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Autore: hipster    18/04/2013    3 recensioni
Kurt Hummel è un ragazzo come tanti: fuma, è il bullo della scuola, tutti lo temono e lo rispettano insieme al suo migliore amico Sebastian. Ma quando una notte sua madre gli farà visita, capirà che la sua vita ha bisogno di una svolta. Per riuscire a salvare la sua vita futura e la sua anima, dovrà servirsi dell’aiuto di un ragazzo, Blaine Anderson.
“Per redimerti completamente dovrai ottenere il perdono da qualcuno puro di cuore che hai ferito e per te ho scelto Blaine Anderson. Avrai il compito di renderlo felice e di esaudire tre dei suoi desideri più profondi. Ma la cosa più importante è che tu ti penta delle tue azioni passate, Kurt. Sii felice, piccolo mio.”
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Warblers/Usignoli | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Impossibile. Quello che stava accadendo non era reale. Non era possibile che sua madre fosse lì davanti a lui con le braccia incrociate e un’espressione corrucciata sul volto (così familiare, così vivo, proprio come lo ricordava). Sua madre era morta dieci anni prima e i morti non tornano indietro, l’aveva sperimentato proprio lui: prima sua madre, poi suo nonno... I morti sono morti per sempre. Aveva anche smesso di credere a quelle “favole” del Paradiso e i fantasmi, davvero? Stupide leggende per consolare i cuori troppo deboli per accettare la verità.

«Sto cominciando a fumare davvero troppo, cazzo.» borbottò incredulo, scuotendo la testa, perché era semplicemente impossibile che quello che vedeva fosse vero: doveva esserci un trucco, per forza. Forse era un ologramma o si era già addormentato e tutto quello era un sogno.

«Ti ho detto che non dovresti usare certe parole, Kurt. È da maleducati.» ripeté sua madre, la stessa voce di sempre, dolce ma severa, seppur con una certa eco, come se provenisse da molto lontano, come se Kurt fosse immerso sott’acqua. La figura di Elizabeth risplendeva di una tenue luce nell’oscurità e sembrava essere senza peso; il suo viso era pallido e liscio, privo delle rughe di sofferenza che avevano segnato i suoi ultimi giorni di vita. Sembrava una divinità bellissima e senza tempo completamente vestita con una tunica bianca, un angelo sterminatore a giudicare dalla postura rigida e dagli occhi severi.

«... Sei davvero tu, mamma?» chiese Kurt con voce flebile ed esitante dopo averla fissata a lungo. Non sapeva se classificarlo come un sogno o un incubo. Tante volte aveva sperato che sua madre tornasse da lui, ma aveva imparato a rassegnarsi col tempo. I lineamenti di Elizabeth si addolcirono e la donna sorrise, sebbene i suoi occhi azzurri fossero sempre severi. «Sì – disse con voce dolce, avvicinandosi a lui di pochi passi – sono io, Kurt.»

Il ragazzo spalancò gli occhi; probabilmente se fosse stato uno di quei film per teenager da pochi soldi sarebbe svenuto e caduto a terra come un sacco di patate. «Non è possibile.» disse, facendo un passo indietro per allontanarsi da quella cosa. «Tu non sei reale. I morti non ritornano e i fantasmi non esistono. Ho fumato troppo o Sebastian mi ha messo qualcosa nell’acqua a cena e non me ne sono accorto. Non è assolutamente possibile che tu sia vera, non puoi essere vera- perché se tu fossi vera, dove diavolo sei stata per tutti questi anni? Perché non sei tornata da me, quando piangevo la notte perché mi mancavi?» esclamò, la voce sempre più alta a mano a mano che le parole gli sfuggivano dalle labbra. Sentiva come uno tsunami pronto ad esplodere dentro i suoi occhi, ma non poteva permettersi di piangere: Kurt aveva smesso di piangere molto tempo prima e non poteva tornare a quell’esserino debole e malandato che era stato prima. Non poteva tornare ad essere il piccolo Kurt Hummel, il figlio di Burt Hummel e Elizabeth Daves morta dieci anni prima che tutti volevano stringere e consolare senza sapere che non si può consolare qualcuno con un abbraccio sbagliato – un abbraccio che non sia quello della persona che ami più di te stesso e senza la quale non vorresti mai continuare a vivere.

«Io sono vera, Kurt. Sono io.» lo interruppe sua madre, avvicinandosi ancora. Stavolta Kurt non si mosse e le permise di avvicinarsi a lui e di afferrargli le mani: erano leggere, sembravano quasi vuote, ma non erano trasparenti. Era come stringere tra le mani un palloncino. «Sono tornata adesso per metterti in guardia, piccolo mio.» disse lei in tono severo, stringendogli con più forza le mani.
«Se è uno scherzo, sappi che non è divertente.» borbottò Kurt, liberando una mano per potersi stropicciare un occhio, come se potesse svegliarsi definitivamente con quel gesto e scoprire che era tutto frutto della sua fervida fantasia – o di una qualche droga che gli aveva propinato Sebastian. Dio, se fosse stato quello il motivo delle sue allucinazioni, lo avrebbe ucciso.

«Non è uno scherzo, Kurt. Vieni con me; fidati di me.» disse Elizabeth, guardandolo con i suoi occhi luminosi e supplichevoli. Quando Kurt ebbe annuito dopo qualche istante, esitante e nervoso come mai prima di allora, lei si rilassò e sorrise. Sollevò la mano libera e schioccò le dita. Il suono risuonò nella stanza, acuto come un gong in una sala di meditazione, fin troppo alto per essere umanamente possibile. Kurt dovette resistere all’impulso di tapparsi le orecchie con le dita. Come era possibile che Sebastian non si svegliasse, con tutto quel casino?!

Quando si guardò intorno – aveva chiuso gli occhi senza nemmeno accorgersene – notò che non erano più nella sua stanza alla Dalton. Erano in un’ampia sala dorata, o almeno Kurt pensò fosse una sala: era talmente enorme e luccicante da non permettergli di distinguere le pareti: sembrava non avere inizio né fine. Degli orologi pendevano dal soffitto, milioni e milioni di orologi che ticchettavano in modo fastidioso, tutti in modo discorde all’altro. Alcuni erano grossi e di un materiale che assomigliava all’ottone, altri erano più piccoli, fatti d’oro, ed emettevano uno strano squillo ogni tanto, altri ancora somigliavano a sveglie d’argento.

«Dove siamo?» chiese senza fiato, dopo aver visto un orologio da taschino aprirsi e chiudersi da solo. «Nella Stanza del tempo, ovviamente» rispose sua madre, stringendogli la mano nella sua per poterlo condurre all’interno della sala. «Ogni orologio che vedi segna il tempo di una persona sulla terra.» spiegò, indicandone uno a cucù che batteva l’ora. «Ognuno ne ha uno proprio diverso a seconda del carattere e ognuno è unico nel suo genere, proprio come le persone. Scandiscono i giorni che ad una persona restano da vivere, anche se non sono immutabili ed eterni: il tempo può essere ingannato con le decisioni che prendiamo, con le cose che ci accadono e le azioni che compiamo.»

Mentre parlavano, Elizabeth gli fece cenno di fermarsi, poi camminò attorno a lui fino a sbarrargli la strada. «Ed è qui che arriviamo a te, Kurt. Tu stai prendendo una serie di decisioni, stai commettendo certe azioni che-»
«Oh mio Dio, sono in fin di vita?! Sapevo che era un brutto sogno alla Scrooge. Adesso mi mostrerai la mia tomba?» la interruppe Kurt in tono sarcastico, ridendo sommessamente. Non voleva ammetterlo nemmeno a se stesso, ma era quasi spaventato dalla risposta che gli avrebbe dato sua madre: non voleva certo morire a diciotto anni.

«No, Kurt, non sei in fin di vita.» rispose sua madre, ignorando volutamente il suo atteggiamento con pazienza. «Ma un giorno morirai. Non ti è dato sapere quando né come, ma succederà.». Con queste parole si scostò per mostrargli un piccolo orologio da taschino d’argento finemente decorato con volute e rampicanti. Quando Kurt sollevò una mano per toccarlo, questo si scostò da solo, aprendosi e rivelando l’interno. Le lancette erano ferme, segnando i minuti, mentre dal lato del coperchio era inciso un “Kurt Hummel” in una grafia elegante e ricca di volute che il ragazzo riuscì a leggere appena, poiché l’orologio continuava a muoversi.
«Sì, è il tuo.» disse Elizabeth, quando capì che Kurt era troppo scosso per poter parlare ancora. «Ho visto quanto tempo ti rimane, Kurt. E ho visto come lo passerai. Figlio mio, non puoi continuare così. Sarai dannato.» continuò la donna, accorata, con la voce quasi rotta dal pianto.

Kurt non rispose subito, troppo incantato a fissare l’oggetto miracoloso di fronte a lui. Sollevò di nuovo la mano per prenderlo, ma questo gli sfuggì ancora, allontanandosi ancora di più da lui, come se fosse vivo e spaventato da lui. «Intendi dire che finirò all’Inferno?» chiese poi, quando vide che sua madre non aveva intenzione di continuare a parlare.
«Il futuro può essere cambiato. Devi cambiare tu.» disse lei, senza rispondere esplicitamente alla sua domanda, anche se Kurt capì che sì, sarebbe finito all’Inferno se non avesse cambiato il suo atteggiamento. «Cosa devo fare?» chiese Kurt, sospirando sconfitto. «E funziona sempre così per tutti quanti i delinquenti? Le loro madri morte li visitano per riportarli sulla retta via?» non poté impedirsi di chiedere, guardandola con aria di sufficienza: aveva bisogno di prove che tutto ciò che stava vivendo era reale.
Lo sguardo di Elizabeth si addolcì. «No, amore mio. Tu sei speciale e io credo in te. Credo che tu sia buono e credo che tu possa cambiare in meglio. Per questo mi hanno dato questa possibilità – ti hanno dato la possibilità di cambiare e di meritarti la felicità. Potrai fare cose straordinarie se solo vorrai, ma Kurt, dovrai guadagnarti la tua redenzione.» disse dolcemente ma decisa, mettendogli le mani sulle guance per impedirgli di guardare altrove se non i suoi occhi e il suo viso.

Il viso di Kurt si contorse in una smorfia: lui non credeva così tanto in se stesso, ma quella che gli stava dando quella possibilità era sua madre: non ci credeva fino in fondo e amava la sua vita incasinata che si era costruito, ma anche lui per una volta – forse – voleva darsi una possibilità per migliorare. «Va bene – acconsentì annuendo – cosa devo fare?»
Il viso di Elizabeth si illuminò di pura gioia e sembrò dovette combattere fisicamente con se stessa per non gettargli le braccia al collo e abbracciarlo con tutta la sua forza. «Ce la farai, vedrai.» disse lei felice. «Dovrai aiutare una persona, un ragazzo alla Dalton. Blaine Anderson.»
 

******

 
Kurt si svegliò la mattina successiva con uno strano peso sullo stomaco e la sensazione di aver dimenticato qualcosa di fondamentale. Un compito in classe? Una riunione con il preside? Non gli importava granché. Anche senza impegnarsi molto era sempre stato uno studente modello, imparare cose nuove gli piaceva e lo faceva sentire migliore. Si alzò a sedere, stiracchiandosi per sciogliere i muscoli delle spalle e si stropicciò gli occhi per dissipare il sonno. Si voltò verso il letto del suo amico, ma Sebastian non era in camera, segno che con ogni probabilità era ancora troppo presto e il ragazzo la notte prima era sgattaiolato via mentre dormiva per andare da Hunter (Sebastian lo avrebbe negato fino alla morte, ma tra lui e Hunter c’era del tenero, Kurt ne era certo). Si costrinse ad alzarsi, anche se la temperatura fredda della sua camera lo implorava di restare a letto a rotolarsi tra le coperte, e si preparò lentamente, godendosi la solitudine e il silenzio; era raro che potesse prepararsi senza che Sebastian o la sveglia gli mettessero fretta.

Mentre si preparava, ebbe il tempo di pensare. Mentre era sotto la doccia aveva ricostruito nella mente ogni istante del “sogno”, aveva rivissuto ogni momento per cercare di capire cosa potesse essere vero e cosa no. La prima cosa da decidere era: era stato una fantasia oppure no? La parte razionale di lui gli diceva di sì, che era uno stupido solo a considerare che l’alternativa fosse reale. Ma sotto sotto sapeva che non avrebbe mai potuto immaginare tutto da solo: la visita di sua madre, la Stanza del tempo, l’orologio che scandiva la sua vita. E in più la nuova aggiunta alla sua scrivania sicuramente era un indizio tangibile e reale: un piccolo block notes nero.
Lo aprì, sospirando sommessamente. Sulla prima pagina campeggiava una scritta nera ed elegante: “La lista dei desideri”. Kurt sfiorò il foglio con le dita tremanti e si morse il labbro inferiore con forza. Non riusciva a credere a quello che gli aveva detto sua madre.

“Per redimerti completamente dovrai ottenere il perdono da qualcuno puro di cuore che hai ferito e per te ho scelto Blaine Anderson. Avrai il compito di renderlo felice e di esaudire tre dei suoi desideri più profondi. Ma la cosa più importante è che tu ti penta delle tue azioni passate, Kurt. Sii felice, piccolo mio.”

Come poteva convincere Blaine che non era uno scherzo e che voleva davvero aiutarlo? Sarebbe stata una follia, il ragazzo gli avrebbe riso in faccia se non fosse scappato subito davanti a lui. Però doveva tentare. Per sua madre. Per se stesso. E anche Blaine si meritava i suoi tre desideri dopo quello che era successo, anche se era un damerino figlio di papà.
Uscì dalla sua camera per andare in caffetteria, dove sperava di trovare Blaine. In un luogo affollato non avrebbe potuto fuggire da lui e sarebbe stato più tranquillo e ragionevole, o almeno sperava non sarebbe stato così folle da urlargli contro davanti a tutti o fuggire. Quando entrò, spalancando la porta, scrutò ogni tavolo alla ricerca di una testa ricoperta di gel e la trovò – al tavolo degli Usignoli, ovviamente. Era così ovvio che quel Blaine frequentasse le rock star della Dalton. Aveva proprio tutto quello che quei damerini canterini cercavano. Si avvicinò al loro tavolo con fare deciso e arrogante, anche se sperava non minaccioso; cominciò a dubitarne quando vide che un primino sbarrava gli occhi nel riconoscerlo e si affrettava a bisbigliare qualcosa nell’orecchio del suo vicino che a sua volta lo guardò terrorizzato e fece per alzarsi.

«Blaine.» lo chiamò semplicemente, quando fu abbastanza vicino da essere udito. Il ragazzo era di spalle ed evidentemente non aveva riconosciuto la sua voce, perché quando si voltò il suo viso era ancora aperto e luminoso per le risate che stava cercando di contenere. Però quando riconobbe chi lo aveva chiamato si irrigidì e si morse il labbro inferiore. «Ehm... Ciao?» provò con voce esitante e flebile. Sembrava imbarazzato, ma anche impaurito. Kurt quasi si pentì all’istante di quello che aveva fatto, perché quegli occhi schivi e spaventati da cucciolo erano davvero troppo anche per lui. «Posso parlarti?» disse, indicando un tavolo vuoto poco distante da quello a cui era seduto Blaine. Il ragazzo deglutì vistosamente, ma annuì a malincuore e si alzò: forse credeva di non avere altra scelta se non assecondare Kurt in tutto. Kurt temette quasi che un ragazzo lo trattenesse per la manica e lo costringesse a restare lì. Per l’amor del cielo, metteva davvero così tanta paura? Sebastian ne sarebbe stato contento. Kurt si voltò e gli fece strada fino al tavolo dove si sedette. Blaine lo imitò, seppur nervosamente; stava seduto sul bordo della sedia, come se fosse pronto ad alzarsi e correre il più velocemente possibile lontano da lui. Se non fosse stata ampiamente giustificata, quella mancanza di fiducia avrebbe potuto sinceramente offendere Kurt.

«Volevo chiederti scusa.» disse con difficoltà, dopo qualche minuto di silenzio. Non aveva mai chiesto scusa a nessuno per qualcosa che aveva fatto. Non che adesso si sentisse davvero in colpa per quello che avevano combinato lui e Seb, ma faceva parte del piano, no?
«... Volevi chiedermi scusa?» gli fece eco Blaine con gli occhi spalancati colmi di sorpresa. Adesso che Kurt era così vicino a lui poteva vederlo bene in viso: c’era qualcosa di estremamente dolce nei suoi lineamenti decisi e marcati, le sue labbra piene e rosee erano semiaperte per lo stupore. Quando Kurt si soffermò sui suoi occhi fu tentato di chiedergli di che colore fossero: erano strani, sembravano... nocciola. Con una sfumatura di verde e- adesso che aveva mosso la testa però il sole li illuminava in modo diverso e sembravano ancora diversi rispetto prima...

Datti un contegno si disse, scuotendosi di dosso quelle sensazioni inappropriate. «Sì, esattamente.» annuì. «Mi sono comportato in maniera imperdonabile nei tuoi confronti, io e Sebastian abbiamo esagerato. E mi dispiace.» disse, cercando di sembrare sincero e di sentire sinceramente quelle parole dentro di sé. Blaine espirò sollevato – probabilmente aveva sinceramente creduto che Kurt volesse fargli ancora del male e a questo pensiero Kurt si sentì davvero un po’ in colpa. «Accetto le tue scuse.» disse Blaine dopo qualche secondo di silenzio, abbozzando un sorriso gentile. Kurt poté sentire il suo corpo rilassarsi, e non si era nemmeno accorto di avere i muscoli in tensione.

E la prima parte è andata...

« Vorrei fare qualcosa per farmi perdonare.» continuò Kurt frettolosamente, quando vide che Blaine si stava alzando. «Ma non ce n’è bisogno. – disse il riccio in tono cordiale – ti ho già perdonato. Non mi aspettavo che tu ti scusassi, perciò sei già perdonato, davvero.» disse, alzandosi e facendo per allontanarsi.
«Blaine, io devo.» lo interruppe Kurt, alzandosi a sua volta e trattenendolo per il braccio. «Per favore. Io devo aiutarti.» disse e si odiò perché anche alle sue orecchie le sue parole sembravano quasi una supplica.  «Che- Che vuoi dire?» disse Blaine confuso, aggrottando le sopracciglia spesse in una maschera di confusione.
«Vieni con me, facciamo una passeggiata.»



 

Modificato il 04/01/2014
   
 
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