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Autore: itslarryscomingout    25/04/2013    1 recensioni
La ragazza lo guardò con stupore. Si passò una mano sul volto, strofinandosi poi gli occhi. Si avvicinò cautamente, incerta. E se fosse stata solo una casualità? Chi diceva che era proprio quello?
Continuò a camminare, fino ad arrivare ad una distanza di pochi metri. Ed alzò la testa, guardandola. La ragazza era ferma, immobile, lo guardava ad occhi sbarrati.
"Non è possibile."
Disse solo, in un sussurro, scuotendo la testa. Ed la guardò inarcando un sopracciglio. E se... riguardò la rosa bianca che aveva nelle mani, sorridendo poi lievemente, aggiustandosi la visiera del cappellino senza staccare gli occhi della ragazza difronte a lui.
Lei si avvicinò, a quel punto, sentendo le gambe molli.
"Edward?" pronunciò incerta. Ed sorrise, guardandola di nuovo.
"Ed-Edward sei tu?", pronunciò lei, sentendo la gola secca e gli occhi umidi. Avrebbe voluto piangere. Lui si avvicinò lievemente, porgendole la rosa. Lei l'afferrò incerta attenta a non sfiorarlo. Si concentrò sul fiore abbassando la testa. Era puro, bello, bianco, profumato.
"Perché non mi hai detto che eri tu?", sussurrò allora lei, lasciando che una lacrima le rigasse il volto. Si sentiva presa in giro. E Ed a quella visione sentì piccolo piccolo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A Edward e al
‘Dici che non m’importa, ma a me importa.
Solo che non so come dimostrartelo.’

 

 
Si fermò un secondo, strinse leggermente le palpebre e poi  ripeté l’accordo.
Risultò nuovamente delicato, soave. Sputò la penna che teneva tra i denti e si alzò con ancora la chitarra appesa al collo. Si grattò la pancia sollevandosi malamente la maglia e si diresse a piedi scalzi nella cucina aprendo poi il frigo e prendendone una birra. Sbatté l’anta e poi stappò la bottiglia con una forchetta che aveva trovato sul bancone e fece un lungo sorso.  Era stufo di quella casa, soprattutto perché era troppo sporca. E in disordine. Ed era troppo solo lì dentro.
Era troppo grande per una sola persona, o almeno, ultimamente la vedeva così.
Si girò urtando una sedia con la chitarra e ruttando se ne fregò e si diresse di nuovo nella sua stanza.
Vi entrò e storse in naso nel sentire un cattivo odore che non aveva notato prima, così, poggiando rumorosamente la bottiglia sulla scrivania aprì la piccola finestra che si affacciava sulla strada. Entrò una lieve luce naturale e notò con un sorriso che il cielo sembrava una tazza di caffè. L’aria profumava di pulito e le nuvole, di un bianco quasi sporco, erano intrise nell’arancione chiaro come marshmallow abbrustoliti.
Inspirò rumorosamente dal naso e poi buttò fuori l’aria dalla bocca, in uno sbuffo, ritornando poi alla sua scrivania. Riprese tra le mani il foglio un po’ troppo stropicciato e scritto ovunque. Mentalmente si disse che avrebbe dovuto scrivere note e parole su due fogli diversi, ma facendo spallucce per i suoi stessi pensieri, raccolse la penna da terra e ricalcò la scritta in alto che citava ‘Rose, Rosemary’.
Sorrise un po’ al ricordo, una lama invisibile a toccargli il cuore dal quale scesero goccioline di sangue. E la sua testa si chiese sul serio come la gente facesse a non vedere quell’alone sporco che ogni volta sembrava ungergli le magliette pulite, ma poi si diceva da solo che era pazzo, folle, troppo innamorato per essere pronto a indossare un nuovo cuore. E poi appunto, “sembrava” sporcargli le magliette.


Could you make me a cup of tea
To open my eyes in the right way


Ripeté in testa quelle parole e poi, grattandosi un occhio si sistemò la chitarra in grembo e osservò attentamente le corde. Le pizzicò delicatamente come se non volesse far loro del male e poi schiuse la bocca, provando quella parte.
Provò e riprovò e ad un certo punto gli sembrarono sul serio orecchiabili.
Tentò di rifarlo, ma la vibrazione del cellulare lo distrasse. Lo prese, notando che era un promemoria che si era messo per evitare di dimenticare che nel pomeriggio doveva andare in studio a provare.
“Cazzo!” urlò alzandosi velocemente dalla sedia quasi buttandola a terra, posando poi la chitarra sul letto malamente fatto. Corse davanti allo specchio e si osservò con una smorfia. I capelli non gli erano mai sembrati così disordinati, aveva una macchiolina sulla manica e i piedi scalzi non erano il meglio. Sbuffò, cercando una maglia dall’armadio –stranamente ordinato- e senza pensarci troppo prese una felpa verde e dei calzini in un cassetto sottostante. Si sedette sul letto e si cambiò velocemente, infilando anche gli scarponcini. Corse in bagno a darsi una sciacquata e poi recuperò la sua chitarra nella stanza e uscì di casa, correndo negli studi.

Aveva trovato gente per strada, alcuni lo avevano riconosciuto e gli avevano chiesto un autografo e lui l’aveva accontentati  con una firmetta striminzita e disordinata. Altri gli avevano chiesto una foto e lui fingendo un sorriso aveva lasciato che i flash lo accecassero, ma poi era corso chiedendo scusa e si era infiltrato nello studio di registrazione. Lì aveva salutato Mark, affannato.
“Scusa Mark, ho avuto un problema.”
E gli avrebbe volentieri detto che se ne era dimenticato, ma poi aveva fatto spallucce ed era entrato in sala. Lì aveva aperto la sua amata chitarra e si era seduto su una sedia.
“Aspetta, devo accordarla.”
E lo aveva fatto come al suo solito. La testa altrove però. Si era alzato scuotendo la testa e aveva il via a Mark. ‘Who you are’ doveva registrare. E non si sentiva pronto. Aveva lo stomaco contratto, quasi come se volesse costringerlo a fare una smorfia di dolore. Ma rimase impassibile, anzi, fece un cenno a Mark, indossò le cuffie, si avvicinò al microfono e posando lo sguardo sulle corde tese e il plettro, cominciò a suonare delicatamente.
 
I stare at my reflection in the mirror…
Why am I doing this to myself?

 
Fece una smorfia di disgusto.  Guardò nuovamente quel corpo smunto, troppo piccolo e pallido, le braccia dietro la schiena a coprire quello schifo che aveva combinato. Represse un conato di vomito, e si privò della biancheria, avendo un’intera visione delle sue imperfezioni.
‘Che schifo ’ , pallida, di un bianco simile al latte.
‘Che schifo’, non c’era volume.
‘Che schifo’, le guance erano incavate, come se fossero state scavate sul viso.
‘Che schifo’, gli occhi spenti, somiglianti più ad un grigio che ad un verde brillante.
Allungò le mani sui fianchi, esponendo i polsi in avanti, verso il vetro. Non riuscì subito ad abbassare lo sguardo, bensì  lo fece gradualmente, osservando tutto, ancora.
“Masochista” sussurrò alla sua stessa immagine.
‘Che schifo’, riusciva a vedere le costole.
‘Che schifo’ , scorse i piccoli lividi.
E posò lo sguardo sui polsi, piccoli, segnati, rivoltanti. Le gambe le si fecero molli, sentì quasi la vista annebbiarsi e le forze abbandonarla solo a quella visione, ma si mantenne al lavandino davanti a lei. Ma poi spalancò gli occhi e fece appena in tempo ad inginocchiarsi davanti al water e vomitare. Portò una mano tremante a tenerle i capelli in alto e si sentì quasi meglio al pensiero di non avere il suo riflesso davanti agli occhi. Si sarebbe presa a pugni, a calci, a cazzotti se solo avesse potuto. Che diavolo stava facendo? Si rialzò, tirò lo sciacquone e poi ignorando lo specchio si buttò in doccia, sotto l’acqua bollente che la distrasse per un po’ di tempo.
 
Don’t lose it all in the blur of the stars!
Seeing is deceiving, dreaming is believing,
It’s okay not to be okay…
 
Scosse la testa quando sbagliò una nota, fermando poi le corde. Stava pensando ad altro.
“And in the winter I’ll hold you in a cold place” sussurrò, come perso nelle nuvole.
“Tutto okay, Ed?”
“Eh?”
Si riscosse dai suoi pensieri, alzando la testa su Mark che lo guardava attraverso il vetro.
“Tutto okay, ho detto” ripeté l’uomo, manco stesse parlando con un bradipo.
“Ehm … no Mark, scusa, non mi sento molto bene. Posso … posso tornare un altro giorno?”
Quello fece una smorfia e “E va bene … però la prossima volta finisci.”
“Si,si, certo!” e raccolse distrattamente la sua roba, riponendo la chitarra nella custodia e correndo via da lì dentro salutando distrattamente Mark. Entrò in macchina, e mise subito in moto. Le ruote girarono subito sul pavimento liscio con furia alzando un po’ di polvere e pietruzze, e sgommando sfrecciò verso casa. Il cuore stranamente troppo gonfio, lo stomaco ad annunciargli una strana sensazione. Rischiò di fare un incidente contro un’altra auto, ma con un piccolo urletto, riuscì a evitarlo.
Era una frana.

Si stese sulle coperte bagnandole con i capelli. Aveva freddo, ma le gambe le sembravano di piombo, non sapeva come muoversi. Soffocò un singhiozzo nella manica dell’accappatoio e chiuse gli occhi sperando di confondere le lacrime con i capelli umidi e la pelle fresca. Ma fu più forte di lei: afferrò il cellulare, attenta a non scoprire il corpo, e aprì la pagina di Facebook, nella conversazione. Una settimana. Aveva fatto passare una settimana e con essa tutto era peggiorato. Inizialmente pensava fosse stato solo uno sbaglio, un errore per la confusione. Ma poi aveva  visto che lacerare la pelle era quasi … divertente? No, non era divertente, era solo appagante.  Così lo aveva fatto con più frequenza, escluso il martedì, il giovedì e il venerdì. Però, era andata sempre più in fondo, come se volesse entrare fin dentro, nel profondo.
Ma in quel momento, presa dalla paura, si accorse che faceva schifo. A se stessa, alla mamma, al papà che molto probabilmente la vedeva da lassù. 

Hannah ore 08:48 p.m. : “Ho bisogno di te.”

E chiuse gli occhi, li sigillò quasi come a non volerli aprire più, aspettando una risposta, un qualcosa a cui appigliarsi.
Sentì quasi l’orologio ticchettargli nelle orecchie rumorosamente, forse fin troppo. Lo avrebbe felicemente spaccato, ma stette ferma in posizione fetale, le ginocchia strette al petto, i singhiozzi a scuoterla ogni tanto.
Tic tac, tic tac, tic tac. 08.54.
Cominciò a dondolare su se stessa.
Tic tac, tic tac, tic tac. 08.57.
Si girò dall’altra parte, un lieve mal di testa alle porte.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.02.
Si fece leva sulle gambe molli come gelatina e si diresse al cassetto, prendendo della biancheria pulita indossandola.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.13.
Sei sola, Hannah’, le mormorò sadicamente una vocina all’orecchio. Lei si rigirò nel letto leggermente caldo e umido, ignorandola.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.17.
‘Te lo meriti’. Ancora, fastidiosa. Una lacrima a scivolare sulla pelle liscia.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.23.
Una vibrazione.
‘Non sei sola’.

Edward ore 09.23 p.m. : “Sono qui, tranquilla. Scusa l’attesa.”
Hannah ore 09.24 p.m. : “Ho bisogno di te. Perché sei lontano?”
Edward ore 09.25 p.m. : “Ti sto pensando, non basta?”
Hannah ore 09.27 p.m. : “No. Non mi basta se ciò significa che non sei qui.”
Edward ore 09.28 p.m. : “Che vuoi che faccia?”
Hannah ore 09.31 p.m. : “Sai come materializzarti qui? Ho bisogno di te.”
Edward ore 09.32 p.m. : “Scusa …”
Hannah ore 09.33 p.m. : “Scusa? Per cosa?”
Edward ore 09.35 p.m. : “Non posso essere lì, ora.”
Hannah ore 09.37 p.m. :“…”
Edward ore 09.39 p.m. : “ …H?”
Hannah ore 09.39 p.m. : “Si, Ed?”
Edward ore 09.41 p.m. : “ … Posso avere il tuo numero?”

Si mordicchiò le labbra e sentì il cuore battere veloce quando dei numeri da parte della ragazza arrivarono in chat. Sbatté velocemente le palpebre, incredulo. Le digitò sul suo iPhone salvando poi il numero come ‘H <3’ e, tirando un lungo sospiro, fece partire la chiamata.

“Si?”

E per lo shock fu costretto a sedersi sul letto della sua stanza.
Una voce fioca, roca leggermente, aveva risposto dall’altro capo del telefono.
Hannah gli aveva risposto.
 

 
 

  
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