un tono appena più acido del voluto.
«È un amico»

 
Andrés assottiglia gli occhi, ridotti a due fessure:
 
«Chi è…?»
 
Sbuffo, guardo il telefono, che vibra ancora, guardo Andrés, guardo il telefono, che adesso tace, guardo di nuovo Andrés.
 
«Non cominciare, è solo un amico»
«E non lo conosco?»
«No»


Serro la mascella.
«Un amico che ti chiama alle undici di sera?»
«Che c’è di male?»
«Spegnilo…»,

il mio tentativo di addolcire la voce non è andato a buon fine.
Diego prende il telefono in mano, la sua erezione si sta smosciando a vista d’occhio, la mia è già scemata da un pezzo.


          Chiamata in arrivo:
          Rafael

«Insistente, il tuo amico»,
 
commenta Andrés con tono antipatico.
Rifiuto la chiamata.
Dopo neanche dieci secondi il telefono riprende a vibrare.

 
«Spegnilo!!»,

non sopporto più la vista del tuo pene moscio! Non sopporto l’esitazione con cui guardi il telefono senza riuscire a scegliere!


Scelgo.

«Scusami»
 
Mi tiro su i pantaloni con una mano ed esco dalla camera rispondendo alla chiamata.

 
«Diego!»
«Pronto
»
 
Batto un pugno sul muro con un grido di rabbia disarticolato.
«Ahi! Cazzo…»,

mi massaggio la mano dolente.

***
 
Il telecomando si schianta contro il muro, lo sportellino si apre, le pile rimbalzano al suolo, pezzetti di plastica grigia schizzano da tutte le parti, e il tonfo deve essere arrivato anche alle orecchie di Diego, chiuso in bagno a parlare al telefono.
Non so cosa mi trattenga dal fracassare anche il televisore.

 
Mercoledì 23 maggio

Mi sento vecchio.
Il lavoro mi ha invecchiato, la convivenza m’ha invecchiato, questo gioco mal riuscito di compromessi e patteggiamenti di vecchi strateghi stanchi che l’arte della diplomazia l’hanno scordata, il dolore mi ha invecchiato, il brusio a notte fonda che mi sussurra ‘bentornato’, il dolore e la distanza, il tradimento.
Mi hanno reso vecchio.
Ho tradito le mie speranze, le buone intenzioni, il me stesso di vent’anni che si affacciava all’amore convinto di essere appena migliore, non tanto, in realtà, ma forse un po’ sì, convinto che corteggiare Diego o lasciarsi forse corteggiare da lui fosse il nucleo denso dell’amore, convinto che quello fosse l’amore.
Un gioco di sguardi in cui si vince in due.     
Un gioco.
Il gioco più bello dei nostri vent’anni.
L’amore mi ha invecchiato.
Mi sembra anche di vedere qualche ruga intorno agli occhi gonfi. 
Credo solo a ciò che è semplice, alle braccia forti di chi come me non ha più niente da perdere.

***

Quando mi arriva il messaggio lo capisco subito che è un indirizzo, che è il luogo dell’appuntamento. Lo leggo dopo poco perché mi sono svegliato presto, perché ho dormito male, perché alla presenza di Diego nel letto non c’ero più abituato e per sentirlo così nel buio distante ed assente era meglio non sentirlo per niente, era meglio non sentire il suo fiato pesante, restando sveglio a contare i respiri e a cercare di adagiare il mio respiro al suo che era il respiro lento e profondo di chi dorme, per cercare un po’ di pace che da lui non poteva venire. Era meglio non sentire la sua odiosa sveglia delle sette e i suoi movimenti bruschi di chi apre gli armadi e cerca i vestiti e non si cura neanche di chiudere la porta prima di andare in cucina, e forse per questo ho dormito male o forse è per colpa dei pensieri dei rimpianti dei rimorsi dei sensi di colpa e del rancore che mi offuscano la mente, o forse è stato per colpa di quel messaggio che mi è arrivato di mattina presto e la vibrazione mi ha svegliato di nuovo, quel messaggio che tanto se non fosse arrivato l’avrei mandato io, e invece è arrivato e così anche io sono arrivato, al luogo dell’appuntamento, stanco, assonnato e vecchio.
L’avevo capito che era un indirizzo ma non avevo capito dove Juan mi aveva mandato, dove m’aveva voluto. E quando lo capisco vorrei forse per un secondo girare i tacchi e tornare da dove sono venuto: perché questa porta con il campanello e il suo nome scritto sopra fa troppa paura, perché varcare questa soglia vuol dire entrare come un corpo estraneo nella vita di un altro, nella vita di altri, pretendendo una legittimità che so di non poter avere, perché questa stessa porta è l’unica vera prova del fatto che Juan esista davvero. Più concreto ancora del suo corpo nudo c’è il legno della porta, che nasconde una persona vera, con una vita, un passato, dei pensieri, delle idee riguardo il mondo, delle paure, degli interessi, un certo gusto nell’arredare la casa, un armadio pieno di vestiti, una famiglia, dei sogni, un dopobarba, certe allergie, piccole manie, una televisione, le pantofole, la vasca oppure la doccia, oppure entrambe, viaggi passati e viaggi mentali, un titolo di studio, una crema per le mani, uno spazzolino, un fidanzato.
Tutto questo nasconde la porta e tutto questo mi piove addosso nell’istante in cui leggo il suo nome sul campanello, e tutto questo fa paura.
Juan per la prima volta è un ragazzo vero, non è la mia valvola di sfogo affettiva e sessuale che nasce dal nulla quando ne ho più bisogno e nel nulla ritorna, di fretta e senza fare la doccia.
Juan è vero.
È quasi più vero ora che non c’è.
Juan esiste.
E vive qui.
Non so perché Juan mi abbia voluto qui ma un istante prima di andarmene, nell’istante in cui sto per girarmi, proprio nell’istante in cui ho deciso che no, non entrerò, ecco che mi ritrovo a suonare il campanello.
Sono sempre stato pieno di contraddizioni.

***
 
Ho il respiro irregolare, breve, frenetico, Andrés ce l’avrà pure piccolo ma sa fare male, sudo freddo, mi tremano le braccia, vistosamente, ma non sono io, sono le spinte troppo possenti che mi sconquassano, i miei muscoli si liquefanno, si sciolgono come cera, come burro, l’impianto si sfascia, si accascia, non mi reggo sulle braccia, affondo la faccia sul cuscino, che assorbe il mio fiato, i miei gemiti, la saliva, le lacrime, il sudore, stringo il cuscino tra le dita, stringo il sesso di Andrés tra le natiche, stringo la consapevolezza che fa male: non è la prima volta, ma è la prima volta con un maschio che non sei tu, e i suoi peli pubici tagliati corti solo mezzo centimetro mi stanno sfregando la pelle e la irritano e bruciano e non capisco da dove Andrés tragga tanta forza, davvero quello che gemeva languido sotto di me è questa stessa forza della natura così presente dentro di me?, io che c’ho sempre dato di potenza e non di resistenza non ho mai saputo davvero cos’è la forza.


Sembri così piccolo rannicchiato sul letto mentre reggi tutto il mio rancore che ti sconquassa le ossa le cosce ti tremano vorrei dirti le senti?
Le senti o le assorbe la t-shirt, queste due gocce di rugiada che mi cadono dagli occhi e muoiono sulla tua schiena sudata?
Sono così sottili, così trasparenti, così belle, che per un attimo non ho il coraggio di ammettere a me stesso che è tutto sbagliato Juan che soffre per dimostrare qualcosa a qualcuno per fare male chissà poi a chi Diego che è lo stronzo ma io sono più stronzo e Rafael che viene stuprato in casa propria e tutto è sbagliato e per questo due lacrime mi cadono dagli occhi e muoiono sulla schiena sudata di Juan che suda freddo e chissà se le sente, e non ho il coraggio di ammettere che è tutto sbagliato e per questo cerco di convincermi che no, sto piangendo perché all’improvviso gli occhi mi bruciano e mi cola anche un po’ il naso e trattengo a stento uno starnuto che è strano perché da qualche giorno non starnutivo più, queste due lacrime sono così belle che cerco di nasconderle con altre lacrime fisiologiche che chissà da dove mi vengono e le nascondo con forza nel corpo sconquassato di Juan che sembra così piccolo rannicchiato sul letto mentre regge tutto il mio rancore con le cosce che tremano e chissà se le sente, queste due gocce di rugiada.


Ad ogni spinta possente di Andrés dentro di me affonda sempre più in profondità nel mio cervello un’idea:
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay
sono gay





sì,
 
«Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Così! Così!»,
 
sì,
sono gay, 
sono gay,
e non me ne frega un cazzo,
m’importa solo del tuo fiato sul collo, all’orecchio, che sembra sussurrare qualcosa, o forse sono solo io a dare un senso al tuo respiro, senza capire neanch’io quale sia, forse sono solo io che vorrei che tu mi sussurrassi adesso qualcosa all’orecchio, ma Andrés non sussurra, geme discreto di un gemito acuto e prolungato appena e s’immobilizza e chissà se respira o se il fiato gli si spezza in gola come si spezza a me ora che trattengo una bolla di respiro in fondo alla gola e chissà se anche tu trattieni una bolla simile in fondo alla gola mentre t’immobilizzi e gemi discreto e mi riversi dentro tutto il piacere facile che riusciamo a costruire in due.


Circondo la vita di Juan con le braccia e mi accascio contro di lui, appoggiandogli la fronte sudata contro la schiena, muscolosa, che si alza e si abbassa con il respiro e sostiene il mio peso.
Per un lungo minuto non ci diciamo niente: i nostri polmoni vivono di uno stesso ritmo e respirano di un solo respiro.
Prolunghiamo questo momento d’intimità vera, in cui per la prima volta abbassiamo davvero ogni barriera e ci accarezziamo a vicenda l’anima sorella.


Mercoledì 7 maggio, quattro anni prima

Non è facile resistere agli assalti del destino.
Soprattutto quando il destino si presenta sotto forma di un ragazzino spilungone e secco come un chiodo e i suoi assalti sono così petulanti.
Cammino verso casa, in un pomeriggio di maggio così caldo da non sembrare affatto maggio, così umido che posso sentire il sudore gocciolarmi schifosamente lungo la schiena.
Anche Rafael cammina verso casa, verso casa mia, mentre parla e parla e parla e non so nemmeno cosa mi sta dicendo.
È da un mese che il destino ripropone i suoi assalti, da quella mattina che m’hai salutato alla fermata dell’autobus, da quel giorno d’aprile che, sai?, non te l’ho mica detto, era il giorno del mio compleanno, è da un mese che il destino ripropone i suoi assalti e non so davvero come posso continuare a permetterglielo.
Sarà forse perché gli assalti del destino sono così intriganti, tanto da provocarmi un lieve prurito sulla pelle…? Un desiderio così incomunicabile da lasciarmi disarmato?
Davanti alla porta di casa, Rafael ammutolisce.
Infilo la chiave nella toppa, la giro, apro la porta.
Ci guardiamo per un attimo negli occhi.
Entrerai?
Non entrerai?
Resisterò ancora agli assalti del destino o cederò al desiderio incomunicabile?
Quando il destino fa un passo in avanti, non posso fare che un passo di lato, lasciarlo passare.
Non ho mai pensato tanto a quella giusta.
Sarà perché dopo qualche esperienza ho capito l’unica cosa di cui, da quel momento in poi, sono sempre stato convinto: quella giusta non esiste.
E non esiste perché quella giusta è quella per cui si fa l’eccezione, quella giusta è l’eccezione, forse: perché quando s’incontra quella per cui fare l’eccezione lei diventa automaticamente quella giusta, anche se è precisamente tutto quello che non ho mai pensato giusto per me.
Sarò io a renderla giusta.
Rafael fa un passo deciso verso la porta di casa. 
Io faccio un passo di lato. 
Lo lascio passare, decido forse di accoglierlo nella mia vita, di non chiuderlo fuori.
E poi, e poi è semplice.
Non ricordo più bene se sono stato io a baciare Rafael o se da lui mi sono lasciato baciare, ma quel giorno io e Rafael ci siamo baciati e questo ricordo adesso sotto la pioggia, ricordo il calore di un bacio e la fretta bambina di quattro mani che esplorano sentieri mai visti prima e una stretta bella allo stomaco che fa battere il cuore un po’ più veloce e il gusto proibito di questa bocca che mi ha placato il prurito e la mia voce tremante che gli ha detto all’orecchio

«Rafa»

che gli ha detto

«Non sono gay…»
«Sh…»
«Rafael…»

e la sua voce chiara che sulle labbra sussurrava

«Non importa…»

e ricordo il coraggio di dirgli

«Mi piaci…»

Mi piace Rafael nelle mani forti aggrappate alle mie spalle mentre facciamo l’amore, mi piace nella pietra dura del pomo d’Adamo che si alza e si abbassa come Rafael deglutisce e sospira alla ricerca di aria, mi piace nel bianco della sua pelle bianca che tra le dita affamate si tinge di caldo.
Non mi piacciono i maschi.
Ma se tu mi piaci così tanto da farmi fare l’eccezione devi proprio essere quello giusto.
Mi piace ricordare come un giorno lontano in un pomeriggio di maggio tra le lenzuola stremate mi sono sentito finalmente me stesso.
Forse per questo ho pensato che la nostra complicatissima storia d’amore avesse più senso…
…della mia vita senza te.



–––



*[1] Frase liberamente ispirata alla canzone di Daniele Silvestri, Gino e l'Alfetta. Lo stesso vale per tutte le frasi più o meno simili presenti nel corso della storia.
*[2] Celebre battuta tratta dal film La vita è bella.
*[3] Nome tratto dalla serie televisiva Last cop.
*[4] Dal titolo della prima antologia ufficiale postuma di Fabrizio de André, In direzione ostinata e contraria.
*[5] Uncommitted, XIA Junsu.
   
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Orient_Express