Disclaimer: i
personaggi sono di Fujimaki Tadatoshi.
Note: volevo scribacchiare qualcosa
per l’anniversario del fandom qui su EFP quando vengo
brutalmente messa al corrente delle famiglie ufficiali dei membri della Teikou.
Atsushi compreso. Nulla – fino a prove contrarie offerte dal sensei – mi toglierà dalla testa ciò che segue riguardo i
membri della famiglia di Atsushi. *muore*
La scelta dei nomi dei tre fratelli e della sorella non è stato un atto di
masochismo: spesso c’è l’uso in Giappone di dare ai figli nomi con la stessa
prima sillaba (esempio: Ai- Ai-) e per la mia idea della famiglia di Atsushi,
la cosa era fattibile e divertente. Peccato che “Atsushi” sia uno dei pochi nomi
decenti con questa assonanza *piange*
A Kam, perché mi va, in realtà.
Non era la prima volta che Himuro andava in casa
Murasakibara: aveva conosciuto la mamma di Atsushi in corrispondenza dell’ultimo
anno delle superiori, quando lui e il Centrale dello Yosen avevano iniziato a
frequentarsi non solo fuori dall’edificio scolastico inteso come strade, o
campi sportivi – almeno quando il moro riusciva a convincere l’altro a vincere
la sua pigrizia – ma anche come rispettive abitazioni.
Era perciò stato inevitabile incontrare almeno uno dei due genitori: la casa di
Atsushi era più grande di come se l’era immaginata ma Himuro, da ragazzo
educato e affabile quale era, si era complimentato con la signora per come l’abitazione
era tenuta e per l’ottima cucina, dal
momento che questa aveva insistito per averlo a cena. Si era allora
scusata per l’assenza del marito, in viaggio di lavoro, ma a Tatsuya la sola
presenza della donna aveva fatto respirare un’aria di complicità e calore che
solo certe famiglie avevano; non aveva faticato minimamente ad immaginare in
quale tipo di ambiente fosse cresciuto Atsushi.
Quella volta però affrontava il tutto con un diverso stato d’animo:
Murasakibara non lo stava portando a casa presentandolo come un amico ma come
persona con cui voleva stare, con cui – effettivamente – stava già insieme.
Benché si fosse sentito un poco in colpa nel rivolgere un simile pensiero ad
una persona che in diverse occasioni era stata molto ospitale – ossia la mamma
del più alto – Himuro non aveva potuto fare a meno di chiedersi come l’avrebbe
presa, se davvero Atsushi non gli aveva accennato nulla. Se da una parte
credeva che fosse essenziale la propria presenza nell’affrontare un simile
discorso, si chiedeva se non avrebbe dovuto lasciare alla famiglia la privacy
necessaria. Si rendeva conto, in quel momento come non mai, di quanto la
differenza fra la chiusura tipicamente nipponica e l’espansività americana di
fronte a certe tematiche fosse abissale – non che “America” fosse sinonimo di “accettazione
completa e totale”, ma di certo presentava maggiori possibilità.
Atsushi gli aveva accennato di avere una famiglia
numerosa quando, tempo addietro, gli aveva parlato alla cena per festeggiare il
diploma in casa propria, dove diversi parenti lo esigevano – era successo di
dover rimandare i festeggiamenti con Himuro, che aveva compreso bene quanto
importante fosse e non aveva certo fatto storie per sole ventiquattro ore di
attesa.
Il signore e la signora Murasakibara avevano visto la nascita di ben quattro
figli oltre Atsushi: tre maschi – Atsumichi, Atsuhiro e Atsumu – e una femmina,
Atsuko. Tutti e quattro più grandi di lui.
Tatsuya aveva trovato carino e divertente, la prima volta, sentire tutti quegli
“Atsu” che avevano contribuito al formarsi di
scenette ilari nella sua testa: immaginava cinque bambini ‘formato Murasakibara’
voltarsi nel sentire magari un “Atsu-chan” facilmente fraintendibile. Oppure
pensava al frigo di casa, pieno di tante di quelle cose assolutamente
necessarie per sfamare cinque pargoli – specie se gli altri quattro avevano lo
stesso appetito del più piccolo.
Aveva persino figurato come ogni figlio avesse avuto il suo spazio su una
parete per misurare un’altezza in continua crescita.
Poi, di fronte alla porta di casa Atsushi lo aveva richiamato alla realtà e
Tatsuya aveva sorriso divertito scusandosi della poca attenzione; Murasakibara
aveva stretto la mano che teneva nella propria e aveva detto qualcosa come: «Non
preoccuparti Muro-chin, andrà bene.»
Solo a quel punto Himuro aveva preso in considerazione di doversi aspettare
altri quattro giganti, magari molto arrabbiati all’idea che il più piccolo di
casa venisse preso e portato via da uno come lui.
Di certo quando la porta si era aperta Himuro si era
preparato a due possibili evenienze: la mamma di Atsushi – ma essendo invitati
a ridosso del pranzo era probabile che fosse in cucina, magari aiutata dall’unica
altra presenza femminile di casa – o uno dei fratelli. Era quindi pronto a
cambiare la direzione del proprio sguardo verso l’alto se si fosse rivelata la
seconda opzione; si era invece ritrovato ad abbassarlo, persino, inquadrando una
figura che ad occhio e croce era alla stessa altezza di Kuroko del Seirin, se
proprio avesse dovuto fare un paragone.
Lo sguardo aveva incrociato un ragazzetto a cui Tatsuya non avrebbe dato più
dei propri anni: aveva un sorriso affabile in volto che gli aveva ricordato la
madre di Atsushi e l’espressione vispa di chi si trova a proprio agio con gli
altri in maniera naturale. Si era rivolto per primo al fratello: «Acchan,
bentornato!» aveva salutato, allungando poi prontamente la mano verso un Himuro
ancora tacitamente sorpreso.
«Sono Atsumu, il fratello maggiore numero tre.» aveva detto divertito, forse
abituato alla confusione che i nomi così simili potevano causare agli altri; si
era spostato di lato, in un tacito invito ad entrare: «Venite, venite, mamma e
Atsuko stanno finendo di preparare il pranzo.»
«E Atsu-nii?» aveva domandato Atsushi, sbirciando in casa mentre varcavano la
soglia: «Ehi» aveva rimbrottato Atsumu dandogli un buffetto al braccio «guarda
che anche io sono tuo fratello maggiore!» si era finto offeso, voltandosi per
guidarli verso il soggiorno.
Quando era stato il momento di approcciarsi agli altri due fratelli prima e
alla sorella poi, Tatsuya si era trovato di fronte alla dura realtà: Atsumichi –
il primogenito – era quello che in altezza si avvicinava di più ad Atsushi,
mentre Atsuhiro superava di pochi centimetri lo stesso Tatsuya. Allo stesso
modo, considerando soprattutto il suo essere una ragazza, Atsuko era piuttosto
alta – più di Atsumu e meno di Atsuhiro, in ogni caso: evidentemente il quartogenito
doveva essere l’unico ad aver preso dalla mamma, una donna minuta rispetto al
marito.
In quell’occasione aveva appreso diversi particolari della famiglia
Murasakibara al completo: dei quattro figli più grandi il primo e il
secondogenito erano già adulti fatti e finiti lanciati nell’ambiente del lavoro
dopo la laurea. Atsuko, la terzogenita, studiava per un master e lavorava
part-time. Atsumu era l’unico oltre ad Atsushi a studiare ancora – era un
universitario all’ultimo anno e quindi più grande di Tatsuya, persino.
La famiglia Murasakibara era di quelle belle che ti immaginavi attaccate alle
tradizioni nel senso buono del termine: i nomi dei figli così simili tra loro,
quasi a volerli far sentire più legati, oppure il sedersi tutti insieme a
tavola e parlare anche delle cose più semplici – era una sensazione che Tatsuya,
lontano dai genitori in America e figlio unico, non aveva avuto spesso modo di
provare se non con Alex e Taiga.
Aveva poi capito che nonostante l’altezza Atsumu doveva essere sempre stato il
più sveglio di tutti: glielo aveva confermato lo sguardo complice che, quando
li aveva accolti, aveva lanciato alla mano di Atsushi che teneva la sua.
Ascoltare aneddoti riguardanti l’infanzia dei cinque
fratelli, Atsushi incluso, era stato davvero bello.
Ogni racconto si era rivelato fin troppo semplice da immaginare: come Atsumichi
e Atsuhiro si fossero sempre bilanciati come una sorta di seconda mamma e
secondo papà – c’era ancora un litigio in corso su chi fosse chi –, quanto
tutti i quattro maggiori avessero (volutamente o meno) viziato il più piccolo
di casa in tante cose compreso il cibo, come Atsushi da piccolo venisse preso
in giro finché l’altezza di molto superiore alla media non aveva fatto
desistere chi voleva provarci. Di come, in quei casi, Atsuko avesse difeso il
minore anche contro i maschi della sua classe e di come in quell’occasione
Atsushi avesse preso un richiamo dalla maestra per aver fatto cadere un
compagno con una spinta – Atsumu aveva specificato che era stata la prima volta
che il più piccolo di casa alzava le mani, ed era stato solo per proteggere la
sorella.
Come Atsumichi fosse uomo di pensiero più che d’azione, ma da ragazzo fosse
arrivato ad intimidire chi aveva sparlato di Atsumu; di come Atsuhiro si fosse
finto il fidanzato di Atsuko per togliergli di torno un tizio poco
raccomandabile e della volta in cui Atsumu e Atsushi avevano costruito un
fortino pieno di caramelle.
«Ne, Atsu-chin» aveva chiamato Atsumu osservandolo – Himuro aveva capito che c’era,
più o meno, un modo con cui si distinguevano fra loro pur chiamandosi con dei
nomignoli simili «non è ancora tempo di tirare fuori la capsula?» aveva
domandato, e a quel punto Atsumu aveva raccontato a Tatsuya anche della volta
in cui tutti e cinque i fratelli avevano sotterrato nel giardino di casa una
scatola in cui ognuno aveva scritto una lettera per il se stesso del futuro e
così via, aneddoti su aneddoti che lo avevano fatto sorridere e sentire di
famiglia.
Che, soprattutto, lo avevano portato ad amare ogni singolo membro della
famiglia di Atsushi: suo padre, severo quando serviva ma amorevole con i figli,
sua madre così affabile e affettuosa, i due più grandi così simili nel loro
senso di responsabilità verso gli altri e così diversi nell’approccio con gli
altri, Atsuko così forte e decisa per essere una tipica ragazza giapponese e
infine Atsumu, che avresti creduto il più ingenuo e indifeso, e che invece al
liceo era stato quello che si metteva maggiormente nei guai con chiunque
prendesse di mira qualcuno dei suoi fratelli.
E al pari degli episodi del passato anche quelli del presente a cui aveva
potuto assistere – tutta la famiglia che si riuniva per ascoltare ciò che Atsushi
aveva da dire, Atsuko che per prima invitava Tatsuya in una cosa “da famiglia”
come poteva essere servire insieme il dolce o Atsumu che rideva come un
ragazzino mentre Atsushi lo tirava su di peso per farlo arrivare sopra la
credenza senza l’ausilio di una sedia – gli avevano fatto capire quanto fossero
rare, quelle persone.
Così unite che Himuro aveva pensato che sarebbe stato bello, far parte di
quella famiglia.
«Muro-chin.» chiamò con tono lamentoso, avvicinandosi
al divano e sporgendosi da sopra lo schienale contro cui Himuro era poggiato.
Il moro inclinò la testa all’indietro, portando così lo sguardo sul compagno e
sorridendogli: «Cosa c’è, Atsushi?»
«Leggi anche a me cos’ha scritto Atsu-chin.» obiettò, facendo sfuggire uno
sbuffo divertito all’altro, che riportò l’attenzione sul biglietto che la
famiglia di Atsushi gli aveva inviato: «Sono gli auguri per il matrimonio.»
spiegò con dolcezza, sfiorando istintivamente l’anello che lo stesso Atsushi
gli aveva messo al dito «E ha mandato anche la tua lettera nella capsula di
quando eravate bambini. L’hanno aperta quando eravamo in vacanza.» confidò.
Mentre Atsushi si lamentava e gli prendeva la lettera di mano – inutilmente,
perché l’aveva già letta – Tatsuya si limitò ad osservarlo: benché fossero
ormai adulti, sebbene ancora giovanissimi, Atsushi manteneva intatta l’abitudine
di imbronciarsi o altri modi di fare che a Himuro sembrava di conoscere da
sempre.
Lasciò che prendesse posto accanto a lui sul divano e gli si fece vicino,
sporgendosi leggermente come se dovesse di nuovo leggere la lettera – la calligrafia
infantile e un poco storta lo inteneriva, tanto quanto il contenuto.
«Davvero pensavi che il te stesso del futuro potesse diventare il re del regno
dei dolci?» chiese ridacchiando e ricevendo uno sguardo che ricordava l’offesa
che un tempo Atsushi avrebbe espresso con un broncio, ma che ora era
caratterizzata da lineamenti più maturi e un comportamento a suo modo più
adulto.
Atsushi lo osservò ridere e si piegò su di lui, catturando le labbra del moro
in un bacio intimo ma nel complesso non troppo lungo: «Quando sarò pasticcere
sarà così.» rimbeccò, rimanendo a poca distanza dal suo viso e poggiando le
labbra sulle sue ancora una volta, e un’altra ancora, con fare che ricordava in
parte la stessa foga che aveva per il cibo, con la sola differenza che del moro
non sembrava saziarsi mai del tutto.
«E poi si sarà avverato tutto, ne Muro-chin?» lo apostrofò, un incurvarsi di
labbra divertito e provocatorio al quale Tatsuya rispose annullando per un’ennesima
volta ancora la distanza fra le loro labbra – «Cosa vorresti dire?» sussurrò
soltanto prima di baciarlo.
“Atsushi del futuro,
diventa il re del regno dei dolci
e sposa una bella principessa!”