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Autore: WinterRose    09/04/2013    3 recensioni
Eric, ragazzo apparentemente privo di qualità eccetto che per un corpo da urlo, e Kathrine, ragazza studiosa, matura e responsabile, si conoscono praticamente da sempre; peccato che non si sopportino a vicenda e che i rispettivi genitori vogliano che i due ragazzi si sposino. Ma le cose possono sempre cambiare giusto? Umorismo, ironia, gelosia e tanto, tanto amore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi scuso per il ritardo con cui pubblico questo capitolo, ma tra una cosa e l'altra ho avuto davvero poco tempo per le mie cose.
Ad ogni modo di nuovo siamo tornati al status 0-recensioni ma d'altronde la fortuna è una ruota che gira, mica mi può andare sempre bene!
Spero che “Rivelazioni” - titolo di questo capitolo- susciti in voi qualcosa di più perchè, insomma diciamocelo, la storia sta raggiungendo il suo culmine.
Quindi ragazze e ragazzi vi prego, vi prego e vi prego fatemi sapere quello che pensate. Non c'è bisogno di commenti kilometrici, bastano un paio di parole. Almeno capisco cosa va bene e cosa no: è abbastanza demotivante vedere un po' di visualizzazioni e neanche una recensione xD
Scusate questo piccolo sfogo personale ma sono un po' insicura della riuscita di questa storia.
Ora vi lascio al capitolo.

Buona lettura :)

WinterRose



Rivelazioni

 

 

Dimmi perché proprio a me

l'anima mi brucia al suo pensier;

la vedo, la sento, trai suoi capelli il fuoco c'è

e annienta ogni controllo che c'è in me”

(Luci del paradiso e Fiamme dell'inferno, Il Gobbo di Notre Dame)

 

 

 

 

 

Nei giorni successivi emerse un nuovo lato di Eric. Kathrine non l'avrebbe mai detto, ma dietro a quella maschera di malizia e strafottenza si celava il carattere di un giovane affascinante e intelligente. Forse anche simpatico. Si vedevano ogni pomeriggio per il programma di letteratura e matematica, come avevano stabilito tempo prima, anche se al ragazzo erano bastati pochi minuti per comprendere che Kathrine non avesse alcun problema in suddetta materia. Ogni tanto il ragazzo indossava nuovamente la maschera e assumeva quell'irritabile senso di superiorità e di comando nei confronti della compagna; c'erano, invece, momenti in cui era lei ad aprirsi, rivelandogli qualche particolare sulla sua famiglia, sulle sue idee o della sua permanenza in Gran Bretagna, e lui, di tutta risposta, la fissava, concentrato, quasi dovesse scoprire il trucco in una magia. Era molto difficile farlo parlare; ogni volta che Kathrine gli poneva una domanda lui la sviava prontamente o cercava di addurre meno dettagli possibili; le motivazioni di tale comportamento Kathrine non le aveva ancora comprese del tutto.

In quella situazione di stallo, Eric continuava a frequentarsi con Faith: difatti almeno una volta al giorno Kathrine si imbatteva in lei ed era costretta a sorbirsi dai due ai quattro minuti e mezzo di conversazione su argomenti futili.

Anche se in qualche modo dovette ammettere che Faith, dopotutto, non le stava tanto antipatica. Sia chiaro, non che le piacesse, ma era fatta così: le piacevano i bei ragazzi, e chi biasimarla; pensava che la vera bellezza fosse quella esteriore, credeva di essere una divinità scesa sulla terra e che l'intera umanità fosse stata graziata da questo miracolo e, be', gli Stati Uniti erano un paese democratico e ognuno aveva il diritto di esprimere la propria opinione, per quanto questa potesse essere sbagliata. Non aveva danneggiato Kathrine in alcun modo, per il momento, ad eccezione di qualche commento poco simpatico riguardo le sue attitudini e al suo modo di pensare, ma niente di grave alla fine.

Forse la frase più corretta per descrivere cosa stava succedendo a Kathrine era semplicemente che si stava abituando alla presenza di Faith.

La scena che si ripeteva precisamente una volta al giorno era questa: ore tre e mezza del pomeriggio. Eric seduto sul divano del soggiorno che faceva zapping davanti alla televisione, Kathrine seduta su una poltrona lì accanto, a leggere Guerra e Pace. Ogni tanto uno dei due poneva una domanda all'altro, qualcosa da aggiungere alle informazioni che avevano l'uno dell'altra e che si erano dimenticati di chiedere precedentemente. L'orologio a cucù si svegliava segnando le quattro; Kathrine iniziava a prepararsi, mettendo il segnalibro tra le pagine dove era arrivata con la lettura, si alzava dalla poltrona e con un cenno salutava il biondo mentre si dirigeva verso le scale. Il campanello suonava. La ragazza andava ad aprire e si ritrovava la faccia sorridente di Faith che le dava un veloce bacio sulla guancia e la tratteneva per i 3 minuti medi di conversazione già accennati in precedenza. Dopodiché la bionda si congedava con una battuta poco fine e scompariva nel salotto.

Quella era la prima Domenica passata a casa dei Wood per Kathrine, eppure tutto sembrava perfettamente ordinario; i genitori di Eric non c'erano e, come al solito, i due ragazzi avevano pranzato da soli con un pizza ordinata a domicilio.

Come al solito Kathrine si era seduta sulla poltrona in soggiorno ed Eric sul divano.

Come al solito Eric aveva acceso la televisione e Kathrine aveva preso Guerra e Pace.

Come al solito, quando suonarono le quattro, Kathrine si alzò per avviarsi verso l'ingresso.

Tuttavia a rompere l'equilibrio fu la mano di Eric che afferrò quella di Kathrine, trascinandola accanto a lui; la ragazza, atterrando sul divano, lo spostò indietro di qualche centimetro.

Kathrine osservò con la coda dell'occhio alla sua sinistra: la sua mano era ancora in quella del ragazzo. Lo guardò perplessa, non comprendendo il motivo di tale gesto; ciò che ricevette come risposta fu un eloquentissimo “E' domenica”.

Eric riportò la mano sul telecomando, abbandonando quella della ragazza.

Tacque.

Kathrine finse di concentrarsi sull'immagine trasmessa dal televisore mentre ogni tanto lanciava sguardi furtivi all'orologio, aspettando da un momento all'altro il suono del campanello.

16:03.

Niente.

Concesse un'occhiata veloce al ragazzo, apparentemente tranquillo e indifferente.

16:07.

Kathrine iniziò a mostrare i primi segni di irrequietezza. Non riusciva a stare ferma: prima si passava una mano tra i capelli, poi stropicciava il tessuto della maglietta che indossava, batteva le mani sulle gambe, poi di nuovo una mano tra i capelli e così daccapo.

16:14.

<< Peccato che la moglie di Patrick sia morta, eh Bennet? Sai quella bionda con i piercing e una miriade di orecchini >>

16:16.

<< Eh si >> rispose Kathrine distratta.

Non era da Faith essere in ritardo. Scartò subito l'ipotesi che la biondona potesse essere bloccata nel traffico per il semplice fatto che a Fairview il traffico era praticamente inesistente. E se le fosse successo qualcosa? Magari era stata davvero investita da un tram stavolta. Sarebbe stato prudente chiamarla per verificare che non fosse in pericolo:

<< Peccato che la moglie di Patrick, invece, sia viva e vegeta e sia a letto con il migliore amico di Patrick. Cosa cazzo ti prende? >>

Una vocina nella testa di Kathrine le sussurrò un “Beccata!”:

<< Si, scusa. Ero sovrappensiero >>

Eric disattivò il volume. Il telecomando volò dall'altra parte del divano:

<< Cosa ti turba, Bennet? >> chiese sporgendosi verso di lei; Kathrine di riflesso si scostò indietreggiando.

<< Ma niente >> Da una parte cercò di sembrare sicura e convinta di sé, dall'altra sperava ancora nel trillo del campanello.

Ma intanto Eric continuava a farsi vicino, lei si ostinava a spostarsi. Finché non toccò con la schiena il bracciolo del divano in pelle.

Prese in considerazione che Faith, probabilmente, non sarebbe venuta.

Caspita.

Il ragazzo si avvicinò ancora e Kathrine vide la distanza che c'era fra di loro ridursi pericolosamente. Solo quando il suo petto sfiorò quasi quello della ragazza si arrestò e ripeté la domanda con lentezza, scandendo bene le parole e incatenando lo sguardo di Kathrine al suo.

E ipnotizzata da quegli occhi color mercurio come un uccellino ipnotizzato dal serpente, per quanto si fosse ripromessa di non cedere, con un sospiro rispose, liberando le parole che premevano di uscire.

<< Te l'ho detto. E' domenica e non viene >> spiegò il giovane con una punta di tenerezza.

Kathrine non capiva. Il ragazzo aveva ottenuto quello che voleva, lei aveva ceduto, gli aveva detto quello che lui voleva sapere: si sarebbe dovuto allontanare, tornare al suo maledettissimo programma e prenderla in giro per i prossimi due o tre giorni. Eppure Eric non accennava a muoversi.

Anzi, le parve, che pian piano si facesse sempre più vicino, sempre più vicino.

Il suo cuore perse un colpo quando la mano del ragazzo le sfiorò la vita.

Fu in quel preciso istante che un desiderio che mai, mai avrebbe detto le sarebbe appartenuto le occupò con forza la mente e il cuore che, ora, batteva impazzito.

Anche lei, stavolta, si sporse appena socchiudendo gli occhi.

La vibrazione del cellulare di Eric frantumò quell'idillio.

Kathrine vide un lampo di rabbia guizzare nello sguardo di lui mentre infilava una mano nella tasca dei pantaloni e gettava il telefono sul pavimento.

Ma era troppo tardi, perché lei, libera dall'incanto del suo sguardo e dalla barriera del suo corpo era fuggita via lasciando dietro di sé solamente il rumore del portone che si chiudeva.

 

 

 

Kathrine camminava inquieta su e giù per la camera degli armadi, così l'aveva sempre chiamata fin da piccola, di sua nonna Elizabeth. Quella di andare dai sua nonna materna era stata l'unica idea che aveva potuto elaborare non appena aveva lasciato dietro di sé la porta di casa Wood. Durante il tragitto in taxi (aveva scoperto con suo sollievo di avere in tasca quanti dollari bastavano almeno per l'andata) aveva pianto in silenzio, non riuscendo a capacitarsi di quello che era accaduto e che stava accadendo: sul suo fianco sentiva il marchio di fuoco che Eric le aveva lasciato, e così ovunque girasse lo sguardo le sembrava di incontrare quello del ragazzo.

Quando l'auto si era fermata davanti all'indirizzo giusto Kathrine aveva smesso di piangere, anche se il suo cuore era ancora sconvolto e il suo respiro rotto dai singhiozzi.
Sua nonna, non appena aveva aperto la porta di casa, aveva riconosciuto che qualcosa non andava guardando il volto della nipote, la quale, dopo averla salutata velocemente, era corsa al secondo piano e si era chiusa a chiave in quella camera usata come ripostiglio da Mrs Johnson.

Lui la stava per baciare.

O meglio si stavano per baciare.

Quel “si” voleva specificare che l'azione, se si fosse verificata, oh se si fosse verificata!, avrebbe visto il consenso e la partecipazione di Kathrine. Ed era questo ciò che più la spaventava. Il fatto che lei, proprio lei, avesse voluto baciare Eric.

Non era qualcosa a cui si sarebbe ribellata, anzi, ne era sicura, l'avrebbe accettata.

Com'era possibile che fosse arrivata a quel punto? Eric era l'ultima persona che avrebbe potuto scatenare in lei certe sensazioni. Eppure era accaduto.

Ma la domanda più importante era: ne era innamorata?

Diamine, non lo sapeva. Non c'è una definizione fissa e immutabile di amore, o almeno non tale da poter definire con certezza il preciso momento in cui senti di amare qualcuno. Lei l'aveva sempre chiesto a sua nonna, perché sua madre non si era sposata per amore: lei e William erano sempre stati buoni amici, ma non innamorati. Era stato un matrimonio di convenienza il loro. Così come doveva essere quello tra Eric e lei.

Sua nonna le aveva detto che quando sei innamorata di qualcuno il cuore ti batte forte.

Il suo lo faceva.

Quando sei innamorata di qualcuno, vorresti passare tutto il tempo della giornata con lui.

Immaginandosi la cosa, l'idea non le dispiaceva: dopotutto in quegli ultimi giorni a stretto contatto con il ragazzo non si era trovata affatto male.

Quando sei innamorata di qualcuno pensi che lui sia la persona più bella del mondo.

Eric Wood era il più bello del mondo, non era una novità ed era un fatto oggettivo. Come testimoni metà popolazione femminile dell'istituto superiore di Fairview.

Quando sei innamorata di qualcuno te lo senti e basta.

Come poteva essere “te lo senti e basta”? Che assurdità era mai questa?!

Kathrine si accasciò sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete e la testa tra le mani.

Di piacerle, le piaceva, quello ormai era palese. Ma lui, lui cosa voleva? Come si sentiva? Voleva solamente prendersi gioco di lei, usarla e poi buttarla via, così come si fa come un macchina fotografica usa e getta? Fai le foto, ti diverti, le sviluppi. E poi?

Cosa ne sarebbe stato di lei, se avesse dato quel bacio?

Forse le voleva solamente dimostrare come lei, in quanto essere femminile, non poteva opporsi all'attrazione che provava nei suoi confronti, per quanto la sua ragione cercasse di impedirglielo. Un altro modo per deriderla, per schernirla.

E se l'avesse amato davvero? Se quell'insieme eterogeneo di sensazioni che le scombussolavano l' anima, se quello scompiglio nello stomaco, le guance arrossate e la voglia di volerlo baciare fossero stati i sintomi dell'amore? Le cose sarebbero cambiate: il piano, il matrimonio, il patto, tutto sarebbe cambiato. Come ricominciare da zero.

La sua mente ritornò alla scena avvenuta più di un'ora prima: sicuramente Eric avrebbe voluto delle spiegazioni. Ormai lo conosceva. Ma cosa gli avrebbe detto? Che non sapeva se ne era innamorata, ma che le piaceva così tanto che neanche la sua parte razionale riusciva a impedirle di frenare i suoi istinti?

E lui come avrebbe reagito?

Doveva assolutamente evitarlo, almeno fino a quando non avesse trovato una spiegazione accettabile e plausibile che però non compromettesse la sua dignità e incolumità morale. Doveva pensarci bene perché darla bere ad Eric Wood non era così semplice. Dopotutto era lui l'esperto in quel genere di cose: strisciare, complottare nel buio erano sue prerogative.

Perché era così complicato?

La confortò il pensiero che il giorno successivo sarebbero tornati i suoi genitori a Fairview e che sarebbe potuta finalmente tornare a casa. Doveva aspettare solo ventiquattro ore, riuscire a evitare Eric per quel breve arco di tempo. Da sola avrebbe avuto più tempo a sua disposizione per formulare un piano che avrebbe risolto tutto. Solo ventiquattr'ore.

Dette uno sguardo fuori dalla finestra: iniziava a calare la notte. Forse era meglio tornare a casa prima che facesse buio: per quanto fosse una piccola cittadina non era consigliato girare da sola di notte a Fairview, soprattutto per una ragazza.

Aprì la porta e fu investita dalla luce artificiale delle lampade al neon del corridoio che la costrinsero a strizzare gli occhi. Per poco non ci mancò che cadesse giù per le scale.

Kathrine si affacciò dalla cucina per salutare nonna Elizabeth e ringraziarla per l'accoglienza ma la donna la precedette:

<< Ho preso il gelato, tesoro. Dicono tiri su il morale >> alzò una vaschetta rettangolare bianca.

Elizabeth Crought, Johnson da sposata, era una donna di gran classe e di una bontà infinita. Questo era quello che aveva sempre pensato Kathrine di lei. Era relativamente giovane (65 anni circa), di media statura e magra. Portava i capelli corti e non li tingeva: in questo modo risaltavano ancora di più gli occhi color caramello famosi per la loro dolcezza. Era sempre stata un'importante figura nell'infanzia di Kathrine e le era stata più vicino di Annabelle stessa. Negli ultimi anni, tuttavia, la situazione era degenerata per via delle incomprensioni tra sua madre e Mrs Johnson.

Kathrine accennò un sorriso e si avvicinò al tavolo tondo della cucina, prendendo posto vicino a sua nonna che le porse gentilmente un cucchiaio:

<< Raccontami tutto sull'Inghilterra, cara >> Disse mentre la ragazza affondava il cucchiaio nel gelato.

Kathrine rimase per un attimo senza parole: si era aspettata una domanda sul perché avesse pianto, sul perché si fosse chiusa in una camera senza neanche salutare degnamente sua nonna che non vedeva da due anni. Forse sul perché fosse così diversa.

Sai, cara Kathrine, ti trovo diversa.

Era l'amore a cambiare le persone?

E invece nonna Elizabeth aveva evitato l'argomento, perché sapeva che sicuramente avrebbe causato nuovo dolore alla nipote. Kathrine sorrise e iniziò a raccontare.

Mentre parlava, tra un aneddoto e l'altro, tra una cucchiaiata di gelato e l'altra, si rese conto di essere più sollevata, anche più energica, pronta ad affrontare Eric.

Ciò di cui non si rese conto era, però, che il gelato era alla panna.

 

<< Sei impazzito? >> Fred si era alzato di scatto dal divano sul quale pochi istanti prima era sdraiato tranquillamente con una lattina di birra in mano.

<< Si, dannazione. Sono impazzito >> Eric prese un'altra abbondante boccata di fumo dalla sigaretta.

<< Perché l'hai fatto? Anzi, lo stavi per fare? >>

<< Non lo so Fred. Un momento prima ero lì pronto a prendermi una rivincita sulla saputella e un momento dopo le ero praticamente addosso >>

Il ragazzo faceva avanti e indietro nel soggiorno dell'amico, l'espressione del volto sconvolta:

<< Smettila di fumare, cazzo. O qui non si vedrà più niente da un momento all'altro >>

In effetti era la quarta sigaretta che Eric aveva fumato da quando aveva fatto irruzione a casa di Fred. Nonostante la poca visibilità lo sguardo di Eric fulminò quello dell'amico, gettando la sigaretta ormai consumata nel caminetto dove giacevano le altre tre. Ne accese un'altra:

<< La Bennet è una strega. Io l'avevo detto >>

<< Diciamo che una strega che attizza. Dai non mi puoi dire che sia brutta, anzi >> si giustificò il rosso. No, la Bennet non era un brutta ragazza, solo che insomma non sembrava una ragazza. Nel senso, aveva le tette, piccole eh, però ce le aveva quindi era una ragazza. Però era diversa dalle altre, era difficile da considerare come una con cui spassarsela. Magari la vedevi passare e pensavi che era carina ma non ci pensavi nemmeno a certe cose per il semplice fatto che erano irrealizzabili:

<< Non me ne frega un emerito cazzo se attizzi oppure no >> urlò Eric in preda ad una feroce collera << il fatto era che la Bennet era l'ultima ragazza sulla faccia della terra per la quale avrei potuto provare voglie simili >>

Dopo essersi sfogato, Eric si lasciò cadere sul divano accanto all'amico:

<< Fattela >> constatò Fred asciutto << magari le “voglie” ti passano >>

Il biondo si passò una mano sulla fronte, esausto:

<< Pronto? Fred, stiamo parlando della Bennet. La suora precoce! >>

<< Fatti Faith, lei è sempre disponibile >>

<< Ma Faith non è la Bennet! >>

Fred lo guardò apprensivo poggiandogli una mano sulla spalla:

<< Ma ti senti amico? Sembri un'adolescente in balia di crisi amorose. Non vorrei essere affatto al tuo posto >>

Il volto di Eric si contrasse in una smorfia inorridita. Il leone, il predatore che si trasforma nel coniglietto infatuato: che vergogna. Il biondo provò ribrezzo e commiserazione allo stesso tempo per se stesso:

<< Davvero? >>

Il rosso annuì sconsolato:

<< Ti piace, no? >>

<< Cazzo, non lo so >>

Fred si preparò ad assumere il famoso ruolo dello psicologo in una coppia di amici. Non che l'avesse mai fatto, intendiamoci, ma ormai era diventato qualcosa di proverbiale. Ragazze che si lamentavano dicendo “E' tutto il giorno che le faccio da psicologa” oppure “Quando hai bisogno di uno psicologo io ci sono”. E adesso era il turno di Fred. Un giorno avrebbe potuto affermare “Ho fatto da psicologo a Eric Wood”, il che come cosa era doppiamente incredibile: primo perché immaginarsi Eric Wood disperato era impossibile, di solito era lui che faceva disperare ogni ragazza che incontrava. Secondo perché l'idea che Fred potesse fare “lo psicologo” era ancora più stramba della prima:

<< Allora, se Faith non ti avesse chiamato, l'avresti baciata? >>

Eric annuì mentre finiva la quinta sigaretta:

<< Se ne avessi la possibilità lo faresti? >>

Di nuovo un segno di assenso da parte del biondo:

<< Ti piace >> concluse soddisfatto Fred:

<< Ehi aspetta, non è un po' presto per dirlo? Cioè mi hai fatto solo due domande! >> Eric si inquietò di nuovo:

<< Più chiaro di così! Hai detto che vorresti baciarla! >> Fred fu preso da una sorta di compiacimento. Si sentiva intelligente: se il lavoro degli psicologi era così semplice l'avrebbe potuto fare anche lui. Ci mancava soltanto che lo pagassero bene e sarebbe stato il migliore psicologo di tutti i tempi: meglio ancora di quel tizio tedesco, Frod* o qualcosa di simile. Un momento, ma il tizio tedesco aveva il nome praticamente uguale al suo! Possibile che lui fosse una reincarnazione di Frod? Basta, aveva deciso: avrebbe fatto lo psicologo, si disse contento:

<< Cosa sorridi, coglione?! Vorrei vederti al mio posto, amico insensibile! >> borbottò il biondo incupendosi sempre di più. Inizialmente l'euforia di Fred parve non essere affatto scalfita dal commento dell'amico, tuttavia un nuovo pensiero la soffocò sul nascere: Faith era l'incarnazione dell'idea di donna. Donna uguale Faith. A Eric non importava più di Faith. A Eric non interessavano più le donne. Eric stava cambiando. Cambiare significa diventare diversi. E un Eric diverso, com'era? Era perfetto così com'era, con il carattere irascibile, profondamente donnaiolo e una capacità che lui stesso ammirava tantissimo, ovvero quella di sapersi sballare e non sentirsi in colpa; ma se fosse cambiato avrebbe perso la perfezione, o no? Fu preso da un ansia incontrollabile:

<< Mi sa tanto che dovremo dire addio al vecchio Eric, è così? >>

Fred si aspettava una reazione da parte dell'amico che smentisse ciò che lui volutamente aveva affermato. Già si immaginava una serata all'insegna di grandi

 

 

(*N.d.A. Si tratta di Freud psicoanalista austriaco della seconda metà dell'ottocento.)

bevute e di grandi...:

<< Non oggi, Fred >> sospirò l'amico alzandosi e afferrando il giubbotto di pelle.

Non solo il biondo non era più donnaiolo, ma non voleva neanche più sballarsi.

Fred pensò che, magari, bisognava davvero dire addio al vecchio Eric e agli altri

divertimenti con lui. Se era così, la Bennet era davvero una strega.

La porta si chiuse con un tonfo.

  
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