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Autore: ScleratissimaGiu    11/04/2013    0 recensioni
Serial killer a Seattle: sei persone sono già morte. Era il primo caso per Julie, nuovo membro dell'Unità Analisi Comportamentale arrivata fresca fresca dalla CIA. Ma lei non si sentiva sicura... e forse, visto quello che è successo, aveva ragione.
La storia è dedicata a BecauseOfMusic_, che mi sopporta, mi corregge ed ispira :)
Genere: Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella mattina ero tranquillamente seduta alla mia scrivania, chiaccheravo con Reid e Morgan riguardo un nuovo libro di Vic Volinsky uscito qualche settimana prima su Jeffrey Dahmer, quando JJ è entrata nell’open space reggendo alcuni fogli con mani tremanti per la fretta e la paura.
- Tutti in sala riunioni, ne abbiamo uno orrendo… - annunciò, bussando alla porta di Hotct e poi a quella di Rossi.
- Cos’abbiamo? - chiese il primo, sedendosi in sala e sfogliando le carte che JJ aveva lasciato sul tavolo per ognuno di noi.
- Seattle, Washington. Sei persone sono state buttatte sotto la metropolitana tra mezzanotte e mezzanotte e mezza negli ultimi venti giorni.
- Buttate… sotto la metro? - chiese Morgan, incredulo.
- Già. Carl Hale, Caroline White, Mary Ann Johnson, Luke Arrows, Sylvia Dalton e Dylan Cox sono stati gettati sotto la metro e identificati quasi per miracolo, direi - aggiunse JJ, facendo scorrere le immagini sul monitor.
- Cos’avevano in comune le vittime? - domandai, leggendo velocemente alcuni rapporti della polizia locale.
- Apparentemente nulla: età differenti, diversi quartieri ed estrazione socio-economica. Sembra che nessuno di loro abbia tratti simili.
- Tra mezzanotte e mezzanotte e mezza, hai detto, vero? - chiese Rossi.
La bionda annuì.
- La metro è molto meno affollata, a quell’ora - commentò Reid, pensieroso.
- Così è più facile entrare e uscire, un attacco lampo: le vittime non si accorgono nemmeno di cosa stia succedendo - convenne Emily.
- Il dipartimento di polizia di Seattle sta già inviando a Garcia i video delle telecamere di sorveglianza; mi hanno assicurato che arriveranno in fretta - disse JJ.
- Il jet parte tra dieci minuti, andiamo - disse Rossi, alzandosi e uscendo, imitato da tutta la squadra.
- Un attimo, - mi fermò Hotch sulla soglia - sicura che vuoi venire? È solo il tuo secondo giorno…
- Posso farcela, - affermai - non si… non preoccuparti.
Il mio capo non ne pareva troppo convinto, tuttavia decise che discutere non serviva a niente, solo a farci perdere tempo prezioso, così ci avviammo verso il jet con gli altri.
Mi aveva detto di dargli del tu sin dal primo momento, me l’avevano detto tutti e con gli altri mi ero adeguata abbastanza velocemente, ma con lui facevo ancora fatica.
Non ne capirò mai il motivo.
 
 
Peter Gordon, in quel momento, era rinchiuso nella sua camera, sperando che le voci smettessero di urlare.
O, quantomeno, che smettessero di urlare tutte insieme.
Poteva distinguere quella di sua madre, quella di suo padre, le urla di suo fratello, piatti che si rompevano, colpi sommessi.
Si mise le mani sulle orecchie, convinto di riuscire ad attutire almeno un po’ quel caos, ma le voci continuavano imperterrite a rimbombargli nel cervello.
La testa gli faceva male, e nessuna medicina riusciva a placare, nemmeno temporaneamente, quel dolore; gli occhi gli bruciavano e aveva freddo, ma non riusciva nemmeno a muoversi perché le sue gambe stavano come andando a fuoco.
La febbre altissima s’impadronì di lui, facendolo svenire.
Quando rinvenne, le voci se n’erano andate.
Si sentiva molto più tranquillo, riuscì ad alzarsi e constatò che anche la febbre doveva essere calata, finalmente.
L’orologio della stanza segnava le sei di sera, e l’uomo era lieto di non aver perso gran parte della sua giornata a dormire sul pavimento.
Andò in bagno a lavarsi la faccia, e il contatto con l’acqua fredda riuscì a riportarlo definitivamente alla realtà.
Si specchiò a lungo, tastandosi la barba e chiedendosi se fosse il caso di raderla; ma poi realizzò che anche Jason Slyde, un suo collega, andava spesso al lavoro con la barba lunga, e nessuno gli aveva mai detto niente.
“Vuoi davvero paragonarti a quella feccia?” chiese la voce di suo padre nel suo cervello.
“No.” rispose l’uomo ad alta voce “Certo che no.”
Dunque Peter prese in mano il rasoio e si tagliò la barba, seguendo il consiglio di suo amato genitore.
- Adesso sì che va bene, - commentò, ammirandosi.
- Avevi ragione… - aggiunse sottovoce, e potè immaginarsi un sorrisetto di circostanza del padre, che naturalmente sapeva e non aveva mai dubitato di avere ragione.
Poi fece una doccia, e rimase sotto il getto dell’acqua per circa mezz’ora, a riflettere su cosa avessero detto i suoi genitori riguardo il suo comportamento.
Decise che, in fin dei conti, era inutile chiederselo: erano morti.
Una buona questione su cui riflettere, invece, era cosa mettersi.
Anche se ogni volta che andava di notte alla metropolitana doveva vestirsi male, per non essere riconosciuto, non rinunciava mai a mettere una spilla che gli aveva regalato sua madre sul letto di morte.
Non era una spilla vera e propria, ma era qualcosa di molto più importante: era un ricordo.
La prese e la guardò, quasi piangendo: ricordava la storia di quella spilla meglio della storia della sua vita, o quasi.
Era solo un pezzo di specchio rotto con un proiettile incastonato nel centro, e per lui valeva tutto.
 
 
 
 
 
“Peter, vieni caro”
Sua madre lo stava chiamando dal letto.
Il bambino si alzò e andò a vedere di cosa avesse bisogno.
“Avvicinati” gli disse, sorridendo.
Peter notò che stava armeggiando con il cassetto del comodino, e vide un fascio abbagliante vicino alla sua mano.
“Guarda”
Teneva in mano un pezzo di uno specchio unito ad un po’ di spago, di modo che sembrasse una collana; per noi potrebbe non avere alcun valore, per quei due era tutto.
“È lui?!” chiese il bambino, con un sorriso enorme stampato sul volto solitamente triste.
“Certo, tesoro. Sono riuscita a salvarlo”
La madre gli sorrise dolcemente, come faceva sempre.
Su quello specchio lui e sua madre ci avevano costruito un’intera esistenza: ci avevano appeso sopra tutte le loro foto, tanto che non era rimasto un singolo centimetro libero.
Erano i loro ricordi più belli: tutta la famiglia insieme, foto che risalivano ad un periodo che non sarebbe più tornato.
Quello specchio era vecchio e incrostato, dunque non importava se lo tappezzavano di quello che volevano.
Almeno così era all’inizio.
Suo padre era schizofrenico, e una sera, durante uno dei suoi attacchi, aveva frantumato lo specchio con un martello.
Poi li aveva picchiati, senza pietà… Come sempre, quando aveva un attacco.
Ma Peter… gli voleva bene lo stesso; non sapeva perché, ma era così.
Cioè, Peter sapeva che era malato, dunque non poteva lasciarlo solo in quel momento.
Non poteva lasciare che venisse divorato da quella cosa tutto solo.
Sua madre era finita in ospedale per un pestaggio più duro di tutti gli altri, ma lui era convinto che non fosse stato suo padre: era stata la malattia, quella fottuta malattia.
Dopo qualche giorno dalla consegna della reliquia, sua madre morì in circostanze quantomeno misteriose: il suo cuore aveva cessato di battere improvvisamente.
Suo padre non era andato in ospedale; Peter era stato consolato da due infermieri, un uomo e una donna…
Non ne era totalmente sicuro, eppure gli sembrava che fossero proprio i due infermieri usciti dalla stanza di sua madre prima che morisse.
  
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