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Autore: Big Foot    01/05/2013    2 recensioni
Alberto è un ragazzo giovane, una matricola all'università; è autoironico da sempre e adora prendersi in giro, ma nonostante questo è felice della sua vita, regolare e per niente avventurosa, monotona nelle sue abitudini, ma proprio per questo priva di fastidiose sorprese inaspettate. Questa è la storia di come la sua vita (o la mia vita, sta a voi sceglierlo) cambi di colpo e di come, inaspettatamente e suo malgrado, si riempia di avventure.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sono mai stato un ragazzo che si sveglia facilmente la mattina. Io la buona volontà ce la metto, imposto 5 o 6 sveglie sul mio cellulare, ma non sono uno di quelli che si alza di botto urlando: "Buongiorno mondo!"; no, io sono uno di quelli che non si vuole alzare la mattina, che scende dal letto rotolando e, non si sa bene come, riesce a mettersi in piedi e a barcollare fino alla cucina. Sono uno di quelli che, se gli dici: "Buongiorno" ti risponde con un grugnito degno di un cavernicolo. Mi avete inquadrato? Bene, bene. E' qui che inizia la mia storia, o meglio, la nostra storia visto che la sto raccontando a voi; ecco, quella mattina mi svegliai subito, staccai subito la sveglia (decisamente anomalo per me) e mi misi a sedere di botto, sapendo fin da subito che i miei capelli ricordavano la Sidney Opera House. Me ne pentii subito perché iniziai a vedere stelline ovunque e sentii la testa roteare meglio di una trottola (anche la mia bassa pressione cercava di farmi capire che quel giorno dovevo starmene a letto). Fatto sta che dopo qualche minuto mi alzai (con più calma stavolta) e andai in cucina; solito caffè,venuto uno schifo come ogni mattina; solita tazzina, retaggio dell'anziana signora che viveva precedentemente in quell'appartamento;  solita posa da macho in mutande mentre lo sorseggio (ovviamente non riusciva neanche un po' e anche adesso la situazione non è cambiata) e per finire in bellezza solito sguardo alla fotografia che c'è sulla mia scrivania: siamo io e una ragazza su una spiaggia, sorridenti; lei minuta, i capelli castani e ricci, con un sorriso da pubblicità di dentifrici, le orecchie piccole e la pelle abbronzata; io alto, goffo e pallido (d'estate ho due scelte: o resto bianco come un lenzuolo o rosso come un'aragosta), con una selva di capelli castano rossicci in testa, mai al loro posto, con ciocche che sembrano animate di vita propria; uno sguardo che fa pensare a un'intelligenza degna di un cetriolo e un sorriso incerto, ma sincero. Lei si chiama Roberta ed è la mia ragazza da più di due anni ormai, viviamo nella stessa città (la dolce, graziosa e fumosa Torino) e da Ottobre studiamo all'università, lei medicina mentre io ingegneria meccanica. Guardavo ogni giorno quella foto perché (come avete capito dalla descrizione della foto) non mi sento un bel ragazzo e mi chiedevo come mai una bella ragazza come lei, una ragazza intraprendente, spiritosa e sexy, stesse con un tipo come me, il campione degli spaventapasseri, laureato cum laude  in farfugliamenti applicati, professore emerito del disordine e con la stessa memoria di un pesce rosso. Mi faceva pensare, quando ero steso sul letto cercando di prendere sonno, che forse mi sbagliavo su di me, che magari in fondo, molto in fondo, ero carino e forse era per questo che mi svegliavo con quel perché in testa ogni mattina. Perché pensarci mi rendeva felice, felice di sbagliarmi su di me. Cancellava anni di pensieri negativi e di discorsi fatti al me stesso al di là dello specchio del bagno.
Se solo avessi saputo che quel giorno avrei saputo la risposta e mi avessero detto qual'era forse sarei rimasto a letto. Sapete, così, per far rimanere tutto com'era e per far rimanere me in quel dolce mare chiamato Ignoranza.

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Ero all'università, quel dedalo di corridoi tremendamente uguali che gli studenti chiamano il Poli, così complicato che hanno messo una mappa sul sito per non far perdere le matricole mentre cercano disperatamente un'aula e sopratutto perché molte volte neanche gli studenti più grandi sanno dove si trovano le aule e per chiedere informazioni sono inutili; per la precisione ero nell'aula 4 (non una di quelle sotterranee almeno) quando mi arrivò un messaggio, lo aprii e lessi: "Vediamoci nella piazza di fronte al Poli alle due e mezza." Era di Roberta e, fidatevi, avrò anche la memoria di un pesce rosso e l'intelligenza di un cetriolo, ma lo capisco quando qualcosa non va; in questo sono bravissimo. Quando stai due anni con una persona queste cose le impari. Osservai lo scorrere delle ore guardando nervosamente l'orologio ed era come se il tempo attorno a me scorresse più lento, avvolto da un profondo e appiccicoso strato di melassa. Come quando tieni la Nutella nel frigo e poi provi a infilarci dentro il cucchiaino, urlando per la rabbia, e quando riesci a tirare fuori qualcosa ti senti come Artù che ha estratto Excalibur dalla roccia. Quando il prof terminò la lezione quasi saltai dalla sedia, raccolsi tutto con fare frenetico e volai fuori dall'aula, urtando persone e balbettando scusa, a volte in italiano e a volte in inglese; corsi fuori dall'università, mettendomi di fretta il giubbotto e attraversai senza quasi guardare. La piazza era ricoperta di neve e il mio respiro e quello delle altre persone si condensava in tante nuvolette che facevano sembrare Torino più fumosa di quanto non fosse già; e mentre mi guardavo in giro, famelico di notizie come uno squalo a digiuno, famelico di risposte, caricato dall'attesa la vidi: era vicino a una panchina, in piedi. Mi avviai verso di lei e quando la raggiunsi le dissi subito: "Ciao, che è successo? Non mi hai neanche.. Insomma, sei stata piuttosto brusca prima." Lei sospirò e un'altra nuvoletta si aggiunse alle altre, mi guardò un attimo e poi tenne gli occhi bassi, fissi sulle scarpe; "Entriamo," mi disse indicando il bar dall'altra parte della strada, "preferisco parlare là, qua fuori si muore di freddo." Entrammo nel caldo del bar (una sensazione che per me, cresciuto sotto il caldo sole siciliano, è ancora stranissima) e, dopo aver ordinato due caffè, le chiesi: "E quindi?" Altro sospiro, mentre si passa la mano tra i capelli, quelli con cui giocava quando parla al telefono e  che a me piaceva tirare delicatamente; "Noi.. Noi non possiamo più stare insieme. Vedi, io ti voglio bene, ma non provo più.." "Cosa?" "L'attizzo, ecco." La guardai con gli occhi sgranati e feci una pausa riflessiva. Mi sembrava di aver ricevuto una martellata sui denti. "Non provi più.. L'attizzo?" Lei distolse lo sguardo concentrandosi sul tavolo, di sicuro molto più interessante di me in quel momento, e mi rispose di sì con un filo di voce. Non nominò nessun Danjuma il nigeriano o un Abdul, focoso kebabbaro, e neanche un Marco o un Michael, ma ebbi come l'impressione che quella sera avrei comunque dovuto abbassare la testa per rientrare in casa per quanto grandi fossero le mie corna. Perché ha distolto lo sguardo, capite? Questa volta sono io a sospirare, senza nessuna nuvoletta, chiedendole se è finita. Lei mi guardò e mi fece cenno di sì con la testa, "Sì, è finita, Alberto." Il mio nome, che tanto mi piaceva quando era lei a pronunciarlo, cadde come un sasso nel silenzio che seguì a quella frase. Arrivarono i caffè, lasciai perdere il mio e le dissi semplicemente ciao, con la voce tremante, scappando come un vigliacco per non far vedere a quella che ormai era la mia ex-ragazza che stavo piangendo come un bambino.

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Quella corsa verso casa fu la più lunga della mia vita. Il mio mondo mi era crollato addosso di colpo, come un bel castello di carte. Entrai a casa e accesi lo stereo, mentre mi toglievo il giubbotto e lanciavo lo zaino sul letto. Non ricordo bene cosa ho fatto, immagino di aver girato per casa, cercando di riuscire ad afferrare col mio cervello, che in quel momento aveva le stesse capacità di uno yogurt alla banana, quello che era successo. Ovviamente non ci sono riuscito, mi aspettavo un altro sms che mi diceva "Guarda che scherzo!" Per farvi capire, mi sembrava verosimile anche ricevere qualcosa di simile a "Quella era la mia gemella di cui non ti ho mai parlato, perdonami e perdona quella cretina." Avrei ritenuto credibile qualunque cosa, qualunque film, qualunque scherzo. Mi ricordo che mi misi a leggere, cercando di entrare in quei libri, di non pensare. A un certo punto iniziai a pensare di essere anche io un personaggio di un libro, solo che il mio autore, anzi, la mia autrice aveva cambiato la bozza del mio libro mentre era in preda alle sue cose, piangendo e mangiando gelato, borbottando che gli uomini sanno solo far soffrire; avrei davvero voluto mandarla al diavolo, maledetta autrice. Mi ripresi poi quando mi misi a letto, vivo e vivace quanto uno zombie triste; ci misi del tempo ad addormentarmi, mentre il mio cervello passava dalla modalità yogurt alla modalità vuoto assoluto, ma alla fine ci riuscii. Il mattino dopo mi svegliò il citofono, uno dei peggiori modi per svegliarsi; rotolai giù dal letto e mi ritrovai davanti all'infernale apparecchio senza la minima idea di come io fossi riuscito ad arrivarci. "Chi è?" chiesi, biascicando; mi risposero ruttando "Fammi salire, idiota." Ecco, è qui che inizia la parte avventurosa della mia storia.
  
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