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Autore: Oscar_    13/04/2013    0 recensioni
Lorence Carter è un giovane disoccupato imprigionato dai propri ricordi, col grande desiderio di vivere in una villa che ogni giorno scorge durante la sua passeggiata mattutina. L'incontro con un impiegato della biblioteca della città, che sta lavorando ad una raccolta di poesie, con un solitario giornalista con la passione per i bordelli e con una giovane di buona famiglia e il desiderio di vivere un'avventura, finirà per costringerlo a svelare un segreto sepolto nella villa a cui tanto ambisce. Un segreto che, forse, sarebbe stato meglio lasciare nell'oblio.
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La villa che con più ammirazione osservavo era una delle più grandi e maestose, sebbene anche una delle più rovinate, di Via XI Ottobre. Si ergeva sul lato dei numeri pari, esattamente al civico 14, ed era costruita secondo un’architettura gotica ed ammaliante, seppure un poco angosciosa nei suoi torrioni ed arcate a punta. Il suo nome, lo ricordo chiaramente, era Villa Glicine.
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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P r o l o g o










Percorrere ogni giorno la stessa strada, alla stessa ora e con la stessa meta, finisce per divenire un’abitudine. Il sole che sorge insieme a te, che si innalza per poi ricadere di nuovo nei profondi ed oscuri abissi dell’universo, pronto a risalirne non appena l’orologio ne batterà la necessità.
E se l’orologio del sole si fermasse?
Se quella lancetta che scandisce il periodo durante il quale il nostro astro primario deve riapparire si bloccasse, impedendoci di scorgere la rassicurante e familiare luce naturale? Che accadrebbe se tutto il mondo precipitasse nelle tenebre? La salvezza tanto attesa giungerebbe, o finiremmo per divenire belve timorose e insicure, attente al minimo rumore e movimento, al pari di qualche pipistrello?
Non lo so. Mi ponevo spesso quesiti senza senso, percorrendo Via XI Ottobre. Forse perché nemmeno il nome della strada era sensato, effettivamente; insomma, l’11 Ottobre non è successo nulla di rilevante nel periodo storico, né è nato o caduto qualcuno d’importante per la città. Chissà che non fosse una data futura, che ancora doveva trasportare novità o dolore. Spesso, le cose che primariamente ci appaiono insensate, divengono infine quelle con più significato.
Camminare sempre sullo stesso marciapiede, con l’intento di giungere al Parco delle Margherite, uscendo alle 6:20 di mattina per poi rincasare alle sette in punto, consumando la colazione in casa, è stata una delle mie routine preferite per molto tempo. Non che ci fosse un particolare motivo per cui andassi a sedermi sulla terza panchina a sinistra del viale centrale, invisibile agli occhi della maggior parte dei passanti poiché posizionata appena dietro una grossa quercia, per poi contemplare il mutare rapido delle stagioni e la persistenza della gente nel seguire gli stessi passi, lo stesso sentiero già tracciato. In realtà non rammento nemmeno con esattezza quando iniziai a farlo; forse subito dopo esser stato licenziato. Ormai sarebbe difficile stabilirlo, quei giorni tutti uguali si susseguirono come gocce di pioggia, fitti e incessanti, volti a concludere un ciclo già predestinato. Non è corretto generalizzare a tal punto quelle giornate, è vero, ma descriverli uno per uno sarebbe uno spreco, oltre che un’azione inutile; in fondo, il reale “divertimento” è giunto dopo l’esemplare incontro con un posto dimenticato.
La cosa che più mi piaceva fare, inclusa nella “passeggiata mattutina”, era contemplare una delle ville che si ergevano ai lati della strada. Erano tutte abitazioni edificate tempo addietro, circa intorno al 1790, utilizzate poi per la maggior parte degli anni successivi solo da una cerchia esclusiva di famiglie molto agiate economicamente; è incredibile come, anche a distanza di secoli, non sia mutato nulla nel naturale ordine della gerarchia.
Ammiravo come, anche dopo tanti periodi d’abbandono, quelle case ostentassero ancora autorità ed ispirassero un muto rispetto, il medesimo che usavo mostrare al mio datore di lavoro, prima degli scandali scoppiati in seguito. Scandali non ancora abbastanza lontani da essere completamente dimenticati. Particolare che più che mai mi causava problemi.
La villa che con più ammirazione osservavo era una delle più grandi e maestose, sebbene anche una delle più rovinate, di Via XI Ottobre. Si ergeva sul lato dei numeri pari, esattamente al civico 14, ed era costruita secondo un’architettura gotica ed ammaliante, seppure un poco angosciosa nei suoi torrioni ed arcate a punta. Il suo nome, lo ricordo chiaramente, era Villa Glicine, un appellativo molto azzeccato, dal momento che numerosi esemplari del profumato rampicante viola infestavano le murature della costruzione, donandole ancora maggiore suggestione. L’aspetto esteriore della villa attirava già di per sé l’attenzione, coi suoi colori slavati e, tuttavia, correttamente abbinati, una caratteristica tipica dei più abili architetti ed operai del Settecento, che coi loro intagli e sculture in pietra, specialmente sui cornicioni delle case, erano soliti attirare l’attenzione generale, lasciando a bocca aperta ogni passante.  
Spesso mi domandavo come potesse essere dentro: ancora arredata, piena di polvere e di offuscati ricordi, pronta ad accogliere nuovi individui da cui ricavare informazioni ed emozioni, per poi lasciarli dissanguare nella meraviglia della sua atmosfera rimbombante d’echi e memoria. Un meraviglioso prospetto, quello di abitarvi; meraviglioso quanto irrealizzabile. Sebbene fosse affisso uno sgargiante cartello di affitto, ero quanto mai certo che i miei fondi da disoccupato non sarebbero mai bastati a coprire la spesa per un luogo simile.
Di mio, peraltro, non sono mai stato un tipo speranzoso. Le esperienze hanno forgiato un carattere più malfidato ed incerto d’un poliziotto, portandomi a perdere la maggior parte delle amicizie per motivi sciocchi ed infondati. Eppure, ho le mie motivazioni a riguardo. Quando persone a cui tieni molto tradiscono la tua fiducia, non c’è bisogno di continuare a donarne a qualsiasi sconosciuto.
Tuttavia, ancora adesso, quando incontro qualcuno tento di apparire disponibile e amichevole, forse sperando in una compagnia differente da quelle passate, che mi faccia cambiare idea sul genere umano e sulla sua crudeltà. Forse le passeggiate mattutine servivano a questo, a farmi credere di poter incontrare qualcuno di simile a me.
Tali erano i miei pensieri quotidiani. Bizzarri, ripetitivi, magari anche malsani nella loro unicità. Eppure non avevo intenzione di mutarli, continuando, forse invano, a sperare che un giorno quella casa misteriosa mi desse il permesso d’abitarla, curiosa quanto me di scoprire il più possibile dell’altro.
 
 
 

 
 
 
 
Un particolare mattino di primavera, venni destato dal prematuro canto di qualche merlo, che giocoso si piazzava sulla mia finestra durante la bella stagione, sperando in molliche  che neppure ero in grado di trovare per me stesso.
Decisi di alzarmi subito, desideroso di percorrere il mio viale di sogni infranti¹ come ogni giorno. Lasciai dunque la caffettiera pronta per essere scaldata sul lavello, ed uscii, ricevendo una sferzata gelida da parte del vento primaverile, che più spiritoso che mai aveva deciso di farmi starnutire di buon’ora. Incredibile come quell’aria frizzantina serva, al contempo, a rinfrescare l’animo ed assopire il buonsenso. Proprio vero che la primavera stordisce.
Mi avviai, sebbene con qualche difficoltà per colpa del gelo, in direzione di Via XI Ottobre, distante circa dieci minuti dal centro della città ed un quarto d’ora dal mio angusto appartamento. È assurdo come si allunghi il passo quando si è impazienti; infatti impiegai molto meno del previsto a giungere all’inizio della strada, che contemplai assorto per qualche istante prima d’iniziare a camminarvi.
Tutto taceva, nei dintorni. Nemmeno un gatto a percorrere quel lungo e taciturno viale, anch’esso spazzato dal vento. In autunno, quando veniva ricoperto da un colorato tappeto di foglie, l’ambiente finiva per apparire ancora più innaturale e, tuttavia, gradevole, luogo perfetto per scrivere poesie. A volte, durante i pomeriggi più sconfortanti, anch’io l’avevo fatto.
Prima il lato dei numeri dispari, poi quello dei numeri pari, ripetei a mente quel mattino.
Un’altra delle mie strampalate abitudini.
Il sole, da poco tornato a sorgere un po’ prima, tingeva d’una sfumatura scarlatta le tegole dei tetti delle ville, che come colossi addormentati sorvegliavano la via dalla loro imponente mole, magari anch’essi impazienti di destarsi per scambiarsi chiacchiere al crepuscolo, quando nessuno fosse rimasto in zona.
Che io sapessi, nessuna delle case era abitata, in quel periodo. Tutta la strada, di per sé emanava in effetti un sottile senso d’abbandono, una specie di tetro particolare in quel paesaggio maestoso, un dettaglio ideato per rovinare l’altresì meraviglia del luogo. Eppure il tutto, se visto alla chiara e limpida luce del mattino, dava solo l’idea di una foto d’epoca, impolverata e dimenticata in qualche anfratto irragiungibile.
Meditando su tali descrizioni, non avevo notato la figura appostata dietro uno degli alberelli decorativi posti a tratti sul marciapiede, che mi osservava celata da un cupo giaccone, quasi come una sentinella del tempo, di quegli spiritelli invisibili che fanno accadere o ritirare sorprendenti eventi. Perciò continuai a camminare in quella direzione, finché non fui a poca distanza dall’individuo, che per tutto il tempo non si era smosso dalla sua posizione.
« Ha puntato una bella villa, sa? » Mormorò una voce profonda e vagamente sarcastica. Quella frase mi fece trasalire, più perché non me l’aspettavo che per altro. Spostai dunque lo sguardo sulla figura, che, notai, era veramente alta. Almeno due metri, se non di più.
Ecco la prova che i giganti, un tempo, abitavano queste terre.
« Come, scusi? »
« Villa Glicine, la più sfarzosa e pretenziosa abitazione che si può osservare in Via XI Ottobre. So che la sta osservando da un po’, signore, e volevo consigliarle vivamente di rivolgersi all’agenzia che l’ha messa in affitto. Un vero affare, sa? Nessuno vuole più questi cimeli, eppure guardarli sotto quest’aspetto lugubre è davvero angosciante, non crede? » Incredibile come uno sconosciuto fosse in grado di leggermi – e soprattutto osservarmi da chissà dove
in quel modo. Mi colpì anche il tono nostalgico utilizzato per enunciare la frase. Annuii appena, ancora diffidente nei confronti di quello scuro spilungone. « Per quel che ne so, l’hanno messa a poco. Vada a chiedere lei, insomma. È un peccato che certe case vengano trattate così; e lei mi sembra il tipo che, invece, potrebbe rivoluzionarne lo stato. » Aggiunta tale enigmatico commento, lo sconosciuto mi osservò in silenzio per qualche momento, forse attendendo un cenno d’assenso che non arrivò. Quindi si voltò in direzione della suddetta villa, osservandola con quello che mi parve un vago senso d’assenza, emozione ch’ero abituato a sentire almeno come l’ossigeno nei polmoni.
Si voltò ancora nella mia direzione, scrutandomi dall’alto dei suoi due metri, chinando infine il capo, forse in cenno di saluto. E si allontanò, ondeggiando appena nella sua enorme stazza, per poi scomparire in un vicolo fra due ville, come non fosse mai apparso.
Rimasi basito in seguito a quel bizzarro incontro, meditando sulle sue parole per cinque minuti buoni. La passeggiata al Parco delle Margherite, mi dissi, avrebbe potuto attendere, mentre andavo a chiedere quantomeno informazioni. E di certo la mia panchina nascosta non l’avrebbe scorta nessuno.
 
 
 

 
 
 
 
Fissato un appuntamento per dare un’occhiata alla villa, incredibilmente prima di quanto avevo immaginato, passai il resto della giornata a riflettere sul da farsi. Per quanto minore del previsto, il prezzo dell’affitto era tuttavia ancora superiore alle mie possibilità. Se l’avessi davvero presa, di certo non avrei avuto più di che mangiare. Dovevo trovare un lavoro, e molto in fretta. Per fortuna, nonostante il periodo d’assoluto isolamento dal resto del mondo, avevo le mie alternative alla disoccupazione, opzioni mai considerate per pura pigrizia e mancanza di zelo, le mie uniche obiettabili debolezze.
Come commesso in un supermercato, nemmeno vollero sentire cos’avevo da dire, rifiutando il mio curriculum con un gesto molto maleducato. Per quanto riguardava l’aiutante in un qualsiasi negozio di vestiario, poi, già solo osservando i loro visi capii che non era aria.
Tutta colpa del dannato scandalo al precedente lavoro, ovviamente! Maledissi quel giorno con ogni briciolo di me, sperando che chi l’aveva causato si stesse oramai rivoltando nella tomba. Anche se gli accaduti risalivano a un periodo davvero precedente a quello di cui sto trattando, nella memoria collettiva era rimasto impresso come un giovane del mio rango e nella mia posizione fosse davvero implicato in un orrore simile. Ma non è il caso di scriverne adesso.
Demotivato dalle prospettive e dai risultati di quella giornata senza senso, ero sul punto di dirigermi di nuovo al mio appartamento, quando un’insegna catturò la mia attenzione: Biblioteca comunale. Non ci avevo proprio pensato.
Perché no? Me ne intendo di libri, in fondo.
Optai quindi per un ultimo, disperato tentativo, aprendo la porta con una flemma degna d’un idiota.
All’interno, il luogo odorava di polvere e vecchia carta, un profumo per me, più che un aroma. Non c’era molta gente, giusto qualche anziano sistemato su un paio di sedie di legno, intento a studiare degli antichi quaderni. Per il resto, era tutto deserto.
Mossi quindi qualche passo incerto in direzione del bancone, su cui una giovane teneva il capo chino, intenta a consultare un probabile dizionario.
« Mi scusi? » La ragazza sussultò, forse sorpresa da una voce a tono ordinario in seguito a tutto il silenzio chiaramente udibile nei dintorni. Dunque mi fissò con aria disponibile ed un leggero sorriso, che mi fece chiazzare le gote d’una sfumatura rossastra.
« Mi dica. E perdoni la mia reazione, non mi aspettavo sarebbe più arrivato nessuno, siamo vicini all’orario di chiusura. » Aveva una voce limpida e dolce, tipica delle donne appena uscite dall’adolescenza; l’aspetto delicato confermava la mia ipotesi.
« Non la tratterrò molto, allora. Senta, volevo sapere se è disponibile un posto come aiutante qui da voi. So che non avete affisso nessun annuncio di ricerca di personale, però... Come dire, mi è necessario un impiego e non so più dove cercare. » Spiegai, con la mia più innocente aria da cane bastonato. La giovane mi squadrò qualche istante, il tempo sufficiente a farmi dubitare della mia presentabilità, per poi recuperare quel lieve sorriso ed annuire un paio di volte.
« Sembra un tipo affidabile, ed in effetti ero combattuta se richiedere davvero aiuto in giro. Di lavoro da fare, qui, ce n’è anche troppo, quindi suppongo che due mani in più saranno solamente utili. » La mia gratitudine per la ragazza, in quel momento, era palpabile.
« Grazie, grazie davvero » Poi, ricordandomi di non averle nemmeno detto il mio nome, aggiunsi « Che sciocco, non mi sono presentato: Lorence Carter, incantato d’aver ottenuto finalmente un lavoro. » Le porsi la mano destra, che strinse piano.
« Linda Weiβ, felice di esserle stata d’aiuto. »
« Che cognome particolare. Tedesco, forse? »
« Esatto, ottima osservazione. Provengo da una famiglia originaria della Germania. Ma è da tanto che non ci vive più nessuno del nostro ramo. »
Notando che avevamo per il momento esaurito i convenevoli e le presentazioni, e vedendo come la ragazza continuasse a gettare occhiate attente al tomo fra le sue mani, decisi ch’era il momento d’andarmene, impaziente più che mai di cominciare il nuovo lavoro.
« Ha detto che stavate per chiudere... Quali sono gli orari e quando posso iniziare? »
« C’è un cartello appeso alla porta d’ingresso con l’ora di apertura e chiusura, può consultarlo ora che esce. E, se vuole, può venire già da domattina. »
La ringraziai ancora, aggiungendo che qualche volta l’avrei invitata a cena, quindi uscii dopo aver dato un’occhiata agli orari, perfetti per rispettare la mia abitudine quotidiana.
Lavorando di buona lena, nel giro di qualche settimana avrei sicuramente ottenuto abbastanza fondi per stabilirmi nella villa dei miei sogni, continuando ad avere di che vivere, magari anche più di prima.
La sola idea di abitare lì, in quel luogo che tanto al lungo avevo bramato, pareva il frutto d’una notte di beati sonni. Sino a una settimana prima, quello era davvero solo un pensiero astratto; invece, a distanza di pochi giorni, stava tramutandosi in materiale realtà. Una realtà che, per quanto bella potesse apparirmi allo sguardo, avrebbe finito per inghiottirmi nella sua estrema particolarità.
 
 
¹ — La frase vuole volutamente richiamare alla canzone "Boulevard of Broken Dreams" dei Green Day. n.d.a








***

Eccoci a scrivere di nuovo fra le Originali!
Ho buttato giù questa bozza e ho pensato che avrei potuto "mostrarla al pubblico". Il rating si alzerà gradualmente, in base alla successiva presenza di scene violente o di sesso.
In ogni caso mi aspetto commenti, cosicché ottenga un minimo d'incitazione a continuare l'operato-!
Grazie a chiunque abbia letto sin qui, un bacio, alla prossima~!

   
 
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