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Autore: Padmini    16/04/2013    6 recensioni
Ciò che Sherlock ha portato nella mia vita è stato l'assurdo, l'abitudine a vivere fuori dagli schemi. Se prima, svegliandomi, sapevo esattamente cosa avrei fatto a qualsiasi ora del giorno, ora non posso più esserne così sicuro. Apro gli occhi e non mi chiedo cosa preparerò per pranzo o se litigherò con una cassa automatica del supermercato. Non posso essere sicuro di ciò che accadrà.
Sono certo dell'incertezza. Può sembrare un ossimoro, una contraddizione in termini, ma è così.
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bene, miei cari.

Sono appena tornata da un bellissimo viaggio a Londra (durante il qualche ho anche potuto ammirare Ben e Martin in tutta la loro bellezza) ed ora sono anche tornata qui, con una nuova storia, la cui idea è nata proprio nella città sul Tamigi.

Non mi resta che augurarvi buona lettura e chiedervi gentilmente, una volta arrivati al termine di queste righe, di dedicare qualche minuto del vostro tempo per dirmi cosa ne pensate.

Ringrazio fin da subito chi deciderà di leggerla.

Kiss

Mini

 

 

 

 

 

 

 

L'isola in mezzo al lago

 

 

 

 

 

 

 

La mia è sempre stata una vita banale, piatta, senza eventi di particolare rilevanza. Fintanto che la vivevo non me ne rendevo conto. Ogni giorno scorreva uguale all'altro. Una processione interminabile di albe e tramonti, distinguibili soltanto dall'alternarsi degli avvenimenti, sempre prevedibili e scontati.

Prima la scuola, l'università, il corso di preparazione per medici militari e infine l'Afghanistan.

Certo, dire che i miei giorni di medico militare erano noiosi può sembrare strano, ma era così.

Non c'era nulla che destasse la mia immaginazione, che stuzzicasse la mia curiosità. Solo un mare di orrore e morte … poi era arrivato lui.

Non avrei mai immaginato che la mia esistenza avrebbe potuto prendere una piega del genere. Non quando risiedevo da parassita in quella triste e vuota stanza nello Strand. Sicuramente vivevo molto meglio di tanta altra gente, costretta a condividere le notti in affollati ostelli o peggio, sotto i ponti di questa città caotica che non trova pace nemmeno dopo il tramontare del sole, ma il silenzio di quelle quattro mura era forse più assordante di ciò che mi circondava.

 

Fu grazie ad un mio vecchio collega che conobbi Sherlock.

Appena lo vidi capii subito che sarebbe nato tra di noi qualcosa di speciale. Non si tratta di amore, questo no. Molti guardandoci fraintendono. Vedono quanto siamo affiatati e pensano che tra di noi ci sia della passione reciproca.

Sì, in effetti quando siamo insieme il mio corpo freme e posso percepire in lui lo stesso tremito di eccitazione, ma non è un sentimento che si rivolge all'altro. La vicinanza alimenta in noi un sentimento diverso. L'amore cresce e si manifesta, ma è amore per l'avventura, per l'insolito e il fuori dall'ordinario.

Ciò che Sherlock ha portato nella mia vita è stato l'assurdo, l'abitudine a vivere fuori dagli schemi. Se prima, svegliandomi, sapevo esattamente cosa avrei fatto a qualsiasi ora del giorno, ora non posso più esserne così sicuro. Apro gli occhi e non mi chiedo cosa preparerò per pranzo o se litigherò con una cassa automatica del supermercato. Non posso essere sicuro di ciò che accadrà.

Sono certo dell'incertezza. Può sembrare un ossimoro, una contraddizione in termini, ma è così. Con Sherlock la veglia è pregna di sorprese e cose inaspettate, che cervello umano non può concepire né prevedere.

Inseguiremo un assassino? Ci faremo quasi uccidere da un pazzo dinamitardo? Prenderemo in giro Anderson fingendo che Sherlock sia un vampiro? Nessun agente di Scotland Yard può vantare la quantità di avventure strane che ci capitano. Nessun detective privato. Nessuno.

Tutti conoscono Sherlock e sanno che ama l'insolito, lo stravagante. Per questo tutti gli svitati e i pazzi passano da noi. Spesso si tratta di montati con storie assurde, ma altrettante volte ospitiamo persone con esperienze vere che ci permettono di vivere avventure fuori dal comune.

Ormai non so più nemmeno dare un significato alla parola 'strano'. Cosa vuol dire? Per me è più strana una signora che va a fare la spesa con un carrellino piuttosto che un vecchio che viene a raccontarci delle sue vicissitudini con una fantomatica 'Lega dei capelli rossi'.

Normale è ciò che riempie la nostra vita. Per me la normalità è la non normalità.

Sherlock è strano e rende uguale a lui la vita di chi lo circonda. Un turbine di colori bizzarri che accompagnano le mie giornate

Sono sempre stato certo di ciò. Eppure il mio straordinario coinquilino ha trovato il modo di sorprendermi ancora una volta. Se fino a qualche tempo fa ero sicuro che la mia vita fosse strana solo durante il giorno, lui mi ha fatto ricredere anche su questa minima certezza.

Ha fatto crollare anche l'ultima barriera che mi proteggeva da lui e dalla sua travolgente personalità. Ha invaso anche l'angolo più intimo e nascosto della mia anima, riempiendolo di sé.

Se devo essere onesto non so quanto di ciò che mi è accaduto e che continua a succedermi sia da attribuire a lui. No, non è possibile. Per quanto si sia dimostrato sveglio e intelligente sopra la media, dubito che possieda poteri tali da influenzarmi a tal punto.

Molto più probabilmente sono io che creo tutto questo. È la mia suggestione e niente di più. Eppure, credo che ci sia molto del suo.

Può essere che dipenda dal mio viscerale desiderio di comprenderlo, di capire cosa ci sia in quella mente geniale che lo contraddistingue perché, nonostante l'intimità che mi lega a lui, percepisco tra di noi una certa distanza, una barriera che lui erige per difendersi dal mondo esterno. Con gli altri si tratta sicuramente di un muro di mattoni, che impedisce la visuale. Ciò che io vedo è un sottile strato di carta velina che, pur facendomi vedere qualcosa, mantiene tutto sfocato e indecifrabile.

Posso intuire delle ombre, posso farmi delle idee in merito alla sua personalità e ai suoi pensieri e sentimenti, ma subito dopo vengo smentito. Sarà il desiderio di sfondare quest'ultima barriera a farmi creare queste immagini?

Man mano che passano i giorni mi rendo conto di aver pensato di lui una marea di assurdità. Non l'ho mai veramente compreso e le sue verità vengono a galla man mano, come stelle che appaiono lentamente da dietro le nubi di un cielo prima tempestoso, che si apre pian piano a illuminare la terra. Piccole intuizioni, indizi che mi vengono dati e che, nell'insieme, disegnano un quadro completo. Mi chiedo se riuscirò mai a vederlo.

Chiaramente tutto questo non avviene in maniera conscia. Le informazioni che raccolgo di giorno, direttamente o indirettamente, vengono elaborate dalla mia mente e trasformate in qualcosa di diverso, di … poetico.

Forse la mia vena di scrittore, che ignoravo di possedere da quando ho iniziato a raccontare le avventure che vivo con Sherlock, mi aiuta a inventarmi scenari impossibili, metafore della sua vita che, puntualmente, vengono a trovarmi in sogno.

 

 

Tutto cominciò una sera. Eravamo appena tornati da Dartmoore e risentivo ancora di quelle misteriose droghe che ci avevano offuscato la vista. Sherlock, contrariamente al solito, era attivo e vigile. Andava avanti e indietro per la stanza come se stesse sui carboni ardenti e non si dava pace.

Mi veniva da ridere a vederlo così. Era estremamente buffo con quella sua veste da camera svolazzante e si mordicchiava le unghie, come se fosse in attesa di qualcosa o fosse ancora sotto l'effetto di quegli strani gas e volesse smaltirli, scacciando chissà quali immagini spaventose.

Io cercavo di rilassarmi, leggendo un articolo di medicina, ma la sua vitalità era snervante. Dovevo trovargli un'occupazione o mi sarebbe venuto il mal di mare vedendolo passarmi davanti in continuazione mentre faceva la spola dalla porta alla finestra e dal divano al caminetto.

“Sherlock, ora basta per favore” gli dissi infine, esasperato “Non puoi stare tranquillo?”

“Tranquillo?” mi domandò lui “Tranquillo?! Come potrei stare tranquillo? Mi annoio!”

Risi di lui. Sembrava un bambino capriccioso.

“Perché non suoni un po' il violino?” gli proposi “Mi farebbe piacere sentirti suonare. Qualsiasi cosa tu voglia. Ti prego ...”

Lo guardai con la stessa espressione che lui stesso usa con me quando vuole qualcosa, così dovette cedere. Sospirò e andò verso la sua poltrona dove, adagiato nella nera custodia, stava il suo Stradivari. Lo prese e con un elegante gesto lo posizionò sotto il mento. Aggiustò la posizione e afferrò alla cieca l'archetto, poi fece qualche passo verso la finestra e iniziò a suonare.

Inizialmente accordò lo strumento e ci volle qualche minuto prima che suonasse qualcosa di comprensibile, ma quando si rilassò e trovò la sua melodia, la stanza fu invasa dalle note di un dolce brano ipnotico.

Non avevo mai sentito nulla del genere. Era una musica dolce ma non smielata. Soave ma allo stesso tempo decisa e vibrante. Lo guardai. Aveva gli occhi chiusi e il suo corpo vibrava come le corde del violino che stava sfiorando con il crine lucido dell'archetto. Sembrava turbato o, in ogni caso, molto emozionato. La sua figura era tesa verso vette di inimmaginabili piaceri o terrificanti incubi. Non avrei saputo dirlo.

Ciò che sapevo era che mi stava coinvolgendo in tutto quello. Mi sentivo stranamente empatico nei suoi confronti come se la musica, prendendo vita e diventando solida davanti ai miei occhi, desse forma ai suoi pensieri e alle sue sensazioni. L'aria ne era pregna. Chiusi gli occhi, sopraffatto. Mi lasciai cullare da quelle note e ben presto caddi addormentato.

 

L'oblio del sonno mi avvolse in pochi istanti, come una nebbia densa e soffocante, ma ben presto si diradò, introducendomi al sogno.

Confesso che in quel momento ebbi paura. Gli unici sogni di cui ero pienamente cosciente riguardavano l'Afghanistan, perciò ebbi terrore che nuove terrificanti immagini potessero prendere vita nella mia mente.

Ero ancora seduto in poltrona, ma non mi trovavo più nel salotto del 221 B.

Mi guardai attorno. Ero in un boschetto. La luce color albicocca del sole al tramonto filtrava appena dalle foglie dei noccioli. Mi alzai e decisi di cercare di uscire dal bosco prima che fosse troppo tardi. Dopo qualche minuto sentii lo sciabordio delle onde sulla costa.

Mi avvicinai.

Le ombre erano ormai lunghe e le ultime scintille di luce stavano smettendo di brillare sulla superficie liscia di un lago, la cui acqua lambiva una costa acciottolata. Il rumore della risacca mi rilassò a tal punto che non mi accorsi che accanto a me erano comparse due persone.

Mi resi conto della loro presenza quando i loro passi smossero i sassi della riva, producendo un suono ruvido e umido d'acqua.

Mi volsi e riconobbi Anderson, raggiunto subito da Sally Donovan. Mi spaventai. Cosa ci facevano loro due lì? Non tentai nemmeno di indovinare. Semplicemente glielo chiesi.

“Cosa diavolo ci fate voi due qui? Perché vi sto sognando?”

Non risposero subito. Si avvicinarono all'acqua e Sally alzò un braccio e mi indicò l'orizzonte, così vidi ciò che prima non avevo notato.

Non molto lontano da noi sorgeva un'isola, completamente avvolta dalla foresta. Tra gli alberi, fitti e apparentemente impenetrabili, sorgevano le guglie di un enorme castello. Non feci in tempo a fare altre domande, che Anderson fece qualche passo nel bagnasciuga, immergendosi fino alle caviglie. Stava cercando di raggiungere una piccola imbarcazione che galleggiava a pochi metri da lui. La corda alla quale era fissata ondeggiava in superficie, mossa da lievi onde. Lo vidi allungare il braccio per raccoglierla. Accanto a me Sally fremeva per l'emozione.

Fu un istante.

Un tentacolo gigantesco emerse dai flutti e afferrò Anderson per la vita. L'uomo non fece in tempo né ad urlare né ad afferrare la corda né per attirare a sé la barca né per salvarsi. La creatura che l'aveva afferrato lo sollevò ancora di più e lo fece cadere bruscamente tra i sassi della riva.

Donovan si affiancò a lui per soccorrerlo, ma a quanto pareva non si era fatto nulla di male. Si alzò a fatica e si avvicinò nuovamente al lago, guardando il tentacolo che, nel frattempo, si stava ritirando nelle acque che si stavano facendo sempre più scure, come il cielo sopra di noi.

Si mise una mano in tasca e tese l'altro braccio per attirare a sé Donovan che lo aveva raggiunto. Improvvisamente parlò.

“Da anni cerchiamo di raggiungere quell'isola” disse tristemente “Ne siamo attirati e lì c'è la barca” aggiunse indicando nuovamente la piccola imbarcazione “Ma ad ogni nostro tentativo di attraversare il lago, veniamo scaraventati via da quel mostro ...”

Non sapevo perché ma anch'io, come loro, ero attratto da quel luogo. Feci qualche passo verso la barca, ma Sally mi fermò, tenendomi per un braccio.

“Non lo faccia, dottore” mi disse “Verrà respinto come noi … non sembra ma è doloroso”

La osservai. Stringeva convulsamente il mio braccio e sul suo viso intuii rabbia, frustrazione e intenso dolore. Sembrava triste di non poter andar oltre quella ruvida spiaggia ma al tempo stesso provava rancore. Anche Anderson, al suo fianco, era animato da sentimenti negativi che percepivo chiaramente.

La ignorai. Il mio istinto mi diceva che non avrei sofferto come loro, che ce l'avrei fatta. Mi liberai bruscamente dalla presa di lei e mi avviai verso il lago. Avevo mosso pochi passi, quando la corda uscì completamente dall'acqua e si palesò in tutta la sua lunghezza. Non dovetti fare altro che afferrarla e attirare la barca verso di me.

Nessun tentacolo di levò dai flutti. Nessun mostro mi respinse. Tirai la corda e avvicinai la barca alla riva. Quando fui sicuro di poter salire senza problemi, mi volsi verso i due che stavano alle mie spalle. Salii a bordo e gli feci cenno di fare altrettanto, ma quando Sally accennò un passo, si levò una colonna di fiamme, che ci divise per qualche istante. Quando il fuoco sparì, vidi il terrore negli occhi dei due. Li osservai per qualche istante, poi mi voltai verso l'isola e decisi di proseguire il viaggio. Cercai i remi a bordo e, una volta fissati, iniziai a remare. Era più facile del previsto e dopo poco raggiunsi un'altra costa, quella dell'isoletta in mezzo al lago.

Non era tanto diversa da quella che avevo abbandonato dalla quale, ancora irosi e risentiti, mi osservavano Donovan e Anderson. Li ignorai e mi addentrai nel bosco.

Ormai era scesa la notte e avevo un po' di paura ad attraversare quella distesa fitta di alberi, ma al mio passaggio si levarono, come apparse dal nulla, centinaia di lucciole, che mi fecero strada attraverso quel groviglio di tronchi e rami, dai quali si levavano di tanto in tanto rumori sconosciuti, versi di animali nascosti nell'oscurità.

Non so per quanto tempo camminai. Di tanto in tanto, attraverso le fronde, potevo scorgere parti lontane del castello che avevo già visto. Più mi avvicinavo e più questo sembrava allontanarsi ma, nonostante la fatica, decisi di proseguire.

Quando finalmente gli alberi si diradarono giunsi in una radura illuminata da alcune torce. Era uno spazio abbastanza ampio e respirai profondamente l'aria libera di quel luogo, non più ostacolata dall'oppressione della foresta. In quel momento le lucciole si dispersero e ritornarono al loro luogo d'origine. Mi voltai per osservarle mentre tornavano a nascondersi tra le foglie, poi proseguii il mio cammino.

La radura era ampia e piatta. Mi rammentai in quel momento del castello e sollevai lo sguardo.

Lo vidi.

Era lì, di fronte a me.

Alte mura si stagliavano davanti ai miei occhi, spesse e solenni. Erano le mura di un gigantesco palazzo. Anche da lì potevo intuirne la maestosità. Era un castello antico e gelosamente custodito da quegli ostacoli che io, con estrema sorpresa, ero riuscito a superare con tanta facilità.

Percepii sensibilmente la sacralità di quel luogo e ciò mi fece rabbrividire. Sussurri, come echi lontani, mi circondarono. Erano voci inconsistenti e incoerenti, ma sentivo che mi stavano invitando ad entrare.

Esitai. Avevo superato la prova del lago e anche la foresta mi aveva guidato verso quel luogo e anche ora sentivo che qualcosa o qualcuno mi stava chiamando. In quel momento vissi un dejà vu. Avevo già sperimentato quella sensazione, la paura di compiere un passo che, lo sapevo, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

Come quella volta, quando Sherlock Holmes mi invitò a seguirlo nel caso dei suicidi, mi sentivo in bilico tra la stabilità e il desiderio d'avventura.

L'esitazione non durò che qualche istante. Con passi decisi mi diressi verso l'imponente portone di legno scuro, sul quale rilucevano due battenti. Non erano semplici anelli di metallo. Erano grandi lettere d'oro che, rincorrendosi in un circolo, formavano le parole MIND PALACE.

Ne presi uno con mano tremante e lo sollevai lentamente. Era spesso e pesante. Lo alzai quanto bastò, poi mi scivolò dalle dita e andò ad abbattersi sull'ebano del portone con un rumore sordo che riecheggiò attorno a me, facendomi sobbalzare.

Indietreggiai di qualche passo e rimasi in ascolto. L'eco di quel suono si stava già spegnendo all'orizzonte, quando percepii il rumore discreto di passi che si avvicinavano dall'interno del palazzo.

Il portone si aprì lentamente gemendo sui cardini e la luce di una lampada illuminò il viso di chi mi stava accogliendo. Con mia somma sorpresa riconobbi la signora Hudson.

“Benvenuto, dottor Watson. La stavo aspettando”

   
 
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