Le sue
labbra erano rosse e le sue mani erano calde. Le passava fra i fili dorati dei
capelli, stringeva le labbra con aria severa.
Wendy era capace di capire
quando poteva far qualcosa, e quella era una delle volte in cui, decisamente,
poteva.
Si stava giusto annoiando, e l’idea di un Principe tutto suo la
esaltava. Cosa gli avrebbe fatto fare? Che regali potevano scambiarsi? A che
giochi meravigliosi avrebbero giocato, soltanto loro due, correndo fra fiori ed
alberi?
L’aveva appena visto, eppure già le apparteneva.
E la cosa
divertente è che non si sbagliava affatto.
Con il
passare del tempo, aveva capito meglio la situazione. Che il Principe fosse una
bambina non la turbava, perchè non c’era nulla che cambiasse. In realtà era
chiaro fin dall’inizio, benchè Wendy non volesse ammetterlo. Le bambine capivano
tante cose in più dei maschi, che stavano tutto il giorno a far sbattere
legnetti fra di loro.
Ed il suo Principe era così perfetto da essere una
bambina. Lei esigeva solo la perfezione e l’aveva ottenuta.
Un sorriso
bastava a rendere il suo Principe inquieto, tremante. Era talmente timido,
avrebbe fatto di tutto per lei. Wendy parlava con voce sottile e il suo Principe
le sfiorava le mani, con quella dolcezza infantile che entrambe non avevano mai
conosciuto.
Wendy premeva le dita intorno ai suoi polsi e rideva. Il Principe
tentava di sorridere, con un’espressione spaventata e confusa.
La confusione
nei suoi occhi era divertente. Era bella.
E finchè le cose stavano così,
tutto era contenuto, perfetto, pulito.
Poi arrivò il lurido cane.
Il
Principe aveva ottenuto un nome. Un’identità in cui lei, Wendy, non c’entrava
nulla.
Jennifer.
Wendy odiava Jennifer, quella bambina pallida e placida.
La spiava giocare con quel botolo detestabile e stringeva i pugni così forte da
sanguinare. Le aveva rubato il suo principe, aveva preteso di toglierle ciò che
aveva di più prezioso.
Il gioco era finito. Si era frantumato. Violento.
Rosso. Crudele.
Wendy era stata buona con quella bambina sporca. Le aveva
chiesto di buttar via quell’essere orrendo, di tornare da lei. Le aveva permesso
di redimersi, senza subire castighi. Ma Jennifer era stupida, non aveva capito
nulla. Nel cortile interno, con svolazzare di gonne e rumore di scarpe sul
terreno, giocava con la gioia negli occhi.
Ed era troppo, troppo, per la
pazienza di Wendy. Qualcosa andava fatto. Subito.
Se il principe non esisteva
più, cosa poteva farsene di Jennifer?
Se Jennifer non desiderava tornare da
lei, come poteva farla soffrire?
Come poteva farla piangere fino a scusarsi,
fino a chiederle perdono in ginocchio, come avrebbe dovuto fare fin
dall’inizio?
Fu alla
vista del sangue che Wendy comprese di aver esagerato.
Un solo attimo di
rimorso per quel povero cane. Strinse le labbra e tentò di dimenticare.
La
tela del sacco che si macchiava, i guaiti, la scintilla dentro. Il silenzio.
Morto...?
Annientato, sconfitto?
Era tutto finito?
Prima che le
altre iniziassero a seppellirlo, Wendy sfiorò la tela, incerta. Non voleva
mostrare un ripensamento. Perchè ormai, sì, ormai non era possibile. Non voleva
mostrare di aver cambiato idea.
Forse sarebbe bastato corrersi incontro e
abbracciarsi.
Forse sarebbe bastato parlare e svelare segreti.
Forse
sarebbe bastato smetterla di vendicarsi di tutto su Jennifer.
Fu solo un
attimo, in cui Wendy pensò di volerla come amica, davvero. Desiderò darle la
mano e far pace, come fanno tutte le bambine normali.
Ma quando lo pensò
Brown era già morto, in un sacco sporco di rosso. Era tutto fatto.
Wendy
conosceva bene l’irrimediabilità della morte.
Ed ebbe paura, lì, in piedi di
fronte al cadavere, circondata da sudditi in attesa.
Paura di non poter
rimediare. Di aver combinato qualcosa. Di aver segnato per l’ennesima volta la
sua condanna alla solitudine.
Perchè Jennifer, e lei lo sapeva, non avrebbe
mai potuto perdonare.
Fece cenno agli altri e si allontanò piano, in
silenzio, ad occhi bassi.
Gli
schiaffi arrivarono così veloci da non essere compresi.
Jennifer che urlava,
che sgranava gli occhi, che lacrimava e diceva delle parole troppo strane,
troppo piene di ribellione per essere sue.
Jennifer che non l’avrebbe amata
mai più, nemmeno chiedendo scusa, perchè non era più una cosa da bambini, perchè
Wendy aveva passato il limite consentito.
Aveva ucciso Brown e l’amicizia, la
fiducia di Jennifer. Niente rimedio.
Non c’era più alcuna possibilità di
essere perdonata.
E mentre ascoltava le parole di Jennifer, cercando di
capire, di afferrarne il senso, troppi pensieri le scuotevano il petto.
Non
aveva funzionato. Nulla aveva funzionato. Nulla avrebbe mai più
funzionato.
Dopo, aveva iniziato a correre.
All’inizio non sapeva dove
andare. Fuori dall’orfanotrofio, nel mondo, non esisteva un posto per lei.
Nessuno. Nulla.
L’erba le macchiava il vestito, i sassi la facevano cadere.
Tante volte.
Ansimando aveva deciso.
L’unica persona ancora manipolabile,
l’unico adulto ancora presente, l’unica risorsa.
Non era corsa da lui per
cercare vendetta, ma solo per chinarsi e piangere. Con le altre non poteva, non
l’aveva mai fatto, una Principessa non può farsi vedere in lacrime.
Mai.
Entrò nella piccola casa, sudata e sporca di verde, con la speranza
di poter ancora mettere una toppa all’errore compiuto.
E mentre
la sua ultima speranza si spegneva, con i capelli scombinati e le guance ardenti
aveva allungato la pistola a Jennifer chiedendole di rimediare, di porre fine
per lei a tutto, perchè era davvero troppo.
I vestiti pieni di sangue degli
altri bambini erano troppo.
Il ricordo del sacco rosso era troppo.
Il
verde sui vestiti era troppo.
Le bugie, il rimorso, tutto era così tanto da
riempirle la testa, da spingerla a voler urlare, a volersi strappare la
faccia.
Gli occhi di Jennifer erano pieni di terrore e Wendy lo notò. Le
ricordò il suo Principe, dolce e insicuro, che aveva amato come se
stessa.
Sorrise, e allungando le mani verso di lei, poco prima che l’uomo la
afferrasse per porre fine al dolore, sussurrò: “Mi dispiace...”