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Autore: She dreams    16/04/2013    2 recensioni
Questa è la mia seconda storia. La prima era una FF, ma questa è una storia originale.
Originale nel senso che non ce ne sono altre come questo genere. Ebbene si, ho controllato per tutto il sito e non ce n'era nemmeno una. Dopo un giorno passato al computer con mia madre che mi urlava dietro di scendere per il pranzo, spero di aver fatto un buon lavoro per quanto riguarda almeno i primi capitoli.
Premetto che non so con precisione quando potrò aggiornare e quando no, quindi sperate e pregate per me che non ci metta più di tre giorni a scrivere un capitolo. *please*
Concludo dicendovi solo un'altra cosa piccolapiaccola, accetto tutte le critiche possibili a meno che non si arrivi a insulti pesanti, perchè la mia autostima è già abbstanza bassa, figuriamoci se la bisogna anche prendere a parolacce. Detto questo, buona lettura e preparatevi a stupirvi (?) baci a tutti xxx
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter three 
 
Per tutto il viaggio in metropolitana non avevo fatto altro che pensare - o cercare di pensare - a cosa avrei detto a quell'uomo riluttante che ogni giorno speravo di ritrovare steso sul pavimento e che invece mi ritrovavo ogni giorno a casa. Era una specie di insetto infestante quella creatura umana - ma non ci avrei messo la mano sul fuoco. Che fosse umano intendo. -.
In più i suoi amici si ostinavano a riempire quella povera casa con un costante odore di fumo. Speravo veramente che un giorno avrei trovato sul mio cellulare un messaggio vocale che dicesse "ci dispiace infinitamente per la sua perdita signorina Marina, ma il signor Antony Marina é deceduto in ospedale stamattina per infarto.".
Sinceramente non mi importava il dove, il quando, il come e il perché. Mi importava principalmente il "cosa". Cioé il "é deceduto". Anche perchè quesi sicuramente, non sarei riuscita ad assimilare in fretta le date e il luogo, visti i miei deficit di attenzione. 
Scesa dalla metropolitana decisi che nel camminare velocemente avrei dovuto metterci meno attenzione che ricordarsi ogni 10 secondi a che fermata del bus sarei dovuta scendere, quindi non mi feci tanti problemi e camminando sul marciapiede, continuai a pensare a cosa dire, visto che in metropolitana la mia attenzione era stata catturata per la maggior parte dal signore davanti a me a alla sua conversazione urlata al telefono. Cosa che non avevo notato solo io, visti gli sguardi omicidi di chi mi stava accanto.
La mia mente era divisa in due: "cosa dico a mio padre? Un momento, separazione? No, non mi interessa la vita degli altri. Aspetta, tradimento? No, non ci credo. Ahahah che stupido, l'ha tradita e... cosa stavo per dire? Aspetta... a che dovevo pensare? Ah giusto, mio padre... Un attimo, l'ha tradita con l'avvocato?!".
Se avevo difficoltà a concentrarmi anche solo sulla fermata - che per la cronaca, ho perso un paio di volte grazie al signorino traditore di fronte a me - figuriamoci organizzare un discorso mentre qualcuno mi urlava nell'orecchio. 
Ma l'errore fatale fu andare a piedi. Infatti dopo poco mi apparii un bel palo di ferro congelato davanti e prima che me ne accorgessi, ci avevo già messo la fronte contro.
Il risultato fu uno *sbeem* seguito da un *bom* sull'asfalto del marciapiede. Oh, e ovviamete un *crack* del mio cellulare nokia da 2 euro comprato al centro commerciale. Che tra l'altro fu l'unica cosa che mi potei comprare.
Da mostrare a mio padre avevo in più un cellulare rotto e un bernoccolo viola poco sopra il sopracciglio destro. La giornata stava andando meglio di quanto potessi mai sperare. 
Dopo essermi massaggiata il didietro per dei buoni 10 minuti, e dopo essermi beccata le risate dei ragazzi alla fermata dell'autobus, arrivai nel viale di casa mia.
Un viale grigio, con macchine grigie, e nessun albero. Solo cemento, cemento e cemento. Il giardino? Fatto di cemento. Il palazzo? Bianco sporco con qualche graffito sopra il muro esterno. La macchina? ...Quale macchina?
Mi feci coraggio, e suonai il campanello. Speravo di non trovarlo in casa.
- Eh?- chiese una voce roca dall'altra parte. Come non riconoscerla.
- Sono io.- dissi evitando di arrivare ad insulti pesanti.
- Che vuoi?- la stupidità di quell'uomo mi stupiva sempre di più. La vecchiaia é una brutta bestia. Presi un respiro profondo.
- Il cancello...- dissi alzando la voce.
- Che vuoi?!- alzò la voce anche lui.
- Il cancello papà, aprimi IL CANCELLO!- mi sforzai come non avevo mai fatto prima per non gridargli un insulto in faccia. Ma non perché non volessi, perché stavano passando dei bambini accanto a me.
*drrr*. Cancello aperto.
Salii velocemente le scale per non sentirmi dire un'altra volta un "che vuoi?!" perchè si era scordato che dovevo entrare. A quanto pare non servì, perché la porta era già aperta.
La aprii lentamente, come per paura che mi sentisse. All'inizio riuscii a distinguere delle voci provenire dal "salotto". Non feci in tempo a riconoscere che sentii un urlo di quelli che si sentono soltanto allo stadio.
- Eeeeeeeh! Si! Si! Si! Forza! Dagli un calcio in culo! Così! Vai, vai, vai! Si!- chissà perché anche dopo 16 anni, mi stupivo ogni volta della reazione di mio padre ad un goal.
Dopotutto, avevo sentito cose peggiori uscire da quella bocca all'alito di cipolla. Che potrà mai essere qualche abbaio in confronto a questo?
Alzai gli occhi al cielo pregando le mie orecchie di rimanere attaccate al mio corpo e ai timpani di non scoppiare. Poggiai il cappotto su una sedia alla sinistra della porta e mi avviai lentamente verso il salotto, passando per il piccolo corridoio che mi divideva dalla strana creatura. Il pavimento in marmo non faceva quasi nessun rumore sotto alle mie scarpe luride, anche perchè tutti i suoni presenti erano attutiti dal volume della televisione. arrivata sulla soglia della stanza, mi affacciai.
Come al solito, le birre erano sparse per terra come semini pronti a crescere - e conoscendo mio padre, forse ci avrebbe anche provato -, i cuscini del divano erano buttati per terra, un bicchiere lercio e vuoto era riposto sul comodino a destra del divano, con intorno tre pacchetti di sigarette disposti a cerchio. 
"oggi si é contenuto" pensai soddisfatta. Avevo parlato troppo presto: sotto al comodino si potevano intravedere altri due pacchetti. Probabilmente, uno appena finito, perchè non era accartocciato come gli altri.
Era in bella vista la scritta "Il fumo uccide". Caro fumo, perché non ti decidi a fare il tuo lavoro e non ammazi questo tizio? 
La piccola tv era sparata a tutto volume. Mi pentii di essere entrata in quella stanza. Oh, e ovviamente la puzza di fumo abbondava, ma oramai ci ero abituata. Non avevo bisogno di fumare, tutto il fumo che volevo lo trovavo lì. Vedevo ancora alcune nuvolette sparse per la stanza.
Mi feci coraggio ed entrai.
- Papà vado a lavorare al canile.- dissi pentendomi subito dopo. Per mia fortuna, la televisione copriva persino la mia voce, e capivo dalla faccia imbambolata di mio padre che non aveva sentito. Non capisco come mia madre avesse fatto a sposare quella bestia. 
Ok, non so dire se fosse un bell'uomo. Quello che vedevo erano degli occhi di ghiaccio, dei capelli neri come la notte con dei riflessi rossicci al sole, un corpo tarchiato e di media statura e il tatuaggio di un drago sul braccio destro. Escludento i piercing alle orecchie e al sopracciglio. 
Mi stupivo di come rimanesse sempre dello stesso peso. Mangiava, parlava, dormiva e aveva l'intelligenza di un animale da cortile.
- Papà...- esitai, ma questa volta si accorse di me. Mi guardò scocciato e poco dopo ritornò con lo sguardo sugli omini che si muovevano in campo, che sembravano essere più imortanti della figlia.
- Vado a lavorare al canile.- lo fissai, aspettandomi una risata. Invece accadde l'opposto. Rimase serio.
- Brava, così non ti vedrò per un bel pò.- disse sarcastico agitando una bottiglia di birra. Tipica risposta di mio padre.
- Grazie.- sussurrai. Non mi sentì. Mi feci coraggio.
- Se non mi vuoi in casa perché non mi uccidi?- ... l'avevo fatta grossa. Mi guardò come se si aspettasse questa domanda. Poi ritornò alla partita, poggiando un gomito sulla gamba sinistra appoggiandoci la testa. Aspettai immobile una sua risposta. Invano, evidentemente.
Fino a quando non ci fu un altro goal e le urla ricominciarono. Me ne andai sbuffando e sbattendo i piedi per terra. Tipico, non vuole afforontare i problemi? Si tira indietro.
Corsi verso la mia camera sbattendo la porta. Dovevo sbollire la rabbia in qualche modo.
Mi sentivo le recchie in fiamme e un improvviso istino omicida. Avrei potuto uccidere qualcuno in quel momento. Ero frustrata. Tirai fuori il cellulare dalla mia tasca.
Senza pensare lo scagliai contro il muro, provocando l'orribile rumore di un oggetto in - quasi - perfetto stato rompersi senza poter essere riparato.
La batteria volò via, così come la copertura posteriore. Poco dopo vidi un bozzo nel muro. Non mi importava niente. Dovevo far eruttare quella lava che si era accumulata negli anni. Mi buttai sul letto e mi misi il cuscino sporco sopra la testa. Ci urlai contro così forte che credevo di essermi rotta una o più corde vocali.
"Ferma An fermati, come puoi risolvere qualcosa così?". Fottuta vocina della mia fottutissima coscienza. Volevo ancora urlare, ma evitai di diventare muta.
Respirai a fondo. "Inspira"... "espira"... "inspira"... "brava, così..."
Non so come feci, e per quanto continuai, ma mi addormentai. O almeno credevo di essere addormentata.
Mi svegliai, e lentamente mi alzai seduta. Quella dormita mi aveva fatto benissimo, mi sentivo leggera e calma. Non sentivo nemmeno il letto sotto di me.
Un attimo... il letto. Non lo sentivo davvero. Eppure c'ero sopra, io ero seduta sopra al letto.
Ma non sentivo niente. Non avevo caldo, non avevo freddo, non avevo sonno, non avevo fame, non avevo sete. Non sentivo il mio peso. 
Provai ad alzarmi, ma quando fissai il pavimento mi ritrovai già in piedi senza sforzo. Ma il pavimeto.. non c'era. Lo vedevo ma era.. era come se lo vedessi sia dal piano di sopra, sia dal piano di sotto. Anche il muro di fronte a me. Potevo vedere il corridoio al di la del muro. Non era possibile.
Guardai ancora il pavimento. Non lo sentivo. Stavo galleggiandoci sopra. Non potevo toccare terra. Mi girai.
Non avrei dovuto farlo. C'era un corpo sopra il letto. "Che ci fa un'altra sopra al mio letto?". Oh no, non era un altra. Stessi capelli rossi boccolosi, stesse guance rossicce, stesse lievi lentiggini sul naso. Ero io. No, non potevo essere morta. Insomma ero lì, le guance erano rosse, non erano pallide. In un attimo mi ritrovai dall'altra parte del letto. No, non ero morta. Respiravo. "Ma che cazzo sta succedendo?".
A quel punto mi accorsi che la luce era sparsa per tutta la stanza, ma non proveniva dalla finestra. Proveniva da una fonte imprecisa, ma illuminava tutto. Ma un altra cosa era ancora più agghiacciante. Non respiravo. Cioé, il mio corpo si, ma quest'altro corpo trasparente sopra il mio corpo materiale no. Non avevo bisogno di respirare.
Provai a sedermi sopra il letto, ma mi ritrovai in un angolo della stanza. Riprovai a tornare vicino al letto, ma mi ritrovai nel salone, di fronte a mio padre. Non ci potevo credere. Il suo colore, si era allargato di circa 60 centimetri. Ora potevo vedere chiaramente quel rosso scuro pieno di macchie nere che gli vedevo sempre addosso. Lui non mi vedeva.
Provai a spostarmi per un paio di volte, ma mi ritrovai persino nell'appartamento accanto al nostro. Non riuscivo a decidere dove andare.
Ero terrorizzata. Mi concentrai. "camera, voglio andare in camera". Con un balzo mi ritrovai di nuovo di fronte al mio corpo. "voglio ritornare in me...".
Ritornai dentro al mio corpo, come se fossi stata risucchiata. Mi svegliai di soprassalto.
- Aaaaaaaah.- ulai.
- Che vuoi ragazzina?!- ci misi un pò ad elaborare quella voce, ma alla fine mi accorsi che era di mio padre. Corsi in salotto e mi piantai di frote a lui.
- I-io mi sono addormentata, poi mi sono svegliata e-e ho v-visto il mio corpo, lì sopra il letto, ma respiravo e-e poi.. m-m-mi sono mossa nella stanza, ma il pavimento... coé, non lo toccavo... non lo vedevo.. papà aiutami ti prego.- non riuscii a dire altro, se non balbettare altre cose insensate senza nessun filo logico.
Quando finii, mio padre mi guardò sconcertato. I suoi occhi erano sgranati, la sua bocca era aperta a mostrare i denti cariati e la birra che poco prima teneva in mano si era rovesciata a terra, riversando il liquido sotto il divano. In sottofondo, i telecronisti della partita continuavano a parlare normalmente.
- No, no, no...- si rigettò sul divano. Sembrava disperato. Si passò una mano su tutta la faccia per poi far ricadere la testa all'indietro e appoggiare la mano sulla coscia.
- Dove ho sbagliato... cosa potevo fare di più?! Dimmelo!- urlò prenendo a pugni i pochi cuscini del divano rimasti. Non sembrava avercela con me. Poi si calmò, e con un respiro affannoso, fissò il cuscino. Dopo un paio di secondi rivolse lo sguardo verso di me.
- Tu... c-come hai fatto?- si portò le mani alla testa poggiando i gomiti sulle ginocchia, stringendosi i capelli neri tra le dite lunghe. Non riuscivo a rispondere. 
Ero ancora traumatizzata dall'avvenimento di poco prima. Ero letteralmente paralizzata.
- Dobbiamo andare...- disse lui, prendendo un respiro profondo e chiudendo gli occhi.
Andare? Dove? Perché? Avrei voluto fargli tante domande, ma in quel momento ero bloccata dalla punta dei piedi fin sopra la fronte. Senza poter muovere un muscolo. E mi sentivo terribilmente stanca.
Mio padre mi trascinò fuori di casa, senza nemmeno prendere il cappotto. Poi ci avviammo verso la fermata del bus, con lui che si ostinava a non mollare la presa forte dal mio braccio destro. Se aveva paura che riuscissi a scappare, si sbagliava di grosso. A malapena riuscivo a tenermi in piedi.
Il bus arrivò pochi minuti dopo, nei quali mio padre continuava a ripetere a bassa voce e denti stretti "perché, perché, perché...".
Salimmo sul bus, anche se le mie gambe fecero i capricci quando si trattò di salire le scale. Mio padre allora mi sollevò da terra e mi trasportò fino a uno di pochi sedili ancora liberi, con gli altri passeggeri che ci lanciavano occhiatacce quando mio padre urtava per sbaglio i loro sedili. Credeva che fossi un'invalida?
Beh, in quel momento a pensarci bene, non riuscivo nemmeno a tenere gli occhi aperti, figuriamoci a camminare. Ma mio padre non sembrava farci caso, o magari se n'era accorto ma non glie ne importava. 
Non so quante fermate dopo, mio padre mi trasportò fuori correndo e mi depositò a terra, riagganciando il mio braccio con la sua mano e trascinandomi verso un edificio bianco con una targhetta d'oro sull'unico campanello. Non riuscii a leggere cosa ci fosse scritto, ma forse era perché mi sentivo letteralmente addormentata.
Con mio grande stupore - e terrore - mi spinse dentro un ascensore, dove poi salì anche lui. Sapeva bene che sarei impazzita se non avessimo fatto in fretta, ma evidentemente sapeva che non ce l'avrei fatta a dare di matto in quello stato. Mi appoggiai con gran fatica di schiena al muro dell'ascensore. Avrei voluto accasciarmi a terra, ma sapevo che se l'avessi fatto le gambe non avrebbero retto e sarei caduta ammaccandomi il fondo schiena.
Dopo più o meno venti secondi arrivammo a destinazione. Le porte si aprirono, e mio padre con un ultimo sforzo mi prese da sotto le ascelle e suonò il campanello.
In quei pochi secondi riuscii a leggere la scritta a caratteri cubitali sulla porta. "Studio di Psicologia".
Oh no. No, no, no, mio padre non poteva farmi questo. Provai a dire qualcosa, ma la stanchezza mi fece crollare e le gambe mi abbandonarono.
L'ultima cosa che sentii fu la voce di mio padre alquanto sconcertata dire "è successo... ci è riuscita, non so come...". Quella è l'ultima cosa che ricordo.
 
****
 
Mi risvegiai lentamente. Ero stesa a pancia in su su qualcosa di più duro del mio letto. Gli occhi non si volevano aprire, ma mi costrinsi a scoprire dove cavolo ero finita.
Aprii gli occhi, e la prima cosa che vidi fu un soffitto azzurro e ricoperto da nuvole disegnate. Ero finita in un ospedale per bambini?
Poi mi ricordai. Mi ricordai di quando ero diventata un fantasma, mio padre che mi trascinava in ascensore... e poi la scritta: "Studio di Psicologia".
In quel momento sgranai gli occhi e pregai che mio padre se ne fosse andato, così da poter fuggire immediatamente da quel posto. Non volevo restare lì un secondo di più.
Cercai di alzarmi lentamente per guardare in che razza di studio ero finita. Quando mi misi seduta, vidi solo una scrivania in legno piena di fogli sparsi un pò dappertutto e con un computer pieno di foglietti adesivi di tutti i colori. Alla mia destra, una poltrona in pelle beige. Non c'era nessuno.
Ne approfittai per scappare. Mi alzai pronta a correre, ma ci vidi doppio e caddi a terra sulle ginocchia. Cosa mi stava succedendo?
Mi appoggiai sulle mani per rialzarmi, ma non ci riuscii. così restai a carponi fino a quando non sentii dei passi svelti dietro la porta. Riuscii a malapena ad alzare la testa.
Poco dopo vidi entrare una scarpa color marrone chiaro, che chiaramente non era di una donna. Poi dei pantaloni grigi e una camicia a righe. 
Non riuscii a vedere il volto dell'uomo che si era voltato verso di me. 
- Non ci proverei se fossi in te...- disse la voce dell'uomo avvicinandosi a passi lunghi e svelti. Quando vidi le sue scarpe sotto di me, mi sentii afferrare sotto le ascelle da due mani grandi e forti, che mi rimisero sopra il grande divano su cui mi ero magicamente risvegliata. Lentamente riuscii a guardare negli occhi il misterioso uomo entrato senza preavviso nella stanza. Si era accovacciato davanti a me. Quegli occhi erano di un blu elettrico, penetranti, nascosti dietro agli occhiali appoggiati sulla punta del naso dritto come quello di una volpe. I riccioli castani e disordinati, come se si fosse passato la mano sopra di essi per più volte di quanto avesse mai fatto, raggiungevano le sopracciglia nere. La carnagione era chiara e le labbra erano rosee e sottili. A prima vista sembrava un uomo sulla trentina, ma abbastanza attraente da non interessare solo alle donne della sua età.
Mi squadrò dalla testa ai piedi con quegli occhi profondi che poco prima mi stavano fissando, e poi si concentrò di nuovo sui miei occhi.
Quando alzai la testa, lui si concentrò ancora di più su quegli occhi strani che a quanto pare, gli interessavano molto.
- Allora sei proprio tu... somigli a tua madre sai?- mi disse accennando un sorriso. Non riuscivo ancora a parlare.
- Il mio nome é Joseph, dottor Joseph Mirton per essere precisi.- mi disse porgendomi la mano. Non avrei stretto per nulla al mondo la mano del mio futuro nemico, così mi limitai a chiudere gli occhi e a ristendermi sul divano di pelle ormai caldo. Lui sembrò deluso, ma si alzò velocemente, e con una mezza piroetta su un piede, si voltò verso la scrivania.
- Mi correggo, sei uguale a tua madre.- disse dandomi le spalle. La sua voce mi sembrava di uno schizzofrenico. Ma probabilmente lo era, visto il suo colore. Era nero, e trasmetteva instabilità. Ne avevo incontrate poche di persone con questo colore, ma si erano dimostrate tutte più pazze di me.
- Da come avrai capito, non sono molto stabile. La mia aura lo dimostra. E' importante rivelare fin da subito i propri segreti ai pazienti, anche se non é proprio un segreto.- 
Aula? Che roba era?
- Aula?- lo dissi più forte di quanto volessi, ma almeno riuscivo a parlare. Quando parlai si voltò di scatto.
- Stai meglio vedo... comunque é AURA, con la "erre" mia cara. Quel colore che vedi intorno a me.- disse, come se io potessi consocere già tutto. E poi come si permetteva di chiamarmi "cara"? Quel tizio mi stava già dando sui nervi.
- E ti consiglierei di non azarti per ora, o almeno fino a quando non avrai recuperato le energie... i viaggi astrali sono faticosi.- disse voltandosi di nuovo verso la sua scrivania, ma questa volta si diresse verso il tavolo e spostando un pò di fogli e foglietti ci si sedette sopra, sorseggiando un the fumante che non mi ero accorta avesse in mano.
Viaggi astrali? Quindi quei colori si chiamavano "aura"? Bene, ora ci stavo capendo ancora meno di prima.
Solo allora capii che quel canile non sarebbe stato poi così male dopotutto.


 
Buonsalve signori,
mi duole molto il fatto di non aver potuto pubblicare ieri il capitolo,
ma aggiungete a sei ore di scuola una mamma esigente e fissata con le commissioni,
una prof di italiano malvagia,
una lezione di karate di un'ora,
e un ritado di 15 minuti da parte di mia madre
e il risultato sarà poco più di un'ora per scrivere questo capitolo...
Oh e ovviamente una doccia di almeno 10 minuti
per togliersi la puzza di piedi e sudore da dosso...
So, I'm really sorry.
Ma ora dopo tante fatiche, sono riuscita a pubblicarlo - e a correggerlo -
e spero taaanto che sia accettabile... *prega*
Colgo questo momento (?) per ringraziare tutti coloro che recensiscono ogni capitolo della mia storia,
e che mi fanno complimenti stupendi tanto da farmi mettere a ballare la macarena per tutta casa.
Vi lovvo tanto ^^ xxxxx bacioni 
  
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