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Autore: hipster    15/04/2013    4 recensioni
Kurt Hummel è un ragazzo come tanti: fuma, è il bullo della scuola, tutti lo temono e lo rispettano insieme al suo migliore amico Sebastian. Ma quando una notte sua madre gli farà visita, capirà che la sua vita ha bisogno di una svolta. Per riuscire a salvare la sua vita futura e la sua anima, dovrà servirsi dell’aiuto di un ragazzo, Blaine Anderson.
“Per redimerti completamente dovrai ottenere il perdono da qualcuno puro di cuore che hai ferito e per te ho scelto Blaine Anderson. Avrai il compito di renderlo felice e di esaudire tre dei suoi desideri più profondi. Ma la cosa più importante è che tu ti penta delle tue azioni passate, Kurt. Sii felice, piccolo mio.”
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Warblers/Usignoli | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Salve a tutti!
Sì, sono ancora qui. Gli alieni non mi hanno rapita e voi non mi avete ancora uccisa perché ho ben tre storie lasciate in sospeso (forse non dovrei ricordarvelo con così tanta nonchalance, mhh...). Sono tornata con questa nuova storia perché... boh, mi andava di farlo.
La trama è ispirata ad un libro meraviglioso che mi sono ripromessa di finire presto, "La lista dei desideri" di Eoin Colfer. E niente, spero vi piaccia, perciò fatemi sapere con una piccola recensione. 

Recensire i capitoli altrui allunga la vita, ricordatelo sempre u.u
A presto,
Allie <3





«Era una donna meravigliosa e tutti noi la ricorderemo con affetto» disse l’officiante, mentre un’elegante bara di legno frassino veniva calata nella profondità della terra. La lapide di marmo bianco quasi feriva gli occhi con il suo candore sullo sfondo verde dell’erba: “Elizabeth Daves” vi era inciso sopra le date di nascita e di morte.
Kurt strinse le palpebre per dissipare le ultime lacrime e concentrarsi su quel nome dorato, come se, ignorando tutto il resto, quello che stava accadendo attorno a lui potesse svanire nel nulla e la sua mamma potesse tornare da lui, per abbracciarlo e farlo sorridere di nuovo.
Ma c’era la mano di suo padre Burt, forte e calda, a tenerlo ancorato alla realtà: a certe cose semplicemente non puoi sfuggire, non importa per quanto tempo o quanto faticosamente ci provi. Non puoi nasconderti tra i vestiti nell’armadio e fingere di non esistere, perché la vita pretende che tu esca e la affronti, che tu sia pronto o meno per farlo. La vita è spietata e crudele e non aspetta. Ti afferra con i suoi artigli acuminati e ti mette davanti alla realtà, che non è sempre idilliaca.
Kurt asciugò le lacrime sul suo visino pallido e umido e strinse forte la mano di Burt: anche se la sua mamma stava per essere coperta da terra, il suo papà sarebbe stato sempre con lui; lo avrebbe protetto da ogni male e lo avrebbe consolato e rassicurato. Questi pensieri lo consolavano abbastanza, anche se la sensazione di solitudine gli faceva ancora dolere il petto. La mano di suo padre era calda e ruvida in un modo così piacevole e familiare da fargli torcere lo stomaco. La sua mente era affollata di dubbi e domande che non aveva il coraggio di pronunciare, ma la sua curiosità alla fine ebbe la meglio e sollevò lo sguardo per poter guardare suo padre.
«Papà, perché si muore?» sussurrò. L’aveva chiesto un milione di volte da quando era successo “il fatto”, ma Burt non si stancava mai di rispondergli. «Per andare in Paradiso, Kurt. In cielo non puoi portare con te il tuo corpo, è troppo pesante, per questo devi lasciarlo qui.» rispose pazientemente; la sua voce sembrava più calma e tranquilla a mano a mano che ripeteva questa frase. Kurt si chiese se forse suo padre la ripeteva a se stesso nella sua mente mentre stava in silenzio a guardare la tomba della mamma.
E come se fosse il copione di una scena già scritta e recitata troppe volte, il bambino ribatté: «È stata la mamma a voler andare via, quindi? Non voleva restare qui con me?». La sua voce uscì fuori esitante e preoccupata e Burt poté giurare che suo figlio fosse sull’orlo di scoppiare a piangere di nuovo, perciò scosse la testa: «È Dio che decide, Kurt. Quando siamo pronti, Lui ci chiama e noi possiamo solo andare con Lui. Se siamo stati abbastanza buoni, ci concederà di restare in Paradiso. È un posto bellissimo, sai? Si è sempre felici lì; tutti sono buoni e gentili con te e puoi giocare tutto il giorno.» rispose.
«Odio Dio» sbottò Kurt. «Non avrebbe dovuto chiamare la mamma. Non ancora almeno. Lei qui con noi era felice!»
«... Sì, lo era.» sospirò Burt rassegnato. Spiegare a suo figlio le dinamiche di un “mondo” e di una personalità in cui non credeva poi così tanto era difficile; ma sperava che Kurt potesse consolarsi almeno un po’ al pensiero che sua mamma fosse libera e felice in un posto meraviglioso, anziché fredda e pallida in una bara in attesa di dissolversi nel nulla. Forse un giorno gli avrebbe detto sinceramente cosa pensava, ma per qualche anno, forse, poteva ancora raccontargli le “favole” di Elizabeth.
«Io non sarò mai buono, così Dio non mi chiamerà mai.» disse Kurt dopo un momento di riflessione. «Dio chiama sempre le persone buone.»
«Dio chiama tutti, i buoni e i cattivi, però i cattivi finiscono all’Inferno. E io spero proprio che tu abbia il buonsenso di scegliere di essere buono, altrimenti niente più tea party per un mese.» lo ammonì Burt in tono severo, mentre Kurt si voltava verso di lui con fare accigliato.
«Papà, tanto a Dio non importa» borbottò Kurt, sentendo altre lacrime scivolare sulle sue guance, mentre alcuni uomini si avvicinavano a Burt per fargli le condoglianze. «Non Gli importa di nulla.»
 

******

 
Kurt soffiò fuori il fumo, abbozzando un sospiro. Il campo da football era deserto, come anche le gradinate: non c’era anima viva. Solo pace. Kurt amava venire qui di nascosto, mentre gli altri dormivano; se lo avessero beccato sarebbe stato un problema – alla Dalton erano molto severi per la faccenda del coprifuoco, ma al ragazzo non importava un granché: a chi importava se veniva mandato dal preside ancora una volta?
Aspirò ancora dalla sigaretta sentendo il fumo maligno inondargli i polmoni. Un tempo odiava persino l’odore del fumo in una stanza, ma da quando aveva provato per la prima volta a tredici anni non aveva più smesso. Il fumo lo calmava ed era una cosa che riusciva a controllare, al contrario di tutto il resto. Fumava quando ne aveva voglia, smetteva quando voleva, decideva se e quando accendere un’altra sigaretta e in presenza di chi: sono poche le cose che ti permettono di essere controllate in questo modo.
Non che Kurt fosse un maniaco del controllo, ma aveva vissuto abbastanza nei suoi diciotto anni da imparare ad apprezzare le cose che possono essere controllate. Quando ti succede di tutto e di più, capisci che una sigaretta ogni tanto non è poi un’idea così cattiva. Poi il fumo gli faceva compagnia; lo osservava mentre saliva leggero verso il cielo scuro e lo invidiava per essere così libero come lui non poteva mai esserlo in quella prigione dorata che era la Dalton, in cui l’aveva chiuso suo padre. “Per il tuo bene” gli aveva detto. Per impedirgli di fare cose stupide. Per non vederlo più in giro a ciondolare per strada. Per non dover più ricevere telefonate in officina dal preside Figgins perché aveva combinato casini. Kurt quasi lo odiava per questo: odiava la Dalton e odiava chi la frequentava; odiava che lì i professori e il preside li volessero tutti uguali, tutti intelligenti, tutti bravi ragazzi, tutti perfetti.
Kurt sapeva di non poterlo essere, semplicemente perché era un essere umano e non una di quelle macchine addestrate ad essere gentili e cordiali e oh, così educati figli di papà. Erano tutti così a parte Sebastian. Il suo migliore amico e coinquilino. Kurt era stato molto fortunato ad essere messo in stanza con “il nuovo arrivato” Sebastian Smythe, ricco e viziato come tutti alla Dalton, ma arrogante e cattivo come pochi. Kurt si trovava bene in sua compagnia; Sebastian aveva il suo stesso animo tormentato, sentiva l’insofferenza che provava Kurt nei confronti della Dalton e come lui tentava di ottenere più piacere possibile da quell’esperienza. Erano entrambi due grandi casinisti.
Lasciò cadere il mozzicone a terra, prima di pestarlo con forza per spegnerlo e fu davvero solo, o almeno così credeva. Un rumore di passi gli fece alzare lo sguardo e riuscì a riconoscere una figura nera che si stava avvicinando a lui nel buio, risalendo le gradinate. Sorrise quando finalmente lo riconobbe: «Hey, ‘Bas» esclamò cordialmente, facendogli cenno di sedersi accanto a lui. Ovviamente era Sebastian: chi altri poteva essere? Il ragazzo sorrise a sua volta e si lasciò cadere accanto a Kurt, voltandosi verso di lui per poterlo guardare: «Che ci fai qui da solo?» chiese, aggrottando le sopracciglia. «Credevo che fossimo sempre in due ad infrangere il coprifuoco della Dalton» aggiunse in tono quasi risentito, quando Kurt non rispose subito.  Sebastian gli ricordava spesso un bambino capriccioso, quando faceva così: non accettava di essere in qualche modo escluso, non permetteva a nessuno di ignorarlo.
«A volte ho bisogno di stare un po’ da solo» rispose il ragazzo a mo’ di spiegazione, porgendogli il pacchetto mezzo pieno di sigarette come segno di pace. Sebastian sospirò e ne prese una, per poi accenderla; la fiamma dell’accendino illuminò il suo viso per un istante: le sopracciglia erano corrugate sopra occhi verdi e intensi, le mani chiuse a coppa attorno alla sigaretta che sembrava in precario equilibrio stretta tra le labbra. Sebastian era davvero molto bello, Kurt doveva confessarlo a se stesso, ma sapeva che non ci avrebbe mai provato con lui. Prima di tutto erano amici e Sebastian lo vedeva solo come un amico; ma cosa più importante, Kurt era un sognatore, anche se faticava ancora ad ammetterlo. Sognava ancora l’amore, sperava ancora di poter essere fortunato quanto uno dei personaggi dei suoi musical preferiti che riusciva a trovare qualcuno che lo amasse e rispettasse completamente e follemente. Ci sperava, anche se non ci credeva fino in fondo; sapeva di essere un completo disastro.
«E tu che ci fai qui?» continuò Kurt dopo un po’, riprendendo l’accendino e mettendolo al sicuro nel pacchetto e poi in tasca: ne aveva persi fin troppi a causa di Sebastian e, anche se era il suo migliore amico, era ancora fottutamente difficile trovare il modo di portare delle sigarette e accendini decenti nel campus senza che nessun professore idiota gliele sequestrasse. La stupida politica della Dalton contro il fumo, l’alcol e la droga era divertente e rendeva il tutto eccitante, ma era abbastanza seccante. «Ti cercavo» rispose il ragazzo, sollevando le spalle con fin troppa nonchalance e espirando il fumo; le sue labbra erano atteggiate in un sorrisetto che Kurt amava con tutto se stesso: quel sorriso significava che sarebbero entrati in azione molto presto.
«Chi e dove.» disse semplicemente, alzandosi in piedi. Sapeva cosa li aspettava e non poteva esserne più felice: ne aveva bisogno; aveva bisogno di qualcosa che lo riscuotesse da quella stupida apatia. «Blaine Anderson, terzo anno.» rispose Sebastian, inspirando ancora una volta, con lentezza studiata. «Lo avrai visto sicuramente alla riunione dei Fringuelli» aggiunse con un sorrisetto di scherno, quando vide l’espressione pensierosa di Kurt, mentre cercava di associare un viso a quel nome. Il viso del ragazzo si illuminò, quando riuscì a ricordare: «Il piccolo Hobbit con la passione per il gel per capelli?» chiese per sincerarsene, ridacchiando divertito all’idea.
«Lui. – annuì – È uno di quei figli di papà super noiosi, scommetto che non ci proverà nemmeno a reagire.» rispose Sebastian. Kurt annuì a sua volta e gli fece cenno di alzarsi, mentre gli dava le spalle per poter scendere dalle gradinate e raggiungere il campus.
Mentre passeggiava fianco a fianco con Sebastian, chiacchierando con lui del più e del meno, pensò a Blaine: c’era qualcosa in quel ragazzo che lo aveva irritato fin dal primo istante in cui l’aveva visto. Era troppo gentile, troppo educato, troppo intelligente; troppo tutto. Era ancora più fastidioso degli altri damerini. Perciò era quasi felice che Sebastian lo avesse scelto come la loro prossima vittima.
Ogni mese sceglievano un ragazzino da spaventare e derubare. Tutti quei fighetti figli di papà non avevano bisogno di tutti i soldi che si portavano dietro, e anche in una scuola “in cui il bullismo non era accettato” c’era bisogno di un capo. Il compito di Kurt e Sebastian era semplicemente ricordare a tutti che in quella scuola comandavano ancora loro.  
I due ragazzi raggiunsero il campus e poi la camera di Blaine. Il ragazzo aveva una camera singola, come previsto. Più semplice e più efficace. Sebastian sorrise vagamente prima di prendere dalla tasca un coltellino per forzare la serratura della porta; la Dalton era una vecchia scuola e anche se i genitori di ogni studente pagavano moltissimi soldi per mandare i loro damerini a scuola lì, l’edificio non era mai stato ristrutturato interamente, specialmente i dormitori non erano in ottime condizioni; certo, sarebbero stati in migliori condizioni se Kurt e Sebastian non si fossero iscritti. La luce del bagno era ancora accesa, lo avevano notato prima dalla finestra, quindi dovevano essere molto veloci e silenziosi, affinché il ragazzo non si accorgesse che stavano scassinando la porta finché non fossero entrati.
Riuscirono a spalancare la porta dopo pochi secondi e nello stesso istante Blaine entrò in camera dal bagno: indossava ancora il blazer, sebbene nel campus, alla fine delle lezioni, non fossero obbligati ad indossarlo. Kurt detestava quel blazer con tutto se stesso: li rendeva tutti uguali, quando era assolutamente evidente che non lo erano. Quel damerino sicuramente non era come lui, non pensava ciò che pensava lui e non aveva vissuto ciò che lui aveva vissuto. In quell’istante si odiò per non essersi cambiato prima, come Sebastian che indossava pantaloni sportivi e una maglietta nera.
«Chi siete voi?!» esclamò Blaine stupefatto, spalancando gli occhi e guardandoli con i suoi occhioni da cervo, come se quei due ragazzi fossero due fantasmi usciti dai suoi incubi da bambino. Kurt lo detestò ancora di più per questo: Blaine gli ricordava un ragazzino indifeso, troppo simile al se stesso che aveva lasciato al McKinley tanto tempo prima.
«Servizio d’ordine» rispose Sebastian con un sorrisetto cattivo, che fece indietreggiare Blaine. Kurt poteva quasi vedere il nervosismo fluttuare nell’aria tra loro, mentre la realizzazione di ciò che stava per accadergli colpiva Blaine in piena faccia. Il riccio piantò i piedi per terra – Kurt poteva immaginarselo benissimo mentre nella sua mente si rimproverava per essersi mostrato debole e spaventato – e strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani: sembrava quasi l’avesse già fatto prima e questo colpì molto Kurt: di solito a questo punto le vittime scoppiavano a piangere.
«Io so cosa volete. Andatevene o chiamo qualcuno.» disse Blaine con voce volutamente decisa e ferma: Kurt provò quasi compassione per lui quando vide Sebastian che imperterrito entrava completamente nella stanza, lasciandolo fuori; Kurt sapeva che dietro quella spavalderia Blaine stava tremando nel suo piccolo blazer come una foglia scossa dal vento. Non poté fare a meno di ricordare quando era lui a tremare per un ragazzo più forte e più grosso di lui, finché un giorno non aveva deciso di seguirlo per vomitargli addosso tutto il suo disprezzo e picchiarlo finché non fosse ricoperto di sangue e sudore.
«Non prima di averti dato il benvenuto, Blaine.» continuò Sebastian, avvicinandosi di più al ragazzo che intanto indietreggiava ancora fino a toccare la scrivania con il sedere. Sebastian gli sorrise – uno di quei sorrisi che a Kurt ricordavano sempre una tigre che ha appena intrappolato la sua preda e si compiace di torturarla prima di divorarla davvero – e gli prese il mento tra il pollice e l’indice, sollevandogli leggermente il viso come per poterlo guardare meglio.  Studiò i suoi lineamenti per un po’, poi il suo sorriso si allargò: «Sei carino.» disse semplicemente, come se fosse una semplice constatazione. «Non è carino, Kurt?» continuò, quando sentì Blaine tremare e ritrarsi per sfuggire alla presa delle sue dita.
Kurt, intanto, stava rovistando ovunque alla ricerca di oggetti di valore per poi rovesciarli nel proprio zaino e quando si sentì chiamato in causa raddrizzò la schiena e guardò il suo amico gelidamente: «Non pensarci nemmeno, ‘Bas. – lo ammonì in tono severo – L’altra volta è finita malissimo. Non devi toccarlo... Sebastian!» si interruppe, guardando torvo il ragazzo che stava tentando di baciare Blaine.
«’Bas, smettila. Non puoi farlo senza il suo consenso, sarebbe violenza sessuale e tu non hai bisogno di un’altra denuncia così grave sulla tua fedina penale!» esclamò Kurt con voce stridula, trattenendo un sospiro sollevato quando vide che il ragazzo gli aveva dato ascolto e si era staccato – a malincuore – dalle labbra ora arrossate (e particolarmente invitanti, doveva ammetterlo) di Blaine.
«Lo so, lo so. Hai ragione, mammina.» disse Sebastian in tono annoiato, lasciando andare del tutto un Blaine ora ammutolito per poter aiutare Kurt a raccattare la roba. Con la coda dell’occhio, Kurt vide il ragazzo che li guardava come stralunati, sfiorandosi le labbra come se non gli appartenessero più.  «Primo bacio?» ipotizzò con aria di scherno, guardandolo con freddezza;  Blaine non rispose, ma il rossore che si dipinse sulle sue guance fu piuttosto eloquente.
«An- Andate via, o chiamerò qualcuno.» disse Blaine, con voce flebile e tremula. Sebastian gli sorrise: «Andiamo via, non preoccuparti.» disse in tono rassicurante, mettendosi lo zaino ora pieno e pesante in spalla. Si avvicinò di nuovo a Blaine e Kurt poté vedere il ragazzo tremare violentemente mentre Sebastian gli catturava di nuovo il mento con una mano e lo attirava a sé per baciarlo. «Sei impossibile, ‘Bas» sbuffò infastidito ma celando un sorriso, cosa che fece ridacchiare Sebastian, che aveva ancora il viso a pochi centimetri da quello di Blaine.  
«Prova a chiamare qualcuno, Blaine, e sei morto.» sussurrò il più alto sulle labbra di Blaine con voce dolce, prima di lasciarlo andare e uscire fuori, seguito da Kurt.
Kurt non si voltò indietro, ma sentì solo un tonfo – la porta che si chiudeva.

 

******


«Perché l’hai baciato? Non avresti dovuto!» esclamò Kurt, non appena furono al sicuro nella loro camera. Avevano appena messo a posto i soldi appena “guadagnati”, dopo averli divisi. «Mi piaceva. Aveva delle belle labbra.» rispose Sebastian, sollevando le spalle. «Non voglio discutere delle mie ragioni, dormiamo!» continuò, quando vide che Kurt stava per aggiungere qualcosa e continuare a discutere su quanto “è sbagliato e pericoloso. Non dobbiamo metterci in guai troppo grossi per noi, hai dimenticato l’ultima volta e blablabla” . Il ragazzo sbuffò infastidito, ma annuì. Spense la luce e si infilò sotto le coperte, vestito con i soli boxer: nella loro camera faceva molto caldo e anche se Sebastian era gay non lo metteva mai in imbarazzo essere semi-nudo davanti a lui. Aveva superato la fase in cui si imbarazzava al solo pensiero di mostrare un po’ di pelle. Sapeva di essere attraente, anche se non era perfetto.
Aveva appena chiuso gli occhi, quando udì un fruscio. Convinto che fosse solo Sebastian che si sistemava sotto le coperte, lo ignorò e sospirò stancamente: era stata una lunga giornata all’insegna della fuga dalle responsabilità. Quasi all’improvviso cominciò a tremare per il freddo: forse non era stata una buona idea non mettere il pigiama, anche se ne fu sorpreso; non aveva mai sofferto così tanto il freddo. Si alzò, cercando di non far rumore, per poter recuperare un paio di pantaloni della tuta gettato sul fondo dell’armadio. La camera sembrava più buia del solito e inciampò nella sedia, perciò imprecò sommessamente mentre si massaggiava il piede e si voltava verso Sebastian per assicurarsi di non averlo svegliato.
«Non dovresti usare certe parole.» disse una voce. Era eterea e lontana, ma molto, molto familiare; come proveniente da un sogno dimenticato. Kurt si voltò verso la porta, le sopracciglia inarcate per lo stupore:
«Mamma?!»




N.B. Modificato il 04/01/2014

   
 
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