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Autore: WinterRose    16/04/2013    2 recensioni
Eric, ragazzo apparentemente privo di qualità eccetto che per un corpo da urlo, e Kathrine, ragazza studiosa, matura e responsabile, si conoscono praticamente da sempre; peccato che non si sopportino a vicenda e che i rispettivi genitori vogliano che i due ragazzi si sposino. Ma le cose possono sempre cambiare giusto? Umorismo, ironia, gelosia e tanto, tanto amore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ciao ragazze!

Dunque ho cercato di aggiornare il prima possibile anche se alla fine comunque ho ritardato di qualche giorno; spero mi perdoniate ;)
Questo capitolo è triste, lo ammetto, ma purtroppo prima o poi dovevo scriverlo.
Ringrazio
gasparella,  Smiler_4_Ever e oana_1995 che almeno mi hanno tirato un po' su con i loro commenti, grazie ragazze :)
Poiché si tratta di un capitolo particolare mi farebbe piacere se esprimeste la vostra opinione anche se è negativa; poi chi se la sente può anche scrivere riguardo la vicenda o i personaggi: quali vi piacciono quali meno, come vorreste che andasse a finire... insomma queste cose :)
Vi lascio al capitolo.
Buona lettura e alla prossima settimana

Baci <3
WinterRose

 


Fiori strappati

 

He was always there to help her

she always belonged to someone else”

(She will be loved, Maroon 5)

 

 

 

 

Kathrine ringraziò il cielo quando, entrando in casa Wood, trovò soltanto Diane indaffarata con la cena. “Non so dove sia quel combina guai. Sarà a qualche allenamento” aveva detto. Kathrine aveva espresso tutto il suo dispiacere per l'assenza del primogenito Wood e aveva informato la donna che quella sera non avrebbe cenato perché si sentiva terribilmente stanca.

Una volta in camera il suo sguardo si era posato sul libro di biologia di Eric completamente aggiustato. Doveva trovare l'occasione giusta per darglielo. Magari in presenza dei suoi genitori: sicuramente Eric non avrebbe osato fare riferimenti a quel pomeriggio. O almeno non espliciti. Prese il libro e iniziò a sfogliarlo; niente appunti. Ogni tanto qualche commento scritto a penna- a penna!- tipicamente maschile accanto a immagini e illustrazioni; oppure ritratti di scienziati e scienziate a cui erano stati aggiunti baffi, brufoli e altri particolari -sempre a penna!- poco gradevoli; conversazioni quasi illeggibili tra lui e James, anche queste farcite di volgarità. Sebbene fossero cose in sé poco apprezzabili, specialmente da una come Kathrine, si ritrovò a sorridere. Erano tutte cose che, per quanto fossero da correggere, facevano parte di lui, di quell'Eric impulsivo, sarcastico, superficiale e donnaiolo. Dello stesso Eric che si era preoccupato per lei perché vestita troppo leggera, di quell'Eric che l'aveva chiamata per nome e aveva ascoltato la musica insieme a lei, o ancora di quell'Eric che la stava per baciare.

Le venne in mente che doveva chiamare Jessica e informarla di tutto, forse le sarebbe stata d'aiuto, le avrebbe dato qualche consiglio su come comportarsi. Jessica era la sua migliore amica, anche se a volte era del tutto priva di tatto: delle volte finiva col peggiorare la situazione anziché migliorarla, ma Kathrine la giustificava sapendo che non lo faceva di proposito. Come quella volta che l'aveva obbligata davanti a tutta la classe di storia a raccontare le origini della sua famiglia, oppure quando l'aveva costretta ad uscire per una serata con un suo amico che le sbavava dietro come un cagnolino di fronte ad pezzo di carne, nonostante sapesse che Kathrine, il ragazzo in questione, non se lo filava proprio. Certo un bravissimo ragazzo, gentile e sempre disponibile ma non c'era quella scintilla...

Proprio in quel momento i cellulare squillò, sul display comparve il nome dell'amica:

<< Pronto >> disse sdraiandosi supina sul letto di Eric con voce lamentosa:

<< Come va tesoro? >> la voce di Jessica dall'altra parte del telefono sembrava più squillante del solito:

<< Che c'è Jess? >> chiese girandosi su un fianco.

<< Ma niente, niente. Sono io che ti ho fatto per prima una domanda >>

<< Non lo senti dalla mia voce? >> Calcò ancora di più l'accento di disperazione nel suo tono.

In effetti stava facendo un po' la melodrammatica, mentre cercava di imitare quelle ragazze dei telefilm afflitte da dilemmi amorosi; sdrammatizzava un po' le cose, sembrava qualcosa di irreale, qualcosa che le facesse apparire tutto come una una recita, una farsa: il tono e l'espressione erano perfetti, i gesti pure, persino le risposte di Jessica lo erano. Peccato per un piccolo particolare: che tutto ciò era successo davvero, altro che finzione. Tuttavia Kathrine ancora lottava con la parte razionale di sé per non giungere una volta per tutte a quell'indiscutibile conclusione. Jessica, cosa che la lasciò di stucco, non si stupì affatto della notizia. Aveva detto che se l'aspettava.

Possibile che fosse così prevedibile? E se anche fosse stato, come era possibile che non ci fosse arrivata da sola? Il cervello di Kathrine fumava impazzito, elaborando ipotesi che venivano subito scartate una dopo l'altra. Jessica sosteneva che doveva parlargli. E cosa gli avrebbe dovuto dire? Era un circolo vizioso, senza né capo né fine. Si disse che sarebbe impazzita prima o poi. Impazzita con l'immagine di Eric che le balenava nella mente, che popolava i suoi sogni e i suoi desideri.

A quest'ultimo pensiero le venne improvvisamente la gola secca. Acqua, acqua, acqua.

Sapeva che Eric era giù. Lo sentiva dalla televisione accesa.

Per quanto l'avrebbe aspettata? Un'ora? Due? Tutta la notte?

Forse Jessica aveva ragione: avrebbe dovuto affrontarlo prima o poi (così come sarebbe dovuta diventare pazza, anche se in questo caso preferiva decisamente il “poi”).

Quella notte, alla fine, decise di non scendere al piano di sotto, ma di accontentarsi dell'acqua del rubinetto, per quanto potesse avere un sapore strano, quasi di cloro.

La mattina successiva, una volta sveglia Kathrine si ricordò di avere “un'uscita da amici”- chiamiamola così- con Sean. L'appuntamento era alle dieci del mattino davanti casa Wood. Tuttavia, la sera precedente, aveva gentilmente chiesto al ragazzo di spostare l'orario alle nove, sicura che sarebbe stato troppo presto per incontrare Eric nel piccolo tragitto che la separava dalla porta di ingresso.

Be' dovette ricredersi quando, proprio nel momento in cui aveva abbassato la maniglia della porta d'ingresso, si sentì trascinata per la vita. Non ebbe bisogno di girarsi per capire chi l'avesse presa con tanta irruenza. Non appena fu scaricata in salotto, libera dalle mani di Eric, sentì la porta di vetro chiudersi con forza dietro di sé: non lo reputò affatto un buon segno.

Kathrine stava in piedi, appoggiata al muro più lontano della stanza, immobile con lo sguardo basso, come un bambino che sa di aver infranto una regola e si aspetta da un momento la paternale da parte dei genitori sapendo che provare a difendersi non sarebbe servito a nulla: sapeva che se avesse aperto bocca non sarebbe uscito alcun suono, avrebbe solamente peggiorato le cose.

L'orologio a cucù segnò le nove.

L'appuntamento con Sean in quel momento non le attraversò per nulla la mente. Solo dopo che la lancetta dei secondi ebbe compiuto un intero giro, Eric si decise a parlare e Kathrine ad alzare lo sguardo verso di lui:

<< Dove stavi andando? >>

L'espressione del volto era dura, la mascella tesa, le sopracciglia aggrottate. Sembrava sottintesa l'espressione “pensavi di sfuggirmi”, ma questa era soltanto una supposizione di Kathrine.

<< Non sono affari che ti riguardano >> la sua voce risuonò meno sicura di quanto avesse voluto.

Era come trovarsi in un treno che corre ad alta velocità verso un dirupo. Le soluzioni possibili erano rimanere nel treno e attendere il momento in cui sarebbe caduto nel vuoto o gettarsi fuori da esso mentre era ancora in corsa. Ad ogni secondo che passava sembrava che il baratro della sconfitta si avvicinasse sempre di più. Entrambe le possibilità non prevedevano un'uscita tale da rimanere illesi.

Eric scoppiò in una risata di scherno:

<< Ah, sono affari che non mi riguardano, Bennet? >> mosse un passo verso di lei<< Io non penso proprio >>

Si fermò a un passo da lei bloccandole ogni via d'uscita. Kathrine allora adoperò l'unico asso nella manica che le rimaneva, sperando che riuscisse a far presa su Eric. Era difficile, certo, ma dopotutto sembrava essere cambiato. Forse se avesse fatto leva sul sua sensibilità, l'avrebbe lasciata andare:

<< Ti prego, Eric, devo andare. Sono in ritardo >>

Ci mise tutta la sincerità, tutto il cuore, tutta la gentilezza possibili, ma dalla reazione del ragazzo, dedusse che non era servito a niente:

<< In ritardo per cosa? >> La mano si appoggiò sul muro, a pochi centimetri dal viso di Kathrine.

Stava andando tutto storto. Il tempo passava, Sean forse era già arrivato, Eric non voleva darle retta, ed era troppo vicino. Troppo. Il limite del consentito era stato superato da un pezzo ma la ragazza non riusciva a muovere un singolo muscolo, forse non voleva neanche.

<< Allora, Bennet? >> chiese alzando un sopracciglio.

Era talmente vicino che sentiva il profumo del suo respiro. Menta, tabacco e qualcos'altro.

Anche l'altra mano andò a finire sul muro.

Eppure Kathrine non si sentì imprigionata. No. Si sentiva al sicuro tra quelle sbarre che erano le sue braccia, quelle sbarre che le impedivano di allontanarsi da lui. Dal suo respiro.

Ancora menta, tabacco e qualcos'altro.

Qualcuno suonò al campanello.

<< Avanti, è aperto >> esclamò il ragazzo aprendosi in un sorriso sardonico.

Kathrine sentì il sangue gelarsi nelle vene. Sean sarebbe entrato da un momento all'altro. Eric, da parte sua, non aveva distolto un attimo lo sguardo dal suo. Fissava quegli occhi grandi, marroni, terrorizzati che lo supplicavano. Lo supplicavano di lasciarla andare via, via da lui, ovviamente. Lui distruggeva chiunque entrasse in contatto con lui, e avrebbe fatto così anche con lei, se avesse continuato. Avrebbe reciso quel fiore delicato e appena sbocciato, l'avrebbe strappato per ammirarlo, per contemplarlo, non avrebbe potuto fare altrimenti. Lasciarla andare? Era l'unica soluzione o l'avrebbe visto afflosciarsi, perdere colore e vitalità, quelle caratteristiche che lo rendevano diverso dagli altri, l'avrebbe visto appassire lentamente tra le sue mani.

Eric si girò verso l'ingresso quando sentì la porta del salotto aprirsi lasciando entrare la figura di Sean Burke con in mano un mazzo di rose.

In un momento tutto gli fu chiaro.

Bastò riportare lo sguardo sulla ragazza per capire tutto.

Vestita sempre elegante, uscite ogni giorno, risposte allusive. Aveva fatto il doppio gioco da allora. L'aveva ingannato.

Brava Bennet.

Una collera improvvisa iniziò a divampare nel suo petto. Il ragazzo bruno gliela stava portando via. Il ragazzo bruno cercava di proteggere quel fiore, non voleva che fosse strappato, e dopo averlo salvato l'avrebbe tenuto in un vaso per sempre.

L'avrebbe visto appassire lentamente tra le sue mani.

Meglio nelle sue mani che in quelle di qualcun altro.

<< Ho interrotto qualcosa? >> Sean pareva infastidito, sulla soglia della porta.

<< No, assolutamente no, Sean >> La Bennet pareva disperata. Cercavo con lo sguardo quello dell'altro, lo voleva rassicurare, voleva dirgli che tra lei e quel tipo biondo che la teneva stretta nella sua morsa non c'era niente.

<< Oh no, Burke, no. Non hai interrotto nulla. Io e lei stavamo solo parlando >>

ironizzò il biondo.

Portò per un attimo di nuovo il suo sguardo in quello della Bennet. Quegli occhi da cerbiatto lo guardavano spauriti, attendendo la stoccata finale, ma contemporaneamente gli rivolgevano un'ultima muta preghiera. Si disse che quella forse sarebbe stata l'ultima volta che li avrebbe visti da così vicino. Poi si girò di nuovo verso il ragazzo bruno e afferrando Kathrine per un braccio la spinse con forza verso di lui:

<< Tieni, Burke, tutta tua. Anche se ti darò un consiglio, non mi fiderei troppo. Finisci per rimanerne scottato >> commentò duro.

Kathrine sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime mentre Eric pronunciava quelle parole guardandola con sprezzo.

<< No... >>

La voce le si ruppe una volta. Guardò il biondo negli occhi: voleva dirgli che non era vero, che aveva frainteso, che le era piombato addosso tutto troppo velocemente. Che lei non era così.

Eric non si scomponeva. Non la guardò neanche negli occhi mentre le passava accanto sfiorando il braccio con il suo.

Un attimo dopo non c'era più. Se n'era andato lasciandola con Sean ancora sulla soglia del salotto. Kathrine non aveva la forza né la volontà di girarsi verso di lui e di mostrargli il viso rigato di lacrime che erano scese senza che lei se ne accorgesse affatto:

<< Penso che sia meglio che io tolga il disturbo >>

Fermalo, si disse a se stessa, non permettergli di lasciarti.

Ma si disse anche che non aveva senso. Sean non era Eric. Non le faceva battere forte il cuore, non la faceva sentire protetta, non la faceva arrossire ogni volta che la fissava. Perché, perché non provava le stesse cose con Sean? Lui avrebbe preso un pallottola al posto suo, l'avrebbe adorata, le avrebbe dato il mondo. E non era forse questo ciò che voleva sin da bambina? Un ragazzo carino, dolce e intelligente che le portasse un mazzo di rose senza una ragione precisa? E lei ce l'aveva lì, a pochi passi da lei, un ragazzo che sarebbe potuto diventare il principe azzurro che aveva sempre sognato se solo l'avesse fermato. Ma non lo stava facendo.

<< Queste sarebbero dovute essere per te >> Sentì le rose che venivano adagiate delicatamente a terra.

Non lo fermava perché era stupida. Perché Sean non era Eric. Perché le piaceva la persona sbagliata, il ragazzo egoista, menefreghista e superficiale che era Eric. Quell'Eric che non le avrebbe mai portato dei fiori, che non avrebbe mai avuto il coraggio di dirle qualcosa di dolce, che l'aveva distrutta pochi istanti prima. Eppure ancora si ostinava a rimanergli attaccata, con quella poca forza che le rimaneva, come l'ultimo petalo di un fiore appassito che non vuole staccarsi perché farlo significherebbe morire per sempre:

<< Allora ci vediamo, eh? >>

Lei non lo fermò. In un men che non si dica entrambi la lasciarono da sola con le sue lacrime e con le sue rose strappate.

 

 

 

Per il resto della giornata Eric non si fece vivo. Per la prima volta da quando era arrivata a casa Wood non cercò di evitare il ragazzo, anzi desiderò ardentemente di incontrarlo per casa: stette diverse ore in salotto fingendo di leggere un libro, nell'ora di pranzo si trasferì sulle scale a chiocciola in modo tale da avere una visuale perfetta sulla porta d'ingresso, poi nuovamente in salotto. Tuttavia non si trattò di una giornata completamente sprecata: certo, non finì Guerra e pace né parlò con Jessica o con i suoi, che peraltro sarebbero venuti a prenderla la sera del giorno stesso, ma ebbe occasione di calmarsi e pensare lucidamente a come si sarebbe dovuta comportare con Eric: non glielo avrebbe detto, le possibilità di rischio erano troppo alte e semplicemente non aveva il coraggio di farlo. In compenso, però, decise che glielo avrebbe fatto capire con quei piccoli gesti e attenzioni di ogni giorno: un sorriso, un buffetto sul braccio, un complimento celato dalla timidezza; avrebbe smesso di frequentare Sean, di illuderlo che un giorno tra loro ci sarebbe potuto essere qualcosa di più: inizialmente non credeva che a lui interessasse così tanto la propria compagnia, non aveva pensato che il ragazzo avrebbe voluto passare alla fase successiva, come la chiamava lei. O forse, in fondo, sapeva come sarebbero andate le cose e voleva solamente avere la possibilità di essere corteggiata, di essere riempita di tutte quelle piccole attenzioni che la facevano sentire importante: un messaggio prima di andare a dormire, un apprezzamento sulla sua persona, una carezza appena accennata sul braccio. Anche lei era come tutte le altre ragazze alla fine, aveva concluso: anche se il suo rendimento scolastico era superiore alla media e anche se era più sensibile e sotto alcuni aspetti più matura delle altre era come loro. La sua vanità l'aveva spinta a frequentare Sean perché, per una buona volta, voleva che qualcuno le dimostrasse quanto fosse speciale, che non era un alieno proveniente da chissà quale pianeta, qualche cosa di indefinito e pericoloso: Sean l'aveva fatto, l'aveva fatta sentire felice perché qualcuno si era interessato a lei non per compiti in classe o altro. E non aveva saputo resistere alla sua gentilezza, alle sue maniere così vicine all'idea di perfezione che portava dentro di sé; ma non si era accorta che quella, alla fine, non era la perfezione a cui stava correndo dietro. Se ne era resa conto troppo tardi e aveva fatto soffrire entrambi. Ma avrebbe rimediato, sì, avrebbe detto a Sean come stavano le cose, gli avrebbe chiesto scusa e avrebbe accettato le cose come sarebbero andate. Dopotutto il mondo non era una favola: si era innamorata del ragazzo che non corrispondeva a quelli che erano sempre stati i suoi standard; e certamente la possibile relazione che ne sarebbe potuta derivare sarebbe stata ben lontana da quella che si era sempre immaginata, distante da quel ritratto idilliaco che prima di lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo le invadeva la mente. Ma era così, no? Bisognava giungere a compromessi con la realtà perché non si poteva ottenere tutto ciò che si voleva nella vita. Una volta aveva detto che non si sarebbe arresa che avrebbe lottato per la sua libertà; allora non era innamorata di lui, non avrebbe voluto sprecare una singola giornata della sua vita con lui; ora però le cose erano cambiate. Si sarebbe volentieri accontentata di Eric se l'avesse mai sposato e anche se lui non le avesse mai mandato un messaggio prima di andare a dormire, se non le avesse mai detto un apprezzamento sulla sua persona o una carezza appena accennata sul braccio avrebbe sopportato in silenzio perché almeno avrebbe potuto passare la sua vita con la persona che amava anche se non era la persona giusta. E magari, ma questa era solo una remota possibilità, se lui avesse iniziato a provare un qualche sentimento vero e proprio nei suoi confronti, se gli fosse stata a cuore la sua felicità, allora lo avrebbe indirizzato pian piano sulla strada giusta e avrebbe cercato di fargli capire che qualche gesto esplicito di affetto avrebbe potuto renderla ancora più felice.

Si disse che avrebbe fatto così.

Intanto l'attesa si stava facendo sempre più insopportabile, l'ansia che l'aveva presa nel momento stesso in cui Eric aveva lasciato la casa la stava divorando sempre più, rendendola nervosa, impaziente. Ogni volta che sentiva un rumore provenire dalla strada si rizzava velocemente in piedi, lisciandosi più volte i vestiti; una strana sensazione si impadroniva di lei, un senso di angoscia mista a speranza che le scombussolavano lo stomaco. Solo col passare dei secondi la sensazione degenerava, lasciando dietro di sé delusione e abbattimento. Più volte la scena si ripeté nella giornata fino a quando, alle sette di sera, stanca di quella tensione e inquietudine che le turbavano l'anima, si chiuse in camera propria per preparare le valige. Considerò anche quello un errore perché non fece che peggiorare le cose: i vestiti, i poster, le foto, le coppe, tutto le sbatteva con prepotenza in faccia il volto del ragazzo che la guardava con disprezzo. Pregò con tutto il cuore che non fosse tutto andato perduto.

E poi aspettò. Aspettò che lui venisse prima dei genitori, che venisse a salutarla. Visse così quelle ultime ore prima del ritorno di Diane Wood e dei signori Bennet, in attesa che fosse lui a venire da lei, come testimonianza che dopotutto credeva ancora in lei, credeva nel loro rapporto.

Quando i genitori suonarono il campanello e si precipitarono tra le braccia della figlia lui non c'era. Con amarezza Kathrine pensò che lui non era venuto per lei.

  
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