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Autore: Love_in_idleness    06/11/2007    4 recensioni
Due storie diverse intrecciate tra loro per una strana, irresistibile Legge delle Ambivalenze.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nuovo capitolo

Nuovo capitolo, prima descrizione di Die e Hansi. A questa velocità è probabile che vada in pari con le date del racconto è___é

Enjoy -

 

Mercoledì venti Dicembre,

 

Due biglietti per il teatro; uno specchio bivalente; un ponte silenzioso e qualche colpevole dispetto di Thor

 

I.

Die guardava l’immagine di Ottavia riflessa nello specchio dalla cornice cesellata e pensava che fosse già troppo tardi.

“Che cosa ci trovi di bello, poi –“

Ottavia lo freddò. “Sai come si dice? Guardare ma non toccare. Lui è l’étoile. Lui è la grazia, la leggerezza, la bellezza, l’eleganza, la musica, l’arte, e tutto nello stesso istante. È – è – guarda, non trovo neanche le parole per spiegarlo.”

“E perché ti devo accompagnare io? Odio le cose formali. E odio i balletti.”

Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Chi è venuto con te all’ultimo concerto dei Tool, caro?”

“Cosa c’entra, tu ci volevi andare! Mi riempi la testa di confusione.”

Ottavia gli fece cenno con la mano di stare zitto. Canticchiava –  “I sit down with my son set to see the crimson sunset –“ Era il suo pezzo preferito di A Change of Seasons, e Die non gliel’avrebbe rovinato con stupide considerazioni e critiche invidiose rivolte alla sua étoile preferita.

Lasciò che la melodia finisse in quello strano modo – come era cominciata. A Change of Seasons le metteva sempre I brividi per la sua lucida bellezza e per la sua affascinante circolarità. Le ricordava molte poesie e molti pensieri che conosceva a memoria, a furia di leggerli e rielaborarli nella sua testolina distratta.

“Die –“ Questa volta sembrava seria, mentre si voltava con una sfumatura di apprensione dipinta sul volto. “Ma ora tu – cosa vuoi fare?”

Die abbassò lo sguardo. “Lo sai che amo la mia chitarra. Io – non lo so. Devo dirlo a papà?”

“Prima devi dirlo a te stesso. Riflettici bene. È una decisione che ti toccherà molto, molto profondamente.”

Die ci stava già riflettendo. Si chiedeva come ci fosse arrivato. Che cosa gli restava? Era come preso e trascinato in due diverse direzioni, e tendeva dolorosamente sia verso l’una, sia verso l’altra. Stava mettendo in gioco tutte le sue certezze e le sue decisioni per un incontro così effimero. Hansi gli aveva inculcato un’idea – lasciare l’ingegneria e ritornare a fare la cosa che gli riusciva meglio, e che amava di più, la musica. Una parte di se stesso, lo sapeva, avrebbe voluto rimanere sulla via che si era faticosamente costruito in tanti anni di sacrifici – nella normalità rasente la perfezione: ottimo studio, possibilità professionali, buona carriera, vita esemplare. L’altra metà di se stesso, quella appassionata, quella avventata, quella nutrita di ideali, era stata rievocata in una sola notte, e ora lo disturbava col suo fascino attraente. Lui l’aveva cancellata, l’aveva seppellita assieme alle sue passioni infrante, l’aveva posata delicatamente in un punto dell’anima che pensava non potesse più essere raggiunto dalla vibrante energia vitale. Eppure, in una volta, in una breve, intensa, odiosa notte, aveva riscoperto quella faccia della sua personalità, forse la più sincera e la più vivida, ma anche la più pericolosa. In un momento rivedeva quello per cui aveva combattuto per anni, e a cui aveva deciso di rinunciare – per cosa? – per comodità, per convenienza, per convenzione. La riscoperta era sconvolgente, vertiginosa – emozionante. Aveva risvegliato dentro di lui un istinto sopito, e l’aveva reso di nuovo potente.

Hansi era stato suo compagno di liceo. Avevano studiato insieme, e insieme si erano avvicinati alla musica. Condividevano molte esperienze in quel periodo fresco, anche, sporadicamente, il letto. Era un equilibrio instabile, molto lontano da quello tra Mircea e Lelio, decisamente meno intimo e più amichevole, meno innamorato e più stoico. Alla fine delle superiori avevano preso strade diverse. Die ricordava di essersi separato da lui con un grande, enorme rimpianto, e di non essere riuscito a sistemare le cose. Una sera, poco prima della fine della scuola, gli aveva confidato che avrebbe lasciato perdere la chitarra. L’avrebbe ritirata in qualche armadio chiuso, e avrebbe dimenticato l’esaltazione delle note della sua musica. Non importava. La musica non viveva. E lui doveva pensare a qualcosa di più concreto per sé, a un futuro fattibile. Hansi si era arrabbiato. Gli aveva rinfacciato cinque anni di menzogne e di illusioni, gli aveva urlato che era solo un meschino, una persona come tutte le altre – questo aveva ferito Die maggiormente – e che stava spezzando un sogno coltivato per tanto tempo, distruggendo due persone senza accorgersene. “Sei solo un’idealista.” Gli aveva risposto. “A diciotto anni si può vivere di ideali, di rincorse, di desideri e di ribellione. Ma a quaranta ci si guarda indietro e ci si accorge di aver sbagliato tutto, di aver sprecato ogni possibilità.”

La domanda secca di Hansi gli era rimasta nel cuore. Non era passato giorno della sua vita che non se la fosse ripetuta svegliandosi, o prima di addormentarsi – “E allora un’esistenza stretta non ha senso. Di che cosa potrai essere fiero, a quarant’anni? Chi guarderai nello specchio, a quarant’anni?” Chi guardava nello specchio, anche a venticinque?  Aveva sempre segretamente pensato che Hansi avesse ragione.

Quella volta Hansi si era voltato ed era uscito sbattendo la porta. Non si erano più parlati. Si erano detti silenziosamente addio, e poi nulla. Finché un sabato sera non si erano rincontrati per caso. Hansi era stato felice di vederlo, e Die era euforico. Credeva fosse arrivato il momento per riparare all’errore più doloroso della sua vita– avevano bevuto molto, troppo. Si era risvegliato alle tre di notte in un letto che non era il suo e che profumava incredibilmente di un odore dolce, presente nella sua memoria in un ricordo sfocato, e che evocava in lui sensazioni abbandonate e piacevoli. Anche Hansi si era svegliato. Avevano parlato fino al mattino come facevano anni prima, nel fiore della loro amicizia e nel momento più scintillante di tutta la loro giovinezza – si erano confidati, riavvicinandosi, quel segreto tanto vincolante da unirli, quell’amore che solo loro potevano comprendere e di cui erano gli unici custodi. Die era ancora stordito dall’alcol. Tra i baci gli aveva chiesto scusa mille volte, gli aveva detto che gli dispiaceva, gli aveva rivelato quanto si sentisse male ogni giorno per le sue ultime parole, per quella consapevolezza lacerante che lo faceva impazzire. “Vieni con me!” Aveva riso Hansi accarezzandogli la testa. “Sì, prendi questa stupida laurea e nascondila, poi dimenticati la matematica. Devi imparare di nuovo solo le note.”

“Quelle non me le sono mai scordate.”

Per Die era come tornare indietro nel tempo e tuffarsi in un’epoca della sua vita che era stata felice, meravigliosa. Ricordarsi come stesse bene. “Sai, mi sono mancate molte cose di questo rapporto strano.”

Un bacio. Un’altro ancora. Hansi gli diceva con gli occhi, dolcemente – hai deciso tu la tua strada. Ma puoi tornare indietro e godere di questo fino alla fine, fino all’orlo.

Poi era arrivata la mattina. Le porte di quella notte buia si chiudevano e sbattevano violentemente urtando le pareti del sole assieme ai suoi desideri riscoperti. Se n’era andato di nuovo, ma questa volta nessuno provava rabbia, odio, rimorso. Questa volta c’era stato un bacio a fior di labbra, una carezza, un saluto delicato e un senso sospeso di ritorno. Ricominciavano? Die avrebbe voluto capirlo. Era confuso, stordito, felice. Forse sarebbe rientrato in quella stanza e avrebbe di nuovo assaggiato il sapore speciale delle loro notti, quel profumo persistente, quel senso di completezza; forse avrebbe chiuso, definitivamente, un capitolo difficile della sua vita.

Per il momento si guardava nello specchio, accanto ad Ottavia, e pensava a se stesso – alla sua essenza, ai suoi vincoli, e a come, nella sua prospettiva contorta, desiderasse vedersi. Un po’ cominciava a saperlo.

 

II.

“Questo film è noioso.” Mircea si girò prono sul letto premendo il pulsante di pausa del telecomando. “Tua sorella questa sera va alla Scala. Che fortuna.”

Ma Lelio dormiva, la testa poggiata sul cuscino, gli occhi chiusi e le labbra distese in un candido sorriso. Mircea si stupiva sempre del modo in cui Lelio si poteva addormentare, così sereno, così rilassato, così estraneo dalla sua personalità in continuo movimento. Credeva che Lelio facesse sogni complicati, possibilmente filosofici, qualcosa che aveva a che vedere con la sua allucinazione vestita da Alice, ma molto più serio. “Stai sveglio tutta la notte, vedi? Poi ti addormenti sul nostro film.”

Lelio sognava un ponte scintillante. Era a Venezia, o almeno credeva, ma non capiva né come ci fosse arrivato, né cosa ci facesse. Il ponte fatto d’oro e drappeggiato elegantemente in velluto cremisi si modellava sul canale, ed era sospeso nella nebbia di una notte indefinita, confusa. Di lontano, vagamente, si scorgeva la sagoma di una cupola maestosa, si vedevano i contorni dei pinnacoli preziosi che svettavano contro il cielo e dovevano rilucere di meraviglia, illuminati dal chiarore del giorno. Sulla Città era calato un velo di silenzio e quiescenza. Probabilmente tutti dormivano, lui era l’unico essere sveglio, cosciente, vigile come una sentinella sul confine impalpabile tra la realtà e il sogno. Sotto di lui l’acqua scompariva inghiottita dalla foschia umida. Era come essere sollevati sul nulla. Un senso di freddo, di gelo interno, lo pervadeva e lo faceva rabbrividire assieme ad una sottile inquietudine. Nelle mani stringeva una maschera. Se ne accorse solo dopo molti minuti che scrutava, immobile come una statua, l’orizzonte celato. Non si ricordava se l’avesse sempre avuta, o se improvvisamente se la fosse trovata tra le mani. Non si ricordava nemmeno se la coscienza di stringerla l’avesse fatta apparire e concretizzata in un oggetto, plasmandola materialmente dalla semplice idea astratta, o se fosse sempre stata lì. Anche la maschera era ricca e opulenta come quella città circondata dal fumo e probabilmente rialzata sul limite del mondo – la sua porcellana era lucida e liscia, attorno alle fessure degli occhi si dipingevano sofisticate linee blu e oro e viola, l’interno era delicato, rivestito in velluto cremisi, ogni dettaglio era cesellato, preciso, perfetto, modellato nella piena consapevolezza da mani artiste.

Dove si trovava, davvero? quel ponte sospeso ed immobile, quello scenario altrettanto sospeso ed immobile non erano che la rappresentazione onirica, una sfocata visione metafisica che entrava in un’altra dimensione di torpore. E se lui era l’unico ad essere sveglio, e ogni altra cosa era avvolta nella nebbia Questo significava che la sua coscienza e la sua immagine interna erano ciò che rimaneva di un potere superiore in un mondo di fantasmi opalescenti.

Quello che non capiva era perché –

“Lelio!” Thor si gettò sulla sua pancia. “Svelia, svelia, è presto!” Thor non sapeva ancora pronunciare la ‘gl’.

Lelio socchiuse gli occhi senza capire molto bene cosa stesse succedendo. Guardò Vittorio abbracciato a lui sul letto e Mircea che ridacchiava dietro lo stipite della porta.

“Sei stato tu! Tu gli hai detto di svegliarmi! È molto crudele.”

“Trovi?”                                                                                                                                                   

“Stavo facendo un sogno così surreale –“

“Thor, vai dalla mamma.”

Vittorio scese dal letto trotterellando verso la cucina. “Buonanotte!” Rise.

“Buonanotte amore! Lelio, sei arrabbiato con me?”

“Molto. Moltissimo. Per la prima volta mi addormento e sono in pace con me stesso e tu –“

“Quindi sei arrabbiato con me?” Ripeté Mircea sbattendo un po’ gli occhi.

“Oh, certo. Ma forse potrei perdonarti. Forse. Dovrai sforzarti.”

Mircea sospirò. Un’altra notte insonne.

 

 ___

Mi diverto a prendere in giro il lato intellettualoide di Lelio. In fondo sono un po' così anch'io, a tratti presa da tutto il mio orgoglio intellettuale, a tratti molko poco seria, come avrete notato. E' che penso, e penso, e alla fine non ricordo mai come ci sono arrivata. Boh. In realtà quando leggete queste parti "sofisticate" sono la sottile ironia dei miei viaggi mentali, nient'altro. Sono così autoironica...

Punto uno - L'étoile è l'unico, meraviglioso, inimitabile Roberto Bolle. I Tool sono un gruppo che non so come definire - ma se amate le cose oscure e complesse ascoltateli - e A Change of Seasons non lo dico neanche, beh... Devo aver infilato pure un pizzico di Catullo, somewhere.

Punto due - Sapete, sono andata al concerto dei Dream Theater. E' stato esaltante e doloroso (il giorno dopo) e volevo saltare sul palco e fare altre cose molko stupide, di tutte le volte che li ho visti, questa è stata senza dubbio la performance migliore. Li amo. Li amo. Li amo. Oh, sono così depressa ora che sono lontani...

 

* THANKS *

 

DianaV - Sono contenta che ti piaccia Ottavia, ho sempre paura di disegnarle troppo Mary Sue, le famale characers. In effetti lei è insopportabile in senso buono. E' molko me, solo con tre fratelli gnocchi. Per il resto, spero che il background della relazione tra Die e finto-Logan ti sia piaciuta. In effetti tutta la loro relazione è basata su quest'ambiguità di Die, che è come sospeso tra la "carriera" e la "musica", tra la vita pragmatica e l'idealismo della sua adolescenza. Ma hai visto che hanno sospeso Una Mamma per Amica! E io che aspettavo così tanto di godermi il vero-Logan ç____ç! Depressioooon...

 

Susy - Non ti preoccupare per il corto commento. Breve e intenso. Anche a me piaceva lo scorso capitolo, pure se oggettivamente non lo dovrei dire ^///^. Tralaltro è la cosa più graphic che abbia mai scritto, figurati. Non sono portata per le lemon (al contrario di qualcuno che è splendido in certe scene *emh emh*). Una volta ho letto da qualche parte, una frase di Eco, credo, che diceva una cosa tipo - Che altro potrebbe desiderare uno scrittore, se non essere un avverbio? - C'ho riflettuto parecchio, e gli do ragione. Gli avverbi non sono indispensabili, ma sono precisi, definiscono, cesellano, in un certo senso sono la parte più puramente estetica, ma non vana come gli aggettivi. Non so se rendo l'idea. La linguistica mi rende confusa. Comunque non c'erano avverbi nella frase di Ottavia, mi sembra di ricordare, quindi scelgo i verbi.

 

Lara - Sono felicissima di aver ricevuto un altro tuo commento (ho appena scritto un'altro con l'apostrofo!!! OMG!!!)

Per tutto quello che mi hai detto, perché sei felice che Lelio e Cea siano felici e questa è una cosa fondamentale, visto che in quanto scrittrice la massima realizzazione è creare una sorta di legame empatico con il lettore. Lelio, in realtà, si è sempre accorto della bellezza di Mircea. Solo non l'ha mai vista da quella prospettiva, come se ci fosse "dentro". Era sempre stata la bellezza oggettiva di qualcosa di esterno, ora, e più avanti diventa chiaro, la bellezza di Cea diventa intima, coivolgente, al punto che tarattatta non vi anticipo le ultime righe della fic.

 

Ringrazio anche tutti i lettori! Baci, al prossimo capitolo,

Martina.

   

 

     

 

   
 
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