4.
Oceano
La
guardai.
Una
volta.
Due
volte.
Mille
volte.
La
guardai e tutto il mondo sembrò svanire, perché
non si poteva – non si doveva –
avere occhi come i suoi:
blu, blu come l’oceano, l’oceano immenso,
l’oceano che si fonde con il cielo, l’oceano
che sa essere impetuoso, pericoloso, ma anche accogliente e rilassante.
E...
lei aveva occhi come l’oceano.
Lei era l’oceano: impetuosa e
affascinante.
Camminava
al mio fianco, ancora una volta, mentre il vento si faceva
più forte e alzava
la polvere delle strade, inducendomi a chiudere gli occhi. Il sole
stava
sbadigliando, segno che di lì a poco ci avrebbe dato il suo
commiato per cedere
il posto alla luna, che avrebbe timbrato il cartellino di inizio turno.
Avevo
passato l’intera giornata cantando e ballando insieme ad un
gruppo di strambi
personaggi, della quale ancora non riuscivo a farmi un’idea:
erano un’incognita
per me, proprio come la mia dea; d’altronde non li conoscevo
che da un giorno
appena.
Guardai
la mia Musa – Mille e una volta –
lasciando
che i miei occhi perdessero tempo ad osservare i suoi zigomi alti, le
sue
labbra così carnose, la
sua pelle
rosea. Mi chiedevo se fosse una strega, in realtà,
perché non era possibile che
pendessi dalle sue labbra in quel modo, dopo appena una notte e una
giornata. Suonava stonato.
Come
potevo guardare in quel modo una donna, quando avevo sempre usato le
ragazze
come un metodo piacevole per svuotarmi le palle? Suonava
stonato.
La sua
gonna rossa era impolverata al fondo per il troppo strascicare a terra
e la sua
maglietta larga era delle più squallide che avessi mai
visto: una ragazza
qualsiasi, in poche parole, con indosso quei vestiti, sarebbe sembrata
una
barbona, eppure lei pareva una sinuosa, incantevole sirena.
Forse
era a causa della sua bellezza ultraterrena, oppure per colpa della sua
tendenza ad essere sempre così spontanea, così
libera, ma non riuscivo a
smettere di guardarla, di starle vicino. Era la mia Terra e io la sua
Luna,
costretto ad orbitare intorno a lei.
Ricordo
precisamente come, in quei primi giorni insieme a lei, mi domandavo
incessantemente qual era il motivo per cui non riuscivo a starle
lontano,
nonostante non la conoscessi affatto. Ero sconcertato, sconvolto e
pretendevo
risposte.
«Suoni
bene la chitarra» disse d’un tratto la Musa,
interrompendo i miei pensieri
filosofici. Non sorrideva, questa volta, ma i suoi occhi scintillavano,
come
sempre. Tirai un calcio ad un sassolino e lo vidi rotolare fino ad un
idrante,
che gli bloccò la via.
«In
compenso sono stonato come una campana!» Sentì
subito il suono della sua risata
fare eco alla mia, mentre il crepuscolo si faceva avanti.
Avevo
notato che May era una tizia di poche parole, così non mi
stupì quando non
cercò di prolungare la nostra conversazione; semplicemente,
parlava quando
aveva realmente qualcosa da dire,
altrimenti stava zitta. È una cosa che le invidio
tutt’ora.
In quei
due giorni passati insieme alla mia Musa avevo dimenticato di essere un
giovane
giocatore di baseball appena diplomato, circondato da sempre da ragazze
belle
quanto spente, ben voluto dai genitori. Mi ero lasciato alle spalle,
per quella
notte e quella giornata, tutte le finzioni e le ipocrisie che la mia
vita
comprendeva, lo stress e il dover sempre essere ristretto in una serie
di
regole imposte dal potente.
Avevo
lasciato sì che la vita andasse come doveva andare,
divertendomi,
abbandonandomi, facendomi trasportare dalla follia sensuale di una
donna
bellissima.
Una
donna bellissima che canticchiava tra sé e sé,
mentre camminava al mio fianco.
Arrivammo
di fronte alla villetta, che era poi la mia casa dell’epoca,
e l’ansia di dover
affrontare i miei genitori si fece sentire, inducendomi a
mangiucchiarmi le
unghie.
«Nervoso?»
Rimasi stupito, quella volta, dal fatto che May si fosse subito accorta
del mio
stato d’animo. Imparai, con il tempo, che la Musa sapeva
leggere attentamente
le altre persone, perché era una grande osservatrice.
«Mia
madre sarà furiosa...» dissi, più a me
stesso che a lei, guardando la villa. In
effetti, l’idea di dover subire l’ira funesta di
Lauren Williams non mi
allettava.
Posai i
miei occhi su di lei e la trovai intenta a fissare la mia casa con
un’attenzione che non avrei potuto avere neanche durante le
lezioni del
professor K.
Sapevo
che avremmo dovuto separarci, arrivato quel momento, ma non avevo
alcuna
intenzione di lasciarla andare. Ne volevo ancora, ancora, ne volevo di
più.
Resta
con me, O Musa
Cullami
Amami
Tienimi
con te
«Me ne
vado, allora. Questo non è posto per me»
sentenziò infine, un sorriso amaro
sulle sue labbra. Si voltò, la mano alzata in segno di
saluto, e fece per
prendere il viale per tornare dai suoi amici vagabondi.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che non l’avrei rivista
mai più.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che non avrei più
potuto danzare con lei.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che sarei morto.
«May!»
urlai, rincorrendola. La vidi voltarsi, per nulla stupita, quando la
raggiunsi
e mi fermai davanti a lei.
Occhi
come l’oceano.
Non
disse nulla, sapeva bene che non era il suo momento di parlare, ma il
mio.
Rimase ferma, l’espressione seria, mentre rimase in attesa.
Gli occhi fissi nei
miei.
«Perché
me?» domandai infine, non riuscendo più a
resistere all’impulso di sapere.
Perché
sei venuta da me, con tutti gli
uomini attraenti che ti circondavano, O Musa?
Perché
hai scelto di danzare nel mare con
me, O Musa?
Perché
hai camminato mano nella mano per le
vie della Sirena con me, O Musa?
Perché?
Mi
sorrise, la mia dea. Mi posò una mano sulla guancia e,
quando sentii le sue
piccole dita posarsi sulla mia pelle, chiusi gli occhi, godendomi la
sensazione.
«Perché,
l’altra sera, vidi molti occhi puntati su di me.»
La sua voce era alito fresco
sul mio viso. «Erano occhi bramosi, volevano il mio corpo,
volevano scoparmi
con passione, con rabbia, con foga.» L’immagine di
un porco qualsiasi che
faceva sesso con la mia dea mi provocò un senso di gelosia
enorme, che dovetti
reprimere a forza quando lei riprese a parlare. «Ma poi, ho
visto due occhietti
vispi che mi osservavano con vero interesse, stupore, confusione.
Quegli occhi
erano realmente attirati da me, non dall’idea di portarmi a
letto.»
Aprii
gli occhi ed incontrai il suo sguardo commosso. Il suo viso era
così vicino al
mio che se solo avessi voluto avrei potuto baciarla senza sporgermi
troppo; le
sue labbra erano lì, perfette, pronte ad essere succhiate e
leccate da me.
Ma
rimasi fermo, a fissare quell’oceano blu.
«Te, perché non sei passato
dietro di me
palpandomi il culo senza ritegno, ma mi hai ammirata da
lontano.»
Vicini,
vicini. Eravamo troppo vicini e le parole stavano diventando troppo per me. E le sue labbra erano
lì,
per me. E io mi stavo perdendo, perdendo il quel mare blu.
E
allora non ce la feci più.
Mi
sporsi – un millimetro solo.
E la
baciai.
Sfiorai
le sue labbra con le mie, senza pretese, in un lievissimo contatto, per
poi
staccarmi con lentezza. Quel suo oceano blu scintillò per un
attimo, per poi
essere lei a prendere nuovamente l’iniziativa e fare
incontrare nuovamente le
nostre labbra. Mi abbandonai a quel bacio, lasciando che i suoi denti
mordessero dolcemente il labbro inferiore, in una dolcissima tortura.
Le misi
una mano sul fianco, facendola aderire di più al mio corpo,
che bramava il suo
calore, la sua pelle. Sentii le sue mani allacciarsi dietro al mio
collo e, di
fronte ad un simile coinvolgimento da parte sua, la passione
scoppiò in me,
inducendomi a baciarle il collo, le guance, la mandibola. Le morsi il
lobo
dell’orecchio e la sentii ridacchiare sul mio collo.
Di
nuovo bocche, labbra, lingue.
E non
mi importava se ero nel vialetto dove abitavo, se i miei vicini
avrebbero
spifferato tutto a mia madre o che, molto più probabilmente,
era la mia stessa
mamma che mi stava fissando dalle finestre di casa mia. Non mi
importava,
perché la mia Musa mi stava baciando il collo e il suo collo
aderiva
perfettamente al mio, come se fossimo due pezzi combacianti di un
puzzle.
Quello,
lo considerai il nostro primo bacio. La mia memoria lo ha rinchiuso in
un
cassetto ermetico, a differenza di quello dato sotto
l’effetto dell’acido, che
è solamente un ricordo sfumato.
Si
allontanò, facendo sì che le nostre labbra si
staccassero e io, per un istante
solo – oh Dio, certe sensazioni non
potranno mai essere dimenticate -, pensai che sarei potuto
morire.
Baciami
ancora, O Musa
Baciami
ancora
E
io morirò.
«Dimmi
che non sparirai.» Dissi quelle esatte parole, incatenando i
suoi occhi nei
miei, pregandola disperatamente di non svanire nel nulla, di non
dissolversi
come un sogno, perché avevo la necessità di
quell’oltre nella mia
pacata esistenza.
Sorrise,
la mia Musa, ed una tenera fossetta comparve nella sua guancia
sinistra.
«Sarai
tu a dovermi venire a cercare, bambino.»
Se
qualsiasi altra persona mi avesse affibbiato un nomignolo come
“bambino”,
probabilmente sarei andato su tutte le furie, ma detto da lei aveva un
suono
dolcissimo e per niente canzonatorio. Ancora adesso, infatti,
quell’appellativo
mi rimanda a lei ed ogni volta che sento una persona usare il termine,
il mio
cuore fa un balzo.
La
guardai e pensai che avrei potuto cercare per tutta la vita le sue
guance
rosee, i suoi capelli di seta, i suoi occhi d’oceano, la sua
fossetta
dolcissima.
L’avrei
cercata, su questo non c’erano dubbi.
Si
sporse nuovamente e mi posò un lieve bacio sulla guancia,
poi prese ad
indietreggiare senza mai staccare gli occhi dai miei, il sorriso appena
accennato sulle labbra.
«A
presto, piccolo Adam.»
A
presto, mia dolcissima Musa.
*
Non
appena misi piede in casa, venni investito da un tornado inferocito e
senza
pietà, che mi diede il benvenuto con un sonoro schiaffo in
faccia.
«Dove
sei stato, brutto fetente?» Lauren Williams aveva uno strano
concetto di
termini offensivi e brutto fetente deteneva
uno dei posti più alti nella sua classifica degli insulti;
l’unica volta che
l’avevo sentita pronunciare una vera parolaccia era stato
quando mio padre era
tornato a casa ubriaco, dopo la festa dei coscritti.
Se
c’era una cosa che mi faceva paura, quella era mia madre
arrabbiata.
«Ti
sembra normale, il tuo comportamento? Sparisci per due giorni! Non una
chiamata, non un biglietto! Potevi inviare un piccione viaggiatore,
sarebbe
stato meglio di questo silenzio! Stavo quasi per andare alla polizia!
Che
cos’hai in quel tuo cervello da canarino?»
Dovetti
trattenermi dal ridere, perché – ammettiamolo
– vedere mia mamma rossa in viso,
urlarmi contro che potevo inviare un
piccione viaggiatore non era un evento quotidiano. Comunque,
cercai di
assumere un’espressione desolata e sottomessa, che potesse
far credere ad Adolf
Hitler – soprannome affibbiato a mia mamma da me e Tyler
– di avere almeno un
po’ di senso di colpa. Mi ricordo perfettamente come, mentre
la donna
continuasse con la sua ramanzina, la mia mente volasse
all’immagine della bocca
di May sulla mia.
Le sue labbra, il suo profumo...
«Adam
Williams, mi stai ascoltando?» Non appena vide la mia
espressione sognante,
fece un gesto con la mano, come per scacciare una mosca. «Ma
cosa perdo tempo a
blaterare con te, che nemmeno mi stai ascoltando. Fila in camera tua,
tacchino!»
Tacchino
occupava il
numero tre
nella Hit Parade degli insulti coniati da mia madre ed era, in effetti,
uno dei
più insensati e idioti.
Senza
degnarla di una scusa o una risposta, mi affrettai verso camera mia,
dove aprii
la porta con foga, solo per gettarmi sul letto e prendere a fissare il
soffitto. Il poster dei Doors – il gruppo che dominava le
classifiche
dell’epoca – mi osservava a sua volta e io rimasi
così per tutta la sera, senza
fare nulla di concreto.
Rimasi
sdraiato, le scarpe ancora addosso, pensando.
Pensando
alla mia dea e al suo sguardo delizioso mentre mi intimava di andare a
cercarla.
Sorrisi
a Jim Morrison e mi dissi che avrei chiamato Tyler per rimandare la
partita a
basket che avevamo programmato con i ragazzi.
Dovevo
cercare la mia Musa.
Ti
cercherò, mia dolcissima Dea
Ti
cercherò oltre il tempo
Oltre
i confini dell’impossibile
Ed ero
disposto a tutto pur di trovarla.
*
Angolo
Eryca
Ta-dan!
Ecco a voi un nuovo capitolo
fresco di beta reading (grazie Vì, cara).
Come
vedete i personaggi iniziano a
comunicare ed è qui che devo fare due piccole
puntualizzazioni: Adam e May
avranno sempre un modo tutto loro, speciale, di interagire e
rapportarsi; non
sentirete mai i soliti discorsi perditempo che si fanno tra le persone
comuni,
perché loro non sono persone
comuni.
Sarà un po’ particolare :D
Ah,
una cosa che (dio! com’è
possibile?!) ho dimenticato di dirvi sin da subito ed
è
decisamente essenziale (perdonatemi, ma sono la persona più
sbadata del mondo):
il titolo della storia, Over, non
è
dato a caso, ma significa letteralmente “Oltre”,
perché sarà proprio il succo
dell’intero racconto, ciò che Adam
imparerà a fare, ovvero andare oltre.
Ah,
sì, il ragazzo che vedete nella foto
è Alex Pettyfer (*-*) che impersoni fica il mio Adam. (La
ragazza che avete
visto nel primo capitolo invece è Rose Huntington-Whiteley
ed è la mia May.
Direi
che è tutto, mi sono dilungata
abbastanza. xD
Questa
storia è scritta con amore e
necessita lettori e pareri, quindi se ci siete (Ehilà-aaa?)
fatevi sentire :-*
Una
cascata di baci,
la vostra Eryca.