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Autore: Socrate12    16/04/2013    0 recensioni
Un'eroe di guerra, addolorato dalla morte di sua moglie si impicca in una quercia nel giardino di casa sua. Solo nella vita, senza familiari, la sua casa passa in possesso del comune, cosi come il suo funerale viene organizzato dallo stesso ente nella settecentesca chiesa di San Tommaso, dove un prete analfabeta svolge la santa messa. Periodo storico reale fine prima guerra mondiale. Breve descrizione del contesto cittadino, differenziamenti tra alta e bassa società.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Era stata una lunga notte, una notte piena di dolore fisico e psichico, si dimenava sotto il piumone come un dannato, come un'anima infernale deciso a colpire la sua preda, intento a rubare una vita. Appena alzato si strizzò gli occhi e si ritirò in bagno, si sedette sulla tazza del water e si accese una sigaretta, come faceva ogni singolo giorno per riprendersi dal sonno e dalla voglia di tornare sotto le coperte, e riuscire per una volta a dormire. L'aria al di fuori era gelida. Dalle lunghe porte-finestre si intravedevano dei ghiaccioli lunghi una decina di centimetri ma niente neve. Era cosi fredda quella mattina che i panni stesi fuori dal cortile erano diventati pezzi di ghiaccio che in congiuria del vento si spezzavano come foglie secche chiuse in uno stretto pugno. Si alzò dalla tazza, spense la sigaretta buttandola nel water e uno due tre quattro volte si buttò dell'acqua tiepida sul volto. Si guardò allo specchio e si rese conto di come stavano volando gli anni, iniziavano a spuntare delle rughe sotto gli occhi e intorno alla bocca ormai quasi secca con denti gialli e rovinati. Rovinanti dal fumo di sigaretta e dal tabacco da masticare.

Camminò fino alla cucina al piano di sopra, si certo un breve tragitto ma per lui molto faticoso, doveva salire una scala a chiocciola completamente in legno, dato che aveva molto dolore al ginocchio per una vecchia ferita causatagli durante la guerra da un colpo d'arma da fuoco, una pallottola gli aveva strappato un muscolo, il suo dolore era dato anche per il troppo sforzo e per l'eccessiva attività fisica, e andando avanti con ritmi eccessivi gli si era più volte infiammato e infettato, e il dolore non lo abbandonava nemmeno per un battito di cuore aritmico. Allora dolorante si riprese con una grande tazza di caffè amaro corretto con Gin, era il caffè dal colore più scuro che si trovava in commercio, un caffè che rispecchiava la sua anima, il suo spirito, il suo lato macabro e oscuro. Tutti lo vedevano come l'uomo nero, l'uomo da cui bisognava stare alla larga, incapace di dialogare con chiunque, sempre sgarbato e con uno sguardo sempre aggressivo, maligno, ed è cosi che si mostrava agli occhi della gente.

Ma lui in fondo era buono, solo che non era capace di mostrarsi per quello che era in realtà. Era un veterano di guerra di una sessantina di anni pluridecorato per aver salvato degli uomini della sua compagnia. Vennero feriti con armi da fuoco, lui li prese e li caricò sulle sue possenti spalle e li trasportò a piedi per diversi chilometri, un impresa ardua per chiunque, ma tranne per lui. Era un eroe di guerra. Sua moglie Margaret poco dopo il suo ritiro dall'esercito si ammalò per una neoplasia al pancreas con metastasi, che si espandeva sempre di più. Margaret era una giornalista, sempre in giro alla ricerca della fottutissima notizia che le avrebbe fatto fare un balzo in avanti nella sua carriera, una di quelle notizie che avrebbe cambiato lo stile di vita di tutto l'intero sporco mondo.

 Era una donna sempre sorridente, altruista e intraprendente, non aveva paura di nulla e di nessuno, distruggeva chiunque impediva il suo cammino, era in parole brevi una dominatrice, non sapeva sottomettersi agli altri, combatté fino alla fine cercando di vincere la sua malattia con forza e determinazione, sicura di vincere la sfida contro la morte, ma nulla toglieva alla corsa irrefrenabile del cancro, che piano a piano consumava tutto il suo spirito, diventando come una vegetale. Morì in casa nella sua stanza, nel suo letto matrimoniale in una mattina di pioggia, tra le braccia e le lacrime del suo soldato, incapace di dire una singola parola alla moglie, e quello stesso giorno anche il cielo era triste e piangeva la sua tragica morte.

Marc, cosi si chiamava, da allora eliminò quel suo sorriso perenne e si rinchiuse in se stesso, maledicendo tutto ciò che aveva a che fare con la vita, da lui vista come una "crudele matrigna" e tutto ciò che gli ricordava Margaret lo faceva impazzire, urlava a squarcia gola contro il muro prendendolo a pugni e insanguinando la vasta parete bianca tingendola di rosso, tutto lo faceva impazzire in quella casa, ma tranne una cosa, la  macchina da scrivere, quella di Margaret. Margaret non se ne separava mai, la accudiva come fosse un figlio, il figlio che non ha mai voluto per questioni di lavoro, perché riteneva la sua carriera da giornalista più importante, e avere un figlio avrebbe solo fatto ritardare quello che era il suo obbiettivo principale. Marc spesso ne soffriva, perché era desideroso nell'avere un figlio, un figlio a cui insegnare tutto ciò che lui aveva appreso nel corso della sua vita, far capire concetti di vita per stare bene nel quotidiano, ma sopratutto,  costruirgli una base solida di morale e di cultura, perché la cultura fa vittorioso e forte l'animo umano. Marc spesso si sedeva sul tavolino e fissava imperterrito quella macchinetta, e si chiedeva cosa ci trovasse Margaret di cosi tanto speciale.

C'era ancora inserito l'articolo che Margaret stava scrivendo, un articolo che non sarebbe mai volto a termine, Marc leggeva e rileggeva quell'articolo per ore e ore, spesso mugugnando e piangendo in ricordo della sua donna e quello fu proprio uno di quei giorni. Dopo aver fissato la macchinetta e aver letto decine di volte l'articolo, staccò gli occhi dalla macchinetta e con uno sguardo dritto e conciso guardò sullo specchio in fondo alla stanza. Lui non vedeva impresso il suo riflesso, ma vedeva ciò che sarebbe diventato, ciò che avrebbe passato e ciò che sarebbe stato del suo futuro. Una vita triste e sofferente. Una vita nera, una vita di merda pura e  assoluta. Allora in quello stesso istante gli parve un pensiero, venuto come una folata di vento che attraversa di getto un bosco, cosi all'improvviso, veloce e violento, congelando ogni singola foglia per l'eternità, e quel pensiero gli martellava la testa, aveva deciso di dar fine alla sua misera esistenza. Si diresse verso la porta di legno marcio dello sgabuzzino, prese una corda, una delle tante corde che aveva e che usava quando faceva l'addestramento militare, gli diede una pulita dalle ragnatele e fece un nodo, un grosso nodo, e se ne andò fuori in giardino.

Decise il giardino cosi da poter essere trovato prima, perché mai nessuno lo andava a trovare a casa, era dimenticato da tutti. Camminando per il prato sentiva lo scricchiolio delle foglie che si rompevano sotto i suoi piedi, calpestandoli, erano inanimati e indolori, proprio come voleva essere lui in quel preciso momento della vita.
Camminò in giardino per una decina di minuti, con la corda che gli penzolava dalle mani, oscillava lento, avanti e dietro avanti e dietro, e lui era come se non avesse più un anima, camminava con lo sguardo fisso verso il basso, come se provava  vergogna per quello che stava per fare.   
Decise di attaccare la corda ad un bel fusto di quercia ai piedi dello steccato che faceva da recinto alla casa, una protezione inutile, dato che quello steccato era più vecchio e fragile di lui. Si arrampicò piano piano sulla quercia e scelse il ramo più compatto e robusto, perché doveva sostenere il suo peso.

Scelto il ramo, si mise con trepidazione la corda al collo, il suo corpo tremava come se avesse ricevuto una scarica elettrica ad alto voltaggio. Guardò la casa e poi il cielo, e poi vide tutto nero. Passò più di una settimana quando venne notato appeso su quell'imponente quercia, un urlo inumano risuonò per tutto il quartiere attirando lo sguardo e l'attenzione di tutti. Venne notato per l'orribile tanfo che si sentiva dalla strada, un odore di marcio misto a letame e topo morto. Una ragazzina incuriosita dall'odore scavalcò il recinto, cadde a terra e un pò stordita si rialzò, e si trovò di fronte al corpo in putrefazione del sessantenne impiccato, una vasta quantità di vermi tozzi imbottiti di carne uscivano dalle orbite degli occhi e rientravano dalla sua bocca, un ciclo che sembrava infinito. Non avendo nessuna parentela il comune prese l'incarico di organizzare il funerale, e la santa messa venne svolta nella chiesa di San Tommaso, una chiesa decadente settecentesca. La messa svolta da un prete morente e analfabeta, un prete che borbottava e solo lui si capiva.
Le campane suonavano come una sinfonia per inaugurare la  morte, come se di li a poco ci sarebbe stata l'apocalisse, con demoni vaganti per le strade in cerca di peccatori. Poca gente affollava la chiesa, un po' qua un po' la, sparsi come un branco di pecore senza padrone, e un cane che faceva da guardia al posto del crocefisso. La sua salma venne trasportata nel cimitero della chiesa, venne onorato con degli spari di fucile da alcuni veterani, suoi compagni di guerra, proprio sotto una quercia senza vita, anch'essa depredata della sua ninfa vitale. Solo una lapide in dolomite ricordava ai viandanti che passavano da quelle parti per salutare i propri cari, che una persona di nome Marc era esistita, e nella lapide era inciso "Qui giace Marc Keller, eroe di guerra 1873 - 1932 " . Spesse volte nelle lapidi veniva inciso solamente nome e cognome, o addirittura solo le iniziali, o solamente la data di morte, come accadeva per i senza tetto trovati senza vita lungo le strade, buttati come cicche di sigarette sul marciapiede, consumati e distorti, stroncati dal freddo e della fame. Innominati. Nessuno sapeva chi fossero, e proprio per questo si inseriva soltanto la data di morte, una data approssimativa, i corpi potevano giacere ai lati della strada coperti da giornali e cartoni per svariato tempo prima che qualcuno se ne accorgesse.

Il periodo  del dopo guerra era difficile per tutti e bisognava ricominciare da zero, ricostruire strade, case, ma in primi-s cibo sano e salutare. Le malattie vagavano imperterrite come non mai, il vaiolo aveva ucciso migliaia di persone essendo una malattia contagiosa, un virus patogeno solo per l'uomo, sembrava mandato da lucifero per condannare l'umanità per i loro peccati, una specie di piaga che si imbatteva su tutti, dai bambini agli anziani, ma sopratutto ai bambini, che erano quelli più deboli.
Come il vaiolo anche la peste, la tubercolosi, e tantissime altre malattie infettive, virus che giravano con i venti, virus che si diffondevano nell'aria come polline, arrivati da campi distanti dove masse di corpi massacrati si fossilizzavano, i cosi detti "campi della mattaia", dove per mattaia si intende l'essere umano. L'essere umano, ha sempre creato elementi per estinzione di massa, l'uomo con le sue imperfezioni, per quanto riguarda la qualità della vita, come ad esempio la salute, crea armi contro se stesso, contro la propria razza, contro i suoi fratelli, mentre c'è tantissima gente che muore ogni singolo giorno di malattie sconosciute e misteriose. Una nebbia compatta spesso si posava sulla città, camminando si aveva l'impressione di essere quasi cechi o seguiti, strani rumori nei vicoli stretti facevano arrizzare la pelle, sicuramente erano topi, ma la gente aveva paura di tutto persino della propria ombra, della propria voce e della propria esistenza.

 Il vento soffiava sull'alto campanile della chiesa di San Tommaso, i corvi che ci annidavano, volavano via e si riparavano sopra a rami di ginepri sparsi li intorno. Si udiva un gracchiare continuo, forte, forte come una madre che perde il proprio figlio, straziante, faceva in modo che nell'udire quei versi le budella si contorcevano come un serpente agguaglia la sua preda. Il parco giochi, era perennemente fangoso e pieno di buche, le altalene oscillavano lievi al triste vento come se ci fossero a dondolare anime di fanciulli perduti, e i rumori metallici delle catene si espandevano nell'atmosfera come fossero proiettili sparati al vuoto senza un bersaglio preciso, ma un bersaglio in realtà c'era, ed era la testa di chi udiva quel suono. Le persone impazzivano, spesso vagavano per le strade assorti in pensieri che nessuno ha mai conosciuto, perché nessuno se ne interessava, nessuno chiedeva loro motivazioni o spiegazioni.

 Ognuno pensava a se stesso, a nessuno importava di nessuno, a meno che non vi fosse una sorta di parentela. La città era divisa in classi sociali, a nord c'erano le persone ricche, le persone facoltose, colte.
 Frequentavano Salon e librerie per discutere varie questioni culturali, per scambiare opinioni di tipo scientifico, tecnologico e letterario, di attualità, dove si scambiavano studi e ricerche, mentre nel sud della città prendevano posto le persone povere composta dalla classe operaia e contadina le cosiddette masse popolari, che nacquero con la seconda rivoluzione industriale.
Il fabbro, l'unico della città  nella parte del sud, era sordo e muto, comunicava a gesti, dal fisico scultoreo, che ricordava le classiche forme plastiche dei busti michelangeleschi, una bellezza unica dal volto di perfezione raffaellesca, armonioso ed equilibrato, composto preciso ed efficiente. Lavorava senza interruzione giorno e notte, le forze sembravano che non lo abbandonassero mai e la gente mormorava spesso il suo nome.

Ci fu chi addirittura disse che lui strinse un patto con il diavolo, il patto consisteva che il diavolo dava lui una bellezza sublime, inteso come sentimento di chi lo mirava, proprio come il pittore romantico che doveva far provare quel sentimento enorme a chi osservava l'opera. Era un sentimento che pochi potevano provare. In cambio di questa bellezza sublime il fabbro dovette dare al diavolo la sua voce e la sua vista.

 Tanti erano i personaggi strani, oscuri e maledetti in quella parte della città. Ma c'era anche chi voleva eliminare questa distinzione sociale tra sud e nord, voleva mescolare le due società per avere un equilibrio, una sorta di stabilità tra poveri e ricchi. Ma le persone di alto borgo non si volevano mescolare con la classe povera, ritenuta da loro sudicia, sporca, ignorante e amante della disarmonia e della scompostezza. Tutto era ammassato in un caos e delirio assoluto, con forme di brigantaggio e rivolte politiche - sociali.
  
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