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Autore: Oducchan    18/11/2007    7 recensioni
*** E alla fine sono qui, sull’orlo del baratro. Un passo avanti, e precipiterò nelle tenebre della mia anima, perderò la mia coscienza e ritroverò il mio essere. Un passo indietro, e mi salverò, il mio cuore si scioglierà nella luce e sarà schiavo di Amore. Ora, luna dannata, dimmi: cosa che vuoi che faccia? Avanti indietro? Luce o buio? Perdizione o purificazione? Sayian o terrestre? **** un principe in crisi, a confronto con se stesso e i suoi dubbi, davnti alla strada da prendere. perchè cambiare non è facile...
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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On the abyss’ edge

On the abyss’ edge

Perché cambiare non è facile…

 

 

Luna piena.

Una volta, ne avrebbe gioito. Una volta, avrebbe esultato, sarebbe uscito all’aperto, reclinato il capo per riempirsi gli occhi del suo bagliore e avrebbe dato libero sfogo all’istinto, rinchiudendo la coscienza in uno dei recessi della sua mente e dando inizio alla sua opera di distruzione selvaggia.

Adesso, quell’astro lucente gli portava solo un’immensa malinconia, un senso confuso di nostalgia e rimpianto, e una fitta di dolore che serpeggiava dalla base del collo alla cicatrice della coda, si concentrava e poi tornava indietro, senza sosta.

Socchiuse gli occhi, cercando di scivolare nell’incoscienza. Almeno avrebbe smesso si avvertire quella stretta al petto che sentiva da mesi. Una fitta che sentiva alla mattina, quando apriva gli occhi e vedeva la sua donna ancora addormentata accanto a lui, fino alla sera, quando lei si addormentava soddisfatta tra le sue braccia. Almeno avrebbe avuto un po’ di sollievo. Ma l’incoscienza non venne. Quella sera la luna voleva la sua completa attenzione; di più, voleva saldare un conto rimasto aperto troppo, troppo a lungo. Un conto col suo destino.

Si decise a riscuotersi dal torpore e si alzò dalla balaustra del balcone, rientrando silenziosamente in casa. Movendosi come un’ombra, aprì l’armadio e scorse gli abiti appesi; poi afferrò la vecchia battle suit, ricostruita intatta dopo la vittoria su Cell, e la indossò velocemente, tentando di scacciare la fastidiosa sensazione di stare sbagliando, di stare commettendo l’ennesimo errore della lunga fila che costellava la sua vita. L’ultima volta che l’aveva indossata, quella tuta, provvista anche di pettorali, aveva deciso di smettere di combattere. E in un certo senso, l’aveva fatto. Non di allenarsi, quello mai, non si sarebbe mai rassegnato a fare da eterno secondo a Kaaroth…ma da quella battaglia, da quella perdita, il suo animo non si era risollevato mai più. Aveva lottato contro il suo eterno nemico, cercando di ritrovare la via che aveva perso molti anni prima, aveva addirittura lottato contro Majin buu ma anche lì…con uno spirito diverso, non con la freddezza degna del Principe, no. Niente più freddezza, niente più ferocia, niente più amore per la morte. Amore per qualcos’altro. Amore per una donna dai capelli turchini e gli occhi azzurri come il cielo di quel dannato pianeta. Amore per un moccioso con i capelli lilla che lo guardava adorante ad ogni allenamento. E amore, sì, anche quello, per un giovane uomo che aveva lottato senza remore armato solo di una spada e di speranza.

Chiuse l’anta di scatto, restando a guardare a lungo la mano appoggiata al legno. Una mano da molto tempo pulita, da molto non lorda di sangue, da molto inutilizzata per lacerare, squartare, uccidere. Da quant’è che non ammazzava qualcuno? Tanto, a volte troppo tempo. Specie nelle notti di luna piena. Notti in cui gli arti gli formicolavano bramando azione, notti in cui la gola gli ardeva chiedendo sangue, notti in cui i frammenti dolorosi della sua anima andata in frantumi premevano contro il petto come spilli appuntiti…notti come quella. Dannazione.

Si allontanò, e ritornò alla finestra, aprendola e respirando l’aria gelida della notte a pieni polmoni. No, non era quella l’aria che voleva respirare. Densa, annebbiata dai fumi del sangue, carica dell’odore della morte…l’aria che aveva respirato fino al suo arrivo su quel pianeta azzurro. Non riusciva neanche ad ammetterlo, ma improvvisamente aveva avuto nostalgia di quell’aria. Nostalgia del suo vecchio modo di vita, nostalgia –diavolo!- addirittura dei suoi vecchi compagni di squadra…

-che cosa vuoi da me, dannata bastarda?- sibilò furioso all’astro rotondo che sembrava fissarlo, beffardo, dalle profondità dello spazio. E che, ovviamente, non gli rispose, e rimase lì a riempirlo di frustrazione.

Fece per alzarsi in volo, ma una voce lo riscosse, arrivandogli al cervello come una coltellata alla schiena. O per lo meno, il bruciore era quello

-Vegeta, amore…dove stai andando?-

Buffo. Lui, rinomato portatore di morte, strumento di distruzione, essere senza cuore che incuteva terrore…lui, ora, era chiamato con l’epiteto più dolce di tutti. Chiuse gli occhi, strinse i denti, serrò le labbra e i pugni. Non era rabbia. Solo….Un dolore allucinante.

Si girò di tre quarti, quel tanto che gli bastava per inquadrare per intero la sua donna, e la scrutò a lungo, quasi la stesse vedendo per la prima volta. I lunghi capelli azzurri, gli occhi colore del cielo, le forme perfette…lo sguardo, un po’ preoccupato, un po’ incuriosito…era cambiata dalla prima volta che l’aveva vista, su Namecc. Era cresciuta, era diventata più matura…già, era proprio cambiata. Come lo era lui.

Ma lui lo voleva davvero, quel cambiamento?

-tornerò- rispose in un sussurro. “come, non lo so” aggiunse mentalmente a se stesso, perché sarebbe cambiato, lo sapeva benissimo. Non poteva continuare a camminare su quel sentiero, doveva decidere da che parte stare…e la luna, solo lei, solo lei poteva concedergli il permesso di farlo. Doveva affrontarla. Doveva affrontare se stesso.

Uscì, senza avere il coraggio di riguardarsi le spalle, nel timore di trovare quelle iridi blu e perdere ogni baldanza. Doveva, doveva farlo, anche se avrebbe sofferto, anche se sarebbe stato male, anche se avrebbe smarrito un’altra volta il suo credo o se avesse perso tutto quel che aveva creato durante il suo soggiorno su quel pianeta…lui doveva farlo. E non avrebbe rinviato quel confronto un minuto di più.

Aumentò la velocità, sentendo l’aria sferzargli violentemente il viso come tante lame ghiacciate. Avrebbe posto finite a quel lacerasi tormentoso della sua anima. O luce o buio. Per sempre.

 

 E alla fine sono qui, sull’orlo del baratro. Un passo avanti, e precipiterò nelle tenebre della mia anima, perderò la mia coscienza e ritroverò il mio essere. Un passo indietro, e mi salverò, il mio cuore si scioglierà nella luce e sarà schiavo d’Amore. Ora, luna dannata, dimmi: cosa che vuoi che faccia? Avanti indietro? Luce o buio? Perdizione o purificazione? Sayian o terrestre? 

Vegeta fissò per un istante il satellite luminoso, in attesa di un qualsiasi segno di risposta, poi tornò a fissare lo strapiombo e il mare che ruggiva ai suoi piedi. Di sicuro, sarebbe sopravvissuto alla caduta, bastava utilizzare la levitazione; ma se l’avesse fatto, se davvero avesse fatto quel passo, non era la vita che avrebbe perso. Se si fosse rialzato in volo, l’avrebbe fatto per distruggere, segno che il suo istinto aveva vinto in quello scontro eterno per il controllo della sua anima. Sarebbe tornato ad essere il principe sanguinario, senza popolo né regno, senza controllo né pietà. Quello che era stato per i primi trent’anni di vita, quello che era morto contro Freezer, quello che la scomparsa del Trunks venuto dal futuro aveva mandato in mille pezzi, quello che Babidi aveva tentato di risvegliare e che Kaaroth aveva definitivamente annientato. Quello che era dentro di lui, frantumato, urlante vendetta. 

Se si fosse tirato indietro… se si fosse allontanato, se fosse andato da qualunque altra parte che non fosse avanti, Kaaroth, Bulma, i due Trunks, addirittura la piccola figlia appena nata, avrebbero vinto. Lui avrebbe accettato, avrebbe smussato completamente i lati spigolosi del suo carattere, sarebbe diventato docile e addirittura gentile. Avrebbe fatto quello che volevano. Glielo doveva.

Perché anche se il suo incubo non era ancora finito, vi erano filtrati tanti raggi di luce.

Che l’avevano messo in crisi.

Da un lato gli ronzava fissa in testa la voce di suo padre, che gli diceva che era il migliore per nascita, che era destinato ad essere il più forte, che il suo sangue non gli avrebbe mai lasciato di essere debole. Che non lo sarebbe mai stato. Gli ronzavano in testa gli insegnamenti di Napa, atti ad esaltare la sua discendenza, che lo ponevano al culmine dei livelli di forza, che gli prospettavano un futuro da dominatore del mondo. Gli ronzava la rabbia che aveva provato quando Freezer lo umiliava, la gioia di sentirsi vivo quando le vite altrui si spegnevano tra le sue mani, l’inebriante pulsazione di potere dopo ogni massacro.

Dall’altra gli risuonava la voce di Kaaroth, che gli diceva che solo le azioni pure erano degne di lode, che lo spronava a combattere al suo fianco contro il nemico di turno, che rinnegava il suo sangue sayian, che gli diceva addio, che si sacrificava per salvare il mondo, che lo considerava come un fratello e che mai, neppure una volta, se l’era presa quando lo trattava male e incassava tutto con il suo sorriso. Sentiva Bulma, vedeva il suo viso, le sue labbra, i suoi occhi, le sue lacrime, la sua gioia e il suo dolore. Vedeva Trunks, quello del futuro che lo ammirava in silenzio, che agognava il suo affetto, che era morto davanti a lui, e quello del presente, che lo adorava, che si era trasformato da piccolissimo, che sopportava tutto per vederlo contento e orgoglioso di lui, che si era lanciato senza remore a soccorrerlo contro il mostro rosa.

Un turbine che lo afferrava, che lo spingeva avanti e indietro, che non gli dava tregua, che scompigliava quei frammenti aguzzi e li rimestava in continuazione, che riapriva ferite vecchie di anni e che lo faceva avvampare di passione opposte, odio, rabbia, amore, ardore.

Reclinò il capo, fissando con odio disperato la luna. Se solo non fosse stato così difficile, se solo avesse potuto scegliere in maniera meno indolore…i ricordi delle sue “imprese”, i morti, le stragi, il dolore, l’umiliazione, la solitudine, l’indifferenza…si mischiavano all’amore, all’affetto, alla dolcezza, alla considerazione.

Si prese il capo tra le mani, affondando le dita tra i capelli, le unghie nella pelle. Non voleva ascoltare quelle voci, non voleva provare quelle sensazioni, era tutto così dannatamente difficile. Se solo…se solo avesse potuto…doveva scegliere, ma quell’incertezza gli dilaniava l’anima.

Si accasciò a terra, e urlò contro il cielo tutto il suo malessere e la sua frustrazione, aumentando di pari passo l’emissione dell’aura, illuminando a giorno tutto il promontorio. Non riusciva più a sopportarlo; se fosse andato avanti, se fosse tornato ad essere un sayian sanguinario, non avrebbe potuto sopportare lo sguardo doloroso che quelle coppie di occhi azzurri gli avrebbe rivolto, ma se fosse tornato indietro non avrebbe tollerato la consapevolezza di avere tradito le sue origini, di avere tradito i suoi ideali. Non avrebbe tollerato il disprezzo dei suoi simili. Ed era dilaniato, divorato dentro da quell’insicurezza che lo attanagliava come una morsa letale senza fine. Fissò con odio l’astro, stringendo i pugni talmente tanto da farli sanguinare

-allora, lurida bastarda? Ti sei decisa? AVANTI O INDIETRO?- urlò con rabbia e disperazione, sentendo che le lacrime stavano per sgorgargli dagli occhi, inesorabili e spietate, come condanna della sua debolezza. Perché questo lui era, debole: talmente debole da non saper scegliere il suo percorso, talmente debole da rimandare la sua decisione a un pezzo di roccia appostato nello spazio, come se questo avesse potuto togliergli la responsabilità di quello che ne sarebbe conseguito. E la luna era lì, a ridere beffarda nella sua profondità, quasi godesse della sua sofferenza, e volesse ricordargli che sì, era debole, che sì, Kaaroth era più forte di lui, che sì, lui non aveva mai dubitato di se stesso, che non aveva mai attraversato una crisi del genere.

O forse…

Gli tornarono in mente come un lampo, come un fulmine a ciel sereno, parole che il suo eterno rivale aveva pronunciato qualche anno addietro, tra un combattimento che avrebbe dovuto decretare la fine di uno dei due e che invece era finito nel nulla, come ogni conflitto tra i due. Sempre l’altro a vincere, ma mai che ci mettesse la parola fine. Se lo ricordava, anche se all’epoca aveva la mente stravolta dal desiderio di ucciderlo…

avremmo dovuto essere come fratelli, Vegeta…”

Fratelli…non aveva mai pensato a quelle parole, mai come in quel momento. E la verità gli si apriva di fronte agli occhi: lui non doveva, non poteva, andare avanti, scendere nel baratro, perché avrebbe lasciato qualcuno alle sue spalle, qualcuno che era la sua ossessione nel bene e nel male, qualcuno che odiava solo per il dannatissimo fatto che si considerava simile a lui al punto di chiamarlo fratello, che lo aveva risparmiato per poter continuare ad esserlo, che lo rispettava, che non lo avrebbe lasciato solo neanche se avesse imboccato la più cupa di tutte le strade, perché sarebbe stato lì a ad assillarlo nel pensiero di stare irrimediabilmente sbagliando. Anche Kaaroth attraversava le sue crisi, per il semplice fatto che era suo fratello, che anche lui aveva dovuto cambiare e soffocare il suo istinto per qualcosa che aveva scelto. Eccola lì la sua forza: lui aveva scelto. Non aveva solo dimenticato; avrebbe potuto fare qualunque cosa, qualunque, e nessuno avrebbe avuto la forza di fermarlo. Ma lui no, perché aveva scelto, aveva scelto la luce. Aveva scelto di allontanarsi dal baratro, ma era comunque rimasto lì nei dintorni, perché aveva lasciato sull’orlo qualcuno, qualcuno che come lui amava combattere, che come lui amava la propria donna, che come lui amava i propri figli, che come lui poteva cambiare, che come lui poteva scegliere. Scegliere di essere diverso, scegliere di non affogare nel sangue, scegliere di essere forte per uno scopo, scegliere di essere luce. Un fratello. Lui.

 Stavolta non ci sarebbero stati maghetti da strapazzo a fargli sbagliare strada, non avrebbe dovuto farsi esplodere per dimostrare di valere qualcosa. Avrebbe lottato per qualcosa, per qualcuno. Avrebbe lottato per i sogni che si erano infilati nel suo lunghissimo incubo. Avrebbe lottato per loro.

 Si rialzò, tirando goffamente su col naso e tentando di ricomporsi. Il cielo notturno si stava lentamente colorando di rosso e azzurro, mentre la luna, sua inseparabile compagna, si era un po’ nascosta dietro un lieve velo di nebbie. Poteva cambiare, poteva scegliere. Non poteva dimenticare. Ma poteva farcela. Lei sarebbe rimasta lì a ricordargli chi era stato, e il patto stretto quella notte, per indicargli dove voleva andare. Lontano dal baratro.

-sai Kaaroth? Avevi ragione. Ci assomigliamo più di quanto sembra- sussurrò con un sorriso malinconico. Forse, dopotutto, poteva essere anche lui un sayian dal cuore buono. Bastava cambiare un altro po’.

Non troppo, però. Un principe resta sempre un principe. E lui, era il Principe.

S’incamminò, voltando le spalle all’abisso, al mare che rumoreggiava al di sotto, alle poche tenebre che resistevano all’aurora, diretto verso casa, verso la sua donna e i suoi figli.

Forse, era arrivato il momento di svegliarsi.

 

Ok, solo due parole…come avrete capito, è ambientata dopo Majiin buu ma prime della fine dello zeta, ho fatto un’allusione brevissima a Bra…tecnicamente sarebbe un AU visto che la luna è presente, però dai, è una sottigliezza!

Ringrazio anticipatamente chi la leggerà e la commenterà, spero vi sia piaciuta e di non aver reso vegeta troppo “romantico”.

A presto! Wolvie91

   
 
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