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Autore: The queen of darkness    25/04/2013    1 recensioni
Ok, lo so che non dovrei con altre storie in corso, ma non ho proprio resistito. Naturalmente non ho nessun diritto di manipolare le vite di questi stupendi musicisti e so che sarà uno strazio, quindi ci tengo a sottolineare che tali eventi non sono mai accaduti sul serio, ma sono solo frutto della mia mente perversa e malata. Detto questo, spero vi divertiate
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE, PLEASE:
Quando iniziai questa Fanfiction, pensai quasi per gioco che mi sarebbe piaciuto che si concludesse con un numero tondo tondo di capitoli pubblicati. All’inizio pensavo sarebbero stati 30, ma adesso realizzo che non potrei tirarla più avanti di così. Quindi, questo sarà il penultimo capitolo. Mi dispiace dirlo così brutalmente, ma nel prossimo, cioè il conclusivo, farò i ringraziamenti fatti per bene.
Buona lettura :D
 
 
Quando venne a sapere che quello stesso anno la preside Harper sarebbe andata in pensione, rimase un po’ sopreso; non riusciva a capire come mai una donna tanto energica dovesse ritirarsi, ma secondo alcune voci si trattava di una questione che coinvolgeva i figli, avvoltoi assetati di soldi.
Questo gli fece capire diverse cose, comprese tutte le torture che la donna doveva superare nonostante avesse ormai un’età abbastanza considerevole. I preparativi della cermonia d’addio, quindi, assorbirono gli sforzi delle due settimane successive, tenendolo così occupato che non ebbe nemmeno il tempo di ripensare alla follia che aveva condizionato gli ultimi eventi.
 Alla fine Bridget era stata di parola: dopo quella lettera era sparita e nell’appartamento della sua giovane fidanzata era andata a vivere una strana ragazza, solare ma non incisiva come la parente. La bustina di zucchero lasciatagli come ricordo aveva un significato ben preciso, e l’aveva lasciata sul ripiano in cucina, senza decidersi a spostarla di lì. Era il suo portafortuna, per ricordarsi di essere in grado di fare ancora del bene.
Jessy, per i primi tempi, non aveva nemmeno creduto alla lettera che Brian le aveva fatta leggere, temendo che potesse essere solo uno scherzo. Tuttavia non aveva assolutamente avuto nulla da ridire riguardo alle nuove scelte di vita di Bridget, anzi, si poteva quasi dire che fosse felice per lei. Con il passare del tempo si era convinta di poter stare tranquilla, e aveva cominciato ad essere la stessa ragazza serena che aveva conosciuto e di cui si era innamorato subito.
Il suo vicino di casa aveva ripreso a farsi chiamare “stallone”. Era stata una serata fantastica per lui e Jessy ma, andando a dormire, capirono ben presto che sarebbe stato del tutto impossibile: i gemiti, i cigolii, i sussurri e le urla erano particolarmente fastidiosi quando si trattava di volersi godere la notte.
Dopo quasi un’ora rischiava di dare di matto: mentre lui era abituato, lei si era alzata già un paio di volte, aveva bevuto una tisana per calmare i nervi e i suoi battiti sul muro che separava i due appartamenti erano stati ignorati. Per lei era impossibile rassegnarsi ad una cosa del genere, e alla fine le venne un’idea.
Balzò sul letto come un gatto, accese la lampada sul comodino e lo svegliò come presa da un’illuminazione: -Ho un’idea per farli smettere – disse. Afferrò la vestaglia e, senza dargli il tempo di reagire, imboccò il corridoio e la sentì uscire.
Se doveva essere onesto aveva temuto il peggio; forse, portata agli estremi, aveva considerato l’idea di omicidio o qualcosa di altrettanto tragico ma, non appena avvertì chiaramente il bussare deciso alla porta dei due amanti dovette appiattirsi contro la parete per essere sicuro che non facesse nulla di male. La ragazza era stata abbastanza furba da spostargli i vestiti in un posto che non vedeva, in modo da impedirgli di seguirla; i coniugi si interruppero, ma più che spaventati per le possibili ripercussioni sembravano solo infastiditi. In effetti erano stati interrotti durante l’ennesimo punto cruciale, non doveva essere una situazione particolarmente simpatica.
Da quel che sentì, fu lei ad alzarsi: i passi pesanti e trascicati, gli sbuffi e i borbottii appartenevano alla signora. Non osò immaginare cosa sarebbe successo, anche se si sarebbero molto probabilmente saltate al collo a vicenda.
La porta si aprì; Brian trattenne il respiro. Nudo oppure no sarebbe scattato non appena avesse sentito il benchè minimo segno di qualcosa che non andava, anche perché nessuna delle due era una verginella facilmente impressionabile.
Stranamente, Jessy fu molto educata, e in un primo momento non capì come mai non si decidesse ad arrivare al punto. Persino l’uomo nella camera si era drizzato contro il muro, incuriosito. Ne poteva sentire qualsiasi movimento, seppur minimo, e in quel caso era quasi una benedizione, anche se avrebbe preferito di gran lunga udire solo il silenzio più totale.
Poteva sentire poche parole, ma sembrava che i toni fossero nuovamente pacati. Non riusciva a collegare la presenza della ragazza lì a quella porta e il suo essere tanto cortese con la signora, la quale evidentemente non vedeva l’ora che se ne andasse. Forse aveva solo voluto interromperli e ora li teneva svegli ma, per com’era partita, Brian sapeva che doveva aspettarsi molto di più. Jessy, quando faceva qualcosa, puntava in alto.
All’improvviso, in modo che fosse perfettamente udubile anche da lui che era dall’altro lato della camera, parlò con voce sufficientemente chiara e squillante, pronunciando quelle esatte parole: -Ecco, signora, questa scatola è di suo marito. L’ha lasciata in affido a noi, ma non ci piace la pornografia estrema, quindi la pregherei di prestare attenzione a cosa avete in casa vostra. Oh, e c’è qualcuno che vorrebbe dormire. Buonanotte.
Detto questo, lui sentì chiaramente i passi ritornare sulla propria strada, aprire la porta d’ingresso e fermarsi in entrata. L’uomo era assolutamente strabiliato, anche perché si era ormai dimenticato della scatola piena di schifezze che ormai era diventata quasi parte dell’entrata. Di certo quelle riviste avevano l’aria clandestina e, da come il resto della notte passò fra urla accusatorie e insulti lanciati gratuitamente, confermarono del tutto il proprio presentimento.
Anche se ci avevano rimesso una notte di sonno erano entrambi soddisfatti: sapevano che da allora il problema dell’insonnia sarebbe stato nettamente superato, o comunque i due vicini non ne sarebbero stati responsabili per un sacco di tempo.
Il giorno dopo, com’era prevedibile, nessuno dei due riusciva a reggersi in piedi. Brian quasi cadde dalla scala mentre stava attaccando uno striscione nella palestra della scuola superiore e Jessy, in classe, scrisse il nome e cognome sbagliato di un pittore alla lavagna, dovendo far correggere una trentina di appunti. Entrambi ci avevano messo una settimana per smettere di trovare l’aneddoto divertente, e ancora ci ripensavano con una risatina. L’uomo doveva ammettere che era stata una trovata davvero esemplare per due persone del genere.
Cullato dalla tranquillità, Brian si sentiva come un malato che trova finalmente la sua guarigione. Nemmeno in famiglia, quand’era ancora un adolescente, aveva saputo trovare la giusta dose di normalità che l’avrebbe spinto a sentirsi tranquillo. La sua famiglia era tutta scombussolata dai suoi bizzarri componenti, da amicizie insane, episodi spesso terribili e la musica, insinuatasi come una femme fatale nella sua vita, da sempre. Era stata lei ad impedirgli di essere visto di buon occhio alla scuola cattolica ed era colpa sua se aveva conosciuto mostri come droga o alcool. O meglio, forse vi sarebbe incappato lo stesso, ma con essa erano stati decisamente più facili da raggiungere. Spesso erano proprio i fan che gliene offrivano, e la sua dipendenza aveva raggiunto picchi assurdamenti mortali alla sua salute.
Forse era una cosa stupida da dire, ma gioiva di ogni singolo momento di persona normale. Era un’esperienza nuova, affascinante: omologarsi, comportarsi come tutti, sentirsi parte della massa, non essere riconosciuto da nessuno, essere speciale soltanto per pochi.
Una settimana prima aveva chiamato il suo bassista, un’altra volta, come se fosse stato un’addio. Era meno arrabbiato e si stava arrangiando con un’altra band, avendo un discreto successo. Grazie alla fama che aveva ottenuto quand’era con lui, era riuscito a rimettersi in sesto abbastanza decentemente, saltando tutto il periodo della gavetta e il pellegrinaggio da un locale all’altro, come se fosse un ragazzino alle prime armi. Disse di non avere informazioni precise riguardo agli altri, ma che se la passavano bene.
Parlarono un po’ dei vecchi tempi; l’altro fece qualche accenno lascivo riguardo alle groupies, domandandogli poi come andasse con la vita sentimentale. Lui si mantenne sul vago, poiché non voleva che di Jessy si sapesse troppo. Il musicista non insistette, e passò oltre. Stettero al telefono per un po’ e, quando attaccarono, capirono che quella era stata l’ultima chiamata.
Twiggy gli piaceva, era un “tipo a posto”. Avevano vissuto un sacco di avventure insieme, erano stati ottimi amici, ma l’ultimo periodo aveva minacciato il loro rapporto. Brian stava invecchiando, si sentiva sempre peggio ma, quando aveva cercato aiuto in lui, aveva visto soltanto altra voglia di continuare la festa, di gioire dei successi ottenuti e lasciarsi andare alla deriva.
Per quanto amasse la musica, lui non voleva cedere. Marilyn e Brian erano stati molto più distruttivi l’uno sull’altro che non Twiggy e Jeordie, e in un primo momento pensò che era stato questo a compromettere la loro amicizia. Si erano via via allontanati, avevano perso sintonia, da mesi non si trovavano più d’accordo persino sulle cose più banali.
E quella telefonata da cabina pubblica era stata l’ultima, squallidissima prova di una conoscenza deteriorata. Distrutta. Una parte della sua vita era rimasta incollata alla cornetta, ma non fece assolutamente nulla per staccarla.
In quell’istante, davanti allo specchio in bagno, si stava aggiustando il papillion. Aveva sempre odiato quell’orribile accessorio maschile, ma Jessy aveva insistito così tanto che alla fine non aveva potuto non cedere. Dall’altra parte della stanza c’era la palestra, ricca di striscioni, panche con sopra vagonate di cibo e studenti in festa, e non poteva permettersi di fare tardi.
Alla fine la Harper gli stava simpatica. Certo, era severa e spesso forse troppo fiscale, però sapeva fare il proprio lavoro e non si immischiava nelle vicende personali. Era una donna tutta d’un pezzo, incapace forse di lasciarsi troppo andare a gesti d’affetto o a battute spiritose, ma come datore di lavoro non era niente male.
La pensione sarebbe stata logorante per la scuola, Brian lo sapeva, però non voleva pensare al futuro. Aveva paura che, facendolo, sarebbe scappato di nuovo, senza riuscire a sottostare ai cambiamenti, e aveva il timore che la sua natura ora scostante gli impedisse di mandare avanti quel piccolo idillio. Fare l’uomo normale era la parte che aveva cercato di rivestire per tutta la vita; non poteva scappare dalla cinepresa, non in quel momento.
Sospirando sistemò il ciuffo cadente sulla fronte e cercò di darsi un contegno. Il suo compito principale era pronunciare un breve discorso in memoria dell’operato della donna, sorridere e stringerle la mano, per poi sedersi nuovamente al suo posto. Aveva deciso di farlo per primo: via il dente, via il dolore.
Lasciò che la porta si chiudesse dietro di lui senza nemmeno spingerla, viaggiando attraverso i corridoi vuoti e deserti; tutti gli studenti si erano ammassati nella stanza come sardine, e le classi erano quasi spettrali, abitate solamente da banchi e sedie buttati lì a caso.
Aprì piano i pannelli anti panico, entrando nello spazio addobbato di tutto punto. Poteva prendersi il merito di gran parte delle decorazioni, perché le aveva attaccate personalmente con un certo sforzo. Quella serpentina fatta di bandierine in palstica sventolava solo grazie a Brian Warner, altro che il professore di lettere che si stava pavoneggiando con l’insegnante di matematica.
Come poté vedere, la preside era già in piedi dietro al suo pulpito provvisorio, e gli fece tornare in mente tutte le provocazioni che una volta lanciava contro chiese e religioni. Stava parlando a proposito di tutto ciò che la scuola aveva fatto per lei, di cosa era cambiato e di quanti studenti avesse accompagnato nel viaggio verso la maturità.
Appariva stanca, e ancora più vecchia di quello che era in realtà. Sembrava provata da quella messinscena orchestrata per lei, non vedeva l’ora di andarsene. Quelle brevi parole, spogliate di ogni sentimento, dovevano esserle state suggerite da qualcun altro, perché  lei non avrebbe mai e poi parlato di quelle cose del tutto inutili, ma sarebbe andata dritta al sodo. Stava togliendo ogni sentimentalismo dalla voce ed era una cosa che Brian apprezzò: stava cercando di rimanere sé stessa prima che i figli la cambiassero irrimediabilmente.
Ci fu un applauso non troppo sentito per lei. Alcune professore vecchie almeno quanto lei avevano gli occhi lucidi, visto che molto probabilmente sarebbe toccato a loro una cosa simile, e nessuno avrebbe mai fatto così tanta fatica per allestire una festa comprendendo anche gli studenti.
Qualcuno gli fece cenno di salire sul palco, e lui obbedì, con una morsa nelle viscere. Non aveva assolutamente idea di cosa dirle; nelle sue mani giaceva un bigliettino con alcuni appunti scritti sopra, ma gli pareva ingiusto mostrare una tale ingratitudine nei suoi confronti. Aveva urlato davanti a folle decine di volte superiori a quella, si era spogliato e aveva fatto di tutto per far alzare le urla, non sarebbe di certo stato un evento da liceo a metterlo in crisi.
La Harper lo stava guardando da un lato del palco, seduta su una sedia di plastica grigia. Lui la guardò, prima di infilarsi il biglietto in tasca. Poi prese il coraggio a due mani, afferrò il microfono e si rivolse agli studenti lì riuniti.
-Quando conobbi Miss Harper –esordì, ostentando sicurezza, - la sua aura di autorità mi fece fare una bruttissima figura.
La folla fu percorsa da una risatina, e lui prese forza da quell’appoggio. Coloro che erano distratti tornarono a guardarlo, il chiacchiericcio si interruppe.
-Tuttavia non ebbe timore di guardarmi in tralice, stringermi una mano e darmi il benvenuto a bordo, nonostante sembrassi niente di più che un disperato.
Altra risata, altre parole.
-Devo dire che sono felice di essere stato a lavorare con lei. Perché raramente si trovano delle persone che sanno essere imparziali, e anche giuste; come non elogiava, così non riprendeva, né tantomeno faceva preferenze. Sembrerà stupido, ma è una cosa fondamentale per riuscire a soppravvivere in un posto qualsiasi di lavoro. Quando dico che per me è stato un piacere, non esagero: Miss Harper ha fatto di tutto, ne sono certo, per garantirvi un futuro decente, e mai una volta l’ho sentita commentare malignamente i risultati.
I ragazzi stavano zitti, forse sentendosi vagamente colpevoli. La donna su cui avevano inventato caricature grottesche e barzellette di cattivo gusto, alla fin fine, aveva dato loro un’oppurtunità non da poco, considerato la voglia che avevano di studiare.
-Miss Harper è sì la donna che interroga in biologia alle sette e cinque minuti di mattina, che fa le verifiche a sorpresa di algebra superiore e consegna i brutti voti in trigonometria, ma è anche colei che, a fine giornata, spolvera tutte le foto appese dei laureati, e si preoccupa che splendano, così come ognuno di voi dovrebbe fare.
Seppe per certo di aver concluso. Non la conosceva, ma aveva detto tutto quanto quello che c’era da dire su di lei. Era la rigida e imparziale, ma sapeva dimostrare a modo suo quanto tenesse ai suoi alunni, senza mai riuscire a dimenticare nessuno. L’applauso che ricevette era solo il fioco eco di quelli che poteva avere in passato ma, comparato a quelli dei discorsi che sarebbero seguiti, era il più fragoroso.
Tuttavia questo glielo raccontò Jessy, dopo; appena finito di parlare, infatti, aveva stretto la mano ad Harper e se ne era andato.
Senza sapere che, il giorno seguente, tutto sarebbe cambiato.
Di nuovo. 
  
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