I
10 passi:
Alice,
dopo essersi rifugiata in camera sua, con il cuore in gola
iniziò a pregare la
Vergine Maria, con quanto sentimento aveva in corpo, sperando che
così le sue
preghiere sarebbero state ascoltate con più attenzione.
“Ave
Maria, giuro che se farai cambiare idea a mio padre, io
andrò in Chiesa ogni
giorno, ogni ora, anzi diventerò sua!”. Con le
mani congiunte davanti al viso,
continuò “Prometto che ascolterò sempre
mio padre, che mi comporterò bene…”. Le
venne in mente la sua ultima litigata con Lucia e aggiunse
“Giuro che chiederò
scusa anche a Lucia
per il mio
comportamento. Ma ti prego, non farmi sposare. Non posso sposare una
persona
che non amo!”
No,
non poteva sposare quel soldato senza neanche amarlo. Lei non era come
le altre
ragazze. A lei non bastava essere una buona moglie con marito, soldi e
figli e
il semplice pensiero di “un matrimonio per
convenienza” come era successo a
molte sue amiche la faceva rabbrividire. Lei voleva di più,
molto di più.
Voleva la stessa passione e drammaticità della dichiarazione
di Ingrid Bergam a
Humprhey Bogart in “Casablanca”.
Aveva visto il film l’estate scorsa con una sua amica, mentre
aveva detto a suo
padre che andava a vedere “La bella
addormentata nel bosco”. Ed era stato
l’ultimo film americano che il cinema
Adriano a Piazza Cavour aveva trasmesso, prima che il governo fascista
decidesse di vietarne la visione. Dopo aver visto il film, nel Parco di
Villa
Borghese, durante tutta l’estate si era divertita a recitare
insieme alla sua
migliore amica alcune parti del film di “Casablanca”.
Facendo a turno per il personaggio di Elsie. La sua frase preferita
rimaneva
comunque questa: Baciami, Rick, baciami
come se fosse per l’ultima volta.
Anche
Alice voleva un amore travolgente come quella di Rick ed Elsie.
Desiderava
qualcuno che la amasse così tanto da voler scappare con lei.
Sospirò
rassegnata e si ricordò che una volta aveva incontrato un
ragazzo con il quale
era stata sul punto di fuggire. Era il figlio maggiore della famiglia
Salvatore—che possedevano il miglior forno a legna di Piazza
di Spagna— si
chiamava Massimo, aveva tre anni più di lei ed era il
ragazzo più bello di
tutta Roma: una volta nel darle il trancio di pizza bianca, le aveva
fatto
l’occhiolino. E lei per tutto il pomeriggio non aveva fatto
altro che
sospirare, senza finire di mangiare il trancio di pizza. Massimo da
quel giorno
aveva iniziato a corteggiarla, di nascosto ai loro genitori, le mandava
spesso
mazzi di rose e margherite—comprati a Campo dei
Fiori—e le scriveva messaggi d’amore
nella carta che avvolgeva il pane. Ma poi, pochi giorni dopo che era
iniziata
la guerra, Massimo aveva smesso di cercarla e non veniva più
nemmeno nella
pizzeria per aiutare i suoi genitori. Lei lo aveva cercato,
sinceramente
preoccupata per lui, e alla fine era venuta a sapere che il ragazzo era
stato
chiamato alla Leva per arruolarsi e che sarebbe stato spedito al fronte
di lì
ad una settimana. Alice disperata ogni giorno si era recata alla
stazione
Termini—dove partivano convogli straripanti
ragazzi e uomini in uniforme pronti ad andare in
Russia—cercando Massimo
per salutarlo.
E
alla fine l’aveva trovato. L’avrebbe riconosciuto
tra milioni, anche se vestiva
l’uniforme grigia e aveva in testa l’elmetto verde
come tutti gli altri.
Faticava
ancora a ricordare quel momento con Massimo senza che le venisse voglia
di
piangere.
Il ragazzo, appena
l’aveva vista, gli aveva
fatto un sorriso malinconico. I suoi occhi color giada erano pieni di
paura e
timore mentre le diceva che sarebbe partito quel giorno, per la Russia
e che
non sapeva quando sarebbe ritornato. Le promise che non appena sarebbe
ritornato a Roma, l’avrebbe sposata. Lo sapevano entrambi
però che le sue
parole erano solo fantasie irrealizzabili. Alla fine, mentre il treno
fischiava
annunciando l’imminente partenza, si erano abbracciati
stretti, piangendo, e
lui gli aveva cantato nell’orecchio una canzone di Alberto
Rabagliati, il suo
cantante preferito: C’è
una chiesetta.
“C'è una chiesetta, amor/nascosta in
mezzo ai
fior/dove m'hai dato un bacio a primavera/ricordi quella sera ancor.
T'aspetterò
laggiù sotto le stelle d'or/ti stringerò
più forte sul mio cuor e non ti
lascerò mai più. Si schiuderanno le rose mentre
tu verrai da me/canterà il
vento le cose più belle per te.”
Poi
non aveva più saputo nulla di lui. Di Massimo le erano
rimaste impresse nella
mente solo immagini sbiadite dei suoi occhi verdi,
dell’uniforme che sembrava
stargli troppo grande e dei suoi messaggi nella carta per avvolgere il
pane. In
una di queste carte le aveva scritto: vieni
via con me e ci apparteremmo per sempre.
Il
dolore la colpì improvvisamente, come un peso invisibile,
nel petto. Il ricordo
di Massimo, la sua promessa, i suoi sogni infranti e la rabbia per suo
padre la
travolsero con la stessa potenza delle onde che si infrangono contro lo
scoglio,
e la lasciarono annaspante, inginocchiata per terra, con le lacrime
agli occhi
e le preghiere sulle labbra.
“Alice”,
la chiamò suo padre, bussando con forza alla porta della sua
camera. “Sono tuo
padre, apri la porta.”
Lei
si asciugò rapidamente le lacrime e si avvicinò
lentamente alla porta,
aprendola.
Davanti
a lei, Franco la guardava, stringendo in mano il cofanetto che le aveva
offerto
il comandante Beilscmdit quel pomeriggio. Il velluto nero del cofanetto
alla
luce della lampada della sua camera, ricordava la pelliccia di un
animale
morto. Disgustata distolse lo sguardo. “Non riesco a capire
cosa sia successo
questo pomeriggio, Alice. Ti sei comportata male e mi hai messo in
imbarazzo
davanti al Comandante Beilscmdit e a suo figlio.”, gli disse,
arrabbiato con il
viso incupito.
Alice
voleva rispondergli che era stato lui ad essersi comportato in modo
ridicolo e
imbarazzante, e desiderava solo accasciarsi ai suoi piedi e scoppiare
in
singhiozzi. Ma non era più una bambina.
“Hai
risposto male al Comandante, hai rifiutato l’anello di suo
figlio e non mi hai
portato rispetto.”, proseguì lui rimproverandola
con tono aspro.
Lei
strinse gli occhi in due fessure. Il nodo alla gola si faceva sempre
più
stretto e per quanto lei deglutisse, non voleva saperne di sciogliersi.
Franco
sospirò affranto. “Dovresti essere felice, Alice.
Sei fortunata, figlia mia.
Ludwig Beilscmdit è…”, si
fermò un attimo, con esitazione, ma alla fine disse
“è un bravo ragazzo. So che sarete
felici.”
Quelle
parole la scalfirono come una coltellata, quindi alzando di scatto la
testa,
esclamò sconvolta “Come fai a dire che io
sarò felice con quel ragazzo! Io
nemmeno lo conosco!”
Suo
padre gli rispose seccato “C’è sempre
tempo per conoscersi dopo il matrimonio.
E comunque ti avverto di non usare quel tono con me, Alice.”
E gli lanciò
un’occhiata minacciosa, che lei ignorò
deliberatamente.
“Come
fai a dire che io sarò felice con una persona che nemmeno
conosco! Cosa ti da
tutta questa sicurezza?”, esclamò Alice, la sua
rabbia e la sua tristezza
incrinavano la sua voce. “Io avevo un futuro e tu me lo hai
tolto! Con quale
coraggio tu mi vieni a dire che quello sconosciuto mi
renderà felice! Ma almeno
tu sai che cosa mi rende veramente felice? Ti sei mai chiesto che cosa
mi
piace?”
Vide
nel viso di suo padre passare un’ombra, rapida come una
nuvola, che gli incupì
il volto per un attimo, ma poi si rilassò e
replicò. “Alice, non usare scuse da
bambina. Io non ho mai avuto il tempo per sapere che cosa ti piace o
cosa non
ti piace, è vero. Ma di una cosa sola sono sicuro: una casa,
un marito e dei
soldi rendono felice qualsiasi
ragazza. E tu, figlia mia, sei una ragazza.”
Lei
lo guardò con occhi basiti e attoniti. Non riusciva a
credere a quello che gli
aveva appena detto suo padre. Lei non era come tutte le altre ragazze. Lentamente si
appoggiò contro lo stipite
della porta, per darsi forza, e sibilò aspra
“Io non sono come le altre ragazze. E non
lo sarò mai. E sai che ti dico? Che preferisco farmi suora o
morire, piuttosto
che sposare quel ragazzo tedesco e imparentarmi con una persona
così spiacevole
e arrogante come il Comandante Beilscmdit.”
Franco,
al suo ultimo commento, incupì lo sguardo e disse
“Non sono i tuoi sogni e le
tue fantasie a garantirti un tetto sulla testa, ricordatelo. Avrai
sempre
bisogno di qualcuno che ti sostenga, da sola non potresti mai
farcela.”
Alice
accigliò lo sguardo e si morse il labbro inferiore. Era una
cosa che faceva
solo quando era arrabbiata, oppure sconvolta, come in quel momento.
Adesso suo
padre era arrivato alle minacce. La stava minacciando di cacciarla da
casa se
non avesse acconsentito al matrimonio. Bene, lei non aveva nulla da
perdere. O
almeno era abbastanza ingenua da crederlo.
“Allora
morirò con loro, con i miei sogni.”, disse con
coraggio a suo padre, sentendosi
libera da un peso. Si staccò dallo stipite della porta e
rivolse un’occhiata al
cofanetto. “Puoi anche spedire indietro l’anello al
signor Beilscmdit, con i
miei migliori e sinceri auguri che l’anello un giorno calzi
il dito di una
perfetta ragazza ariana.”
“Stupida
e sciocca ragazzina!” esclamò suo padre,
arricciando le labbra in una smorfia
di rabbia e disgusto. “Come osi disobbedirmi!
Finché vivi sotto questo tetto,
sono io che comando e sono io che decido per te! Io voglio che tu sposi
quel
ragazzo e lo farai! Tra poche settimane andrai dritta verso
l’altare e farai il
tuo giuramento!”
Alice,
mettendo le mani sui fianchi, replicò sprezzante
“E come pensi di costringermi,
papà? Legandomi con una fune e trascinandomi lungo la navata
davanti a tutti
gli invitati? Pensi di fare così?”. Era
consapevole anche lei che il tono
appena assunto era a dir poco consono alla buona educazione e andava
contro
tutto ciò che le era stato insegnato. Ma forse era quella
consapevolezza a
darle la spudoratezza e la sfrontataggine di rispondere in quel modo a
Franco. “Sai
una cosa? Anche se tu riuscissi a farmi arrivare all’altare,
comunque ti dovrai
preoccupare di mettere delle assi nel portone della Chiesa. E aggiungo
anche
che la Chiesa e i suoi canonici dovranno inventarsi un nuovo tipo di
marcia
nuziale: La sposa che esce dal portone della Chiesa senza marito. Che
ne dici?
Ti piace come titolo o pensi che sia troppo lungo?
Ho già nella testa il suono che dovrebbe
fare. Allegro e veloce.” E mosse una mano
nell’aria, fingendo di condurre una
banda.
Franco
non mosse un muscolo, ma si limitò a fissarla, con
espressione vacua e assente.
Forse, pensò ingenuamente Alice, era rimasto talmente
spiazzato dal suo
comportamento impertinente e coraggioso che non sapeva più
come rispondere.
Ma
Franco era un tipo che non si lasciava mai sorprendere da nulla. Aveva
partecipato battaglia del Podgora del 19 luglio 1915 e Alice non era
ancora
nata. Poi aveva preso parte anche alla Seconda battaglia dell'Ogaden in
Etiopa
nella primavera del 1936. Aveva visto sangue e aveva comandato soldati
più
testardi dei muli e molto più sfacciati di sua figlia. Di
sicuro non si sarebbe
lasciato impressionare dalla scenata di una ragazzina di appena
diciotto anni
anni, sciocca ed ingenua.
“Così,
tu, oltre a rivolgerti a me con un simile tono sfacciato, osi anche
sfidarmi.”
Le replicò con tono basso e scostante, piantando i suoi
occhi neri in quelli
nocciola di Alice. “Sai, ragazzina, mi hai stufato e la tua
mancanza di
rispetto nei miei confronti mi ha dato a dir poco fastidio.”
Alice
spalancò gli occhi, spaventata. La parola ragazzina
suo padre la usava con lei raramente, anzi mai. L’ultima
volta che l’aveva
chiamata così, era quando aveva avuto sette anni
perché per puro sbaglio gli aveva
fatto a pezzi la sua nuova uniforme, per farci dei vestiti per la sua
bambola. Ma
il problema non era stata l’uniforme in se. No. Il problema
fu che quel giorno
Franco non poté prendere parte alla festa organizzata dai
Carabinieri Reali,
dove sarebbe andato anche Mussolini stesso. Quell’ultima
volta lui l’aveva…
Deglutì
a fatica e si rese conto solo in quel momento che era stata troppo
avventata
con suo padre. Nervosamente fece guizzare gli occhi dalle mani di suo
padre
alla porta, ma in ritardo.
Franco
con uno scatto felino, sfilò dalla toppa la chiave della sua
camera e
rapidamente chiuse la porta.
La
ragazza si slanciò disperata contro la porta e
cercò di forzare il pomello,
girandolo più e più volte con insistenza.
Batté entrambe le mani contro la
porta ed esclamò “Apri la porta, papà!
Ti prego! Non farmi questo!”
“Non
uscirai da questa stanza sino al giorno del tuo matrimonio!”
sentì esclamare
suo padre dall’altro lato della porta. E lei sapeva che ne
era capace, l’aveva
già fatto una volta.
Continuò
invano a battere le mani contro la porta, finché i palmi non
le diventarono
rossi, e iniziarono a pizzicarli e a fargli male. Disperata si
accasciò contro
la porta e poggiò la fronte sul freddo e rigido legno,
sentendo come ogni
speranza lentamente la stava abbandonando. E durante la notte
sentì il rumore
di chiodi e di assi battuti contro la sua finestra.
I
giorni passarono velocemente, come le foglie secche che si staccano
dall’albero
quando è inverno. Alice restava distesa nel suo letto o al
massimo si metteva
seduta. Quando sentiva l’allegro fischiettio del postino,
sapeva che era
mattino. L’odore del sugo e della carne
l’avvertivano che era mezzogiorno e il
colore arancio che filtrava attraverso le fessure delle assi messe
davanti alla
sua finestra le faceva capire che era ormai pomeriggio e
un’altra giornata
stava finendo. I suoi doveri comunque non vennero interrotti. La
mattina una
cameriera entrava e l’aiutava a vestirsi e a pettinarsi. Poi
a metà mattina le
sue amiche del circolo “Giovani
Italiane”
la venivano a trovare, accompagnate da Lucia, per fargli gli auguri
sull’imminente matrimonio mentre Lucia le dispensava lodi e
consigli sulla
“prima notte di nozze”. Assicurandosi che
lei, così come le altre sue compagne,
si ricordasse quale sarebbe stato il suo dovere una volta sposata.
“Ricordati
che di questi tempi si fanno italiani, non
l’amore!”, era la frase preferita di
Lucia. Una frase che metteva ribrezzo ad Alice e la rendeva ancora
più muta e
apatica.
Poi,
durante la notte, Alice
si metteva in
ginocchio davanti al piccolo crocifisso che aveva sopra la testata del
letto, e
pregava con quanto animo aveva in corpo. Pregava che in qualche modo il
Ministero dell’Interno o quell’uomo dal nome
strano, non dessero la loro
approvazione.
L’ultima
notte che precedeva il 14 Gennaio, sentì suo padre bussare
alla porta della sua
camera e dirgli dall’altra parte della porta
“è arrivata la lettera dal
Ministero dell’Interno e ha dato il permesso per il
matrimonio. Ah, e pochi
settimane fa mi ha chiamato il Comandante Beilschmdit e mi ha detto di
aver
ricevuto la lettera di Himmler che ha dato il suo consenso al
matrimonio. Il
diciannove gennaio, verranno celebrate le nozze.”
Il
mattino seguente, una cameriera prelevò Alice dalla stanza e
la condusse—o
meglio, la trascinò—in un’altra stanza
dove alcune donne, mai viste a parte Lucia,
l’aspettavano per vestirla e acconciarle i capelli.
Le
fecero indossare un vestito bianco, di seta, con la gonna ampia, lunga
e
ricamata agli orli. Una donna più anziana gli mise il velo
sopra la testa—i
capelli erano stati raccolti in un semplice ed elegante
chignon—mentre un’altra
donna, inginocchiata, le infilava un paio di scarpe bianche con il
tacco. I
suoi primi tacchi.
“Oh,
sei bellissima Alice”. Cinguettò deliziata Lucia
quando finirono di prepararla.
“Assomigli
a tua madre ora”. Esclamò un’altra, che
dietro le sue spalle, le sistemava il
velo.
Alice
teneva gli occhi bassi e si tormentava le mani. Improvvisamente
sentì una
fitta dolorosa
trapassargli il petto e
il suo cuore prese a battergli furiosamente. Tra poche ore avrebbe
dovuto dire
addio a tutte le persone che conosceva, alle sue amiche, alla sua casa,
ai suoi
sogni e anche a sua nonna….No, tanto lei non ci sarebbe
stata. L’aveva gridato
chiaramente alla faccia di suo padre che lei non avrebbe partecipato al
matrimonio, perché lei non c’è
l’avrebbe fatta a sopportare la vista dell’unica
sua nipote “data in sposa ad un demone tedesco”.
Così aveva detto durante la
sua ultima visita di ritorno dalla Francia. E suo padre non aveva fatto
nulla
per dissuaderla dal suo proposito, non aveva emesso un solo fiato, non
aveva
detto nulla per convincerla a cambiare idea. Nulla. Anche di sua nonna
aveva
avuto il potere e l’arroganza di privarla.
Entrò
suo padre che vestito
nel suo elegante
gessato nero—fortunatamente l’uniforme era a
lavare—camminava con espressione
sorridente e passo orgoglioso in mezzo al capannello di donne che si
era
formato intorno a lei. Come la vide sbarrò gli occhi con
sorpresa.
“Oh,
ma sei bellissima, figlia mia! Fatti vedere! Su, voltati!”
Lentamente,
mentre sentiva il sapore della bile in bocca e tenendo il capo chino,
Alice si
girò verso il padre.
“Sei
proprio uguale a tua madre nel giorno in cui ci siamo
sposati!”. Esclamò Franco
con un ampio sorriso, e poi continuò “Tra poco
sarai una Beilschmdt! Una donna
sposata di onore e rispetto!”.
Solo
sentendo pronunciare quel cognome la giovane sentì un
fremito percorrergli la
schiena e iniziò a battere i denti.
“Su
con il morale figlia mia! Su, alza il viso e fammi un bel
sorriso!”.
Lei
alzò il viso e rivolse a suo padre il peggior sguardo di
odio, rabbia e rancore
che aveva covato in silenzio per tutto quel tempo. Ma magari il suo
sguardo
sarebbe riuscito più minaccioso e terribile se solo gli
occhi non avessero
iniziato a pizzicargli, rendendole la vista appannata.
“Oh,
finalmente! Dai che oggi è un giorno importante
e….oh, ma che sono quelle
lacrime! Avanti, che c’è tempo per mettersi a
piangere! Su, smettila!”. Esclamò
contrariato Franco. Quindi gli porse il fazzoletto che teneva nella
tasca del
vestito. “Thò, asciugati gli occhi con questo e
smettila di piangere,
immediatamente. Non sto scherzando Alice”.
Ci
volle una mezz’ora bella e buona perché si
calmasse. Poi alla fine, la fecero
uscire di casa e mentre alcune cameriere le sistemavano il velo
affinché non si
stropicciasse troppo, Franco si portò una mano davanti al
petto e iniziò a
tastarsi, esclamando alla fine “Ah, eccolo! Quasi mi
dimenticavo!”
Prese
la mano sinistra di Alice e gli infilò l’anello di
fidanzamento all’anulare.
“Ora,
sei perfetta.” Disse con soddisfazione, dandogli una piccola
carezza sulla
guancia per poi infilarsi rapidamente dentro la macchina.
Quando
arrivarono, una piccola folla di curiosi e amanti dei matrimoni, si era
assiepata davanti alla Chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei
Martiri—una
basilica molto usata per i matrimoni perché costava poco ed
era piccola—e
guardavano con diffidenza e anche timore una parte degli invitati al
matrimonio, soprattutto gli uomini che si facevano notare nella loro
uniforme
nera e il berretto dal disegno strano e inquietante.
Quando
scese, sentì le gambe cedergli ma rapidamente Franco la
sorresse e con zelo la
portò verso l’entrata, mentre gli invitati, come
un sol uomo, erano già entrati
nella piccola chiesa.
Alla
sua entrata, un organo iniziò a suonare e Alice riconobbe
che stava suonando l
“Ave Maria”.
Con
le orecchie che le pulsavano, prima che la vista le venisse coperta dal
velo,
fece vagare lo sguardo dalla navata, coperta da un tappeto rosso
sangue, agli
invitati. Riuscì a distinguere gli italiani dai tedeschi,
nonostante si erano
mischiati. Le donne italiane avevano in testa il tipico velo di filo e
lana
ricamata e indossavano vestiti dal colore bianco al beige, mentre le
donne
tedesche indossavano piccoli capelli colorati e vestivano abiti lunghi
che
variavano dal colore pesca al blu scuro. Il resto degli uomini, che si
potevano
contare sulle punta delle dita per quanto erano pochi, erano vestiti in
uniforme nera ed erano sistemati tutti quanti nel lato destro della
navata.
Quei colori le misero ancora
più tristezza e
timore.
Mentre
camminava lungo la navata, cercando di non guardare nessuno, nemmeno
suo padre,
non poté fare a meno di pensare alla triste storia di
Ifigenia, che aveva
studiato quando andava al liceo, e si comparò con la triste
eroina. Si domandò
se anche la giovane ragazza greca nel momento in cui aveva capito di
essere
stata ingannata dal padre si era sentita come lei: impotente e
sconfitta. Anche
Agamennone, re di Micene, aveva sorriso in modo rassicurante ad
Ifigenia, come
aveva fatto poco fa suo padre con lei , prima di calargli il velo?
Deglutì
a fatica e sentì le forze venirgli meno nelle braccia e
soprattutto nelle
gambe. Si fermò, con le gambe che le tremavano, e
contò nella sua testa che
all’altare mancavano solo dieci passi. Dieci passi e avrebbe
detto addio a
tutto quello che conosceva. Dieci passi e sarebbe diventata moglie di
uno
sconosciuto solo per assecondare la vanità del padre. Dieci
passi.
Si
fermò completamente, facendo sobbalzare Franco per la
sorpresa. Vide il volto
di suo padre farsi teso e le guance diventare rosse man mano che il
tempo
passava e lei non si muoveva. Furono solo pochi secondi, eppure lei
vide un
lampo di pietà e pentimento balenare negli occhi di Franco
prima che lui si
voltasse completamente e iniziasse a stringergli il braccio,
dolorosamente,
costringendola a completare gli ultimi dieci passi mentre
l’organo suonava le
ultime note dell’ “Ave
Maria”.
“Carissimi
fratelli e sorelle, siamo qui riuniti nella casa del Padre, per unire
in
matrimonio questi due giovani” Iniziò a dire il
prete, con la voce tremante e
rauca che ad Alice ricordava il suono che producevano le foglie secche
sotto le
scarpe.
“Chi
porta in matrimonio la ragazza?”, domandò
l’anziano prete, staccando per un
attimo gli occhi dal libro che aveva davanti e rivolgere lo sguardo
davanti a
se.
“Io”
rispose Franco, da dietro le spalle dei due giovani.
Dal
tono della voce, Alice poteva immaginare il sorriso tronfio e
orgoglioso di suo
padre in quel momento. Nonostante l’angoscia e la tristezza,
riuscì a provare
un moto di rabbia e disgusto.
“Ludwig
Beilschmdit e Alice Vargas, voi sapete
quanto è sacro il vincolo del matrimonio, vero?”
domandò come di rito, ma
conservando comunque un tono serio e severo, prima di rivolgere un
occhiata ad
entrambi. “Siete quindi venuti in piena libertà e
consapevoli del significato
della vostra decisione?”
“Ja” rispose Ludwig, per poi
schiarirsi
la gola e ripetere “Sì”. Il suono della
sua voce era così forte e potente che
rimbombò all’interno della piccola chiesa.
Alice
sentì che il cuore gli era finito in gola quando il ragazzo
vicino a lei aveva
parlato. Era la prima volta che sentiva la sua voce e le sembrava che
al posto
della voce avesse dei tuoni nella gola. Il velo fastidiosamente
iniziò ad
appiccicarsi alla sua bocca, e quasi la soffocò.
“Non
ho sentito la risposta della signorina Vargas” disse il
prete, nascondendo a
fatica la sorpresa e lo stupore nella sua voce gracchiante. Quindi
guardò Alice
e riformulò la domanda per lei. “è
venuta qui in piena libertà e consapevole della
sua decisione, signorina Vargas?”
La
ragazza abbassò gli occhi, senza alcuna necessità
dato che il suo volto era
nascosto sotto il velo, e si morse il labbro inferiore per calmarsi, ma
non
rispose.
Dietro
le sue spalle, gli invitati avevano iniziato a muoversi inquieti sopra
le
panche, strusciando i piedi e tossicchiando nervosamente.
Sentì
tossire suo padre ed evidentemente voleva dire qualcosa,
perché il prete alzò
una mano rugosa e macchiata in segno di ammonizione e disse
“è diritto della
signorina e compito della Chiesa, sapere se è venuta qui di
sua spontanea
volontà o costretta da qualcuno. Quindi devo ripetere la
domanda per altre due
volte.” Poi rivolse ad Alice e con tono più dolce,
ripeté la domanda e neanche
stavolta lei rispose.
Ormai
si stava alzando all’interno della piccola basilica un
mormorio piuttosto
concitato dai toni curiosi e anche scandalizzati, creando dentro la
chiesa una
buffa quanto inquietante Torre di Babele.
Quando
il prete le rifece la domanda per la terza volta, con più
decisone, la folla
tacque, in attesa della sua risposta. Alice si tormentò le
mani, rigirandosi
inconsciamente l’anello di fidanzamento
nell’anulare sinistro, e lanciò una
rapida occhiata dietro le sue spalle. Franco era diventato pallido,
come un
cadavere, a parte nelle guance e fissava mortificato qualcuno
nell’altra ala
della navata—probabilmente il Comandante
Beilschmdit—e quando si accorse che lei
lo stava guardando, le rivolse un’occhiata piena di rabbia e
irritazione e mimò
con le labbra un
aiuto.
“Alice…”
lo sentì sussurrare con un filo di voce, stanco e abbattuto.
Come stesse
subendo lui il sopruso.
La
ragazza inspirò ed espirò un paio di volte, prima
di rispondere con voce
tremante e fievole “Sì.”
Il
resto della cerimonio continuò, senza più alcuna
interruzione. Lucia aveva
fatto bene il suo lavoro, la ragazza sapeva cosa rispondere e quando.
Quando
il prete diede il consenso allo sposo di alzarle il velo, Alice per la
prima
volta in assoluto vide il volto di colui che ormai era diventato suo
marito:
Ludwig. Il viso squadrato era del colorito pallido della luna. Il naso
dritto,
la mascella rettangolare e gli zigomi alti sembravano dare una
impressione
nobile e altera; la fronte era alta e bianca e gli occhi erano celesti,
come se
avesse catturato il cielo. I capelli erano nascosti sotto il berretto
nero.
“Questo
è il volto di mio marito.”, pensò
Alice con il cuore in gola. Il viso del tedesco la inquietava, e molto.
Sembrava molto più grande di lei.
Si
scambiarono le fedi e Alice ebbe un attimo di esitazione quando Ludwig
le
afferrò la mano destra, cercando di infilarle la fede
all’anulare.
“Figliolo,
la mano è quella sinistra” lo corresse il prete,
battendo poi due dita
sull’anulare della mano sinistra.
Il
ragazzo mormorò qualcosa di incomprensibile, probabilmente
era tedesco, e
rapidamente le
infilò l’anello nella
mano giusta. Poi toccò a lei. Mormorò il
giuramento e gli infilò la fede, con
le dita tremanti e fredde.
“Congratulazioni,
ora siete marito e moglie.”,
si congratulò il prete e poi aggiunse “Ora lo
sposo può baciare la sposa.”
Quando
vide il volto dell’uomo avvicinarsi al suo, istintivamente
lei arretrò e sentì
le sue labbra poggiarsi velocemente sopra una sua guancia, vicino
all’angolo
della bocca.
Infilando
una mano nell’angolo del braccio di Ludwig, uscirono dalla
chiesa e vennero
festeggiati dalla folla.
Le
donne più anziane gridavano il solito augurio “Che
Dio vi benedica!” e “Auguri
e figli maschi!”, picchiettandole la testa con i chicchi di
riso lanciati in
aria, come voleva la tradizione.
Un
capannello di donne e ragazze, si avvicinò ad Alice,
rinnovandole gli auguri e
complimentandosi con lei per l’anello di fidanzamento.
“Oh,
è davvero un anello grazioso, Alice”
cinguettò deliziata Lucia, prendendole la
mano e mostrandola alle altre ragazze, che annuirono convinte
“Sì, davvero
carino!”
“E
anche molto costoso” aggiunse una voce roca e profonda dietro
le loro spalle,
che fece fremere la ragazza per il disgusto. Sapeva a chi apparteneva
la voce.
“Signor
Beilschmidt.”, mormorò torva quando
l’uomo si avvicinò a lei, con stampato un
ghigno tirato e cattivo.
“Oh,
chiamami pure Vatter o come si dice
da voi…papà!” le disse lui con finta
cortesia, allargando ancora di più il ghigno
e le diede un piccolo abbraccio, che lei non riuscì ad
evitare. Poi le prese la
mano sinistra e guardò l’anello “Noto
con piacere che alla fine si è decisa a
indossare il bellissimo anello che mio figlio le ha comprato, signorinella.”
Alice
bruscamente sfilò la mano dalla sua e commentò
indifferente “Le circostanze lo
hanno richiesto.”
Il
Comandante Beilschmdti ridacchiò divertito “Oh,
certo. Per voi donne esistono
sempre scuse quando si tratta di dovervi difendere e non apparire come
siete in
realtà: superficiali e vanitose. Non è vero, signorinella?”
La
ragazza distolse lo sguardo dal suo viso antipatico e
replicò scostante “La
prego, la smetta di chiamarmi signorinella, Comandante Beilschmdt,
adesso sono
una donna sposata.”
Quando
lo guardò di nuovo, notò con soddisfazione che il
tedesco si era fatto livido
in volto e non parlava. Certo, le era costato dire quella frase, ma
almeno una
piccola rivincita, per quanto misera e patetica in confronto a quello
che
ancora doveva subire, l’aveva avuta. Mentre si allontanava,
sentì il Comandante
ringhiargli cupo dietro le sue spalle “Ja,
è sposata. Ma si ricordi che è mio figlio e che
io sono suo padre.”
Quando
davanti alla piccola chiesa arrivò un auto nera, Alice
capì che il suo tempo a
Roma stava finendo e sentì un’altra fitta,
stavolta più forte delle precedenti,
colpirgli il petto. Alzò lo sguardo dai sanpietrini, che
aveva fissato per
tutto il tempo mentre aspettava l’auto per non guardare
Ludwig, e fece vagare
lo sguardo sulle prime cose che le capitarono davanti.
L’esedra, il magnifico
palazzo di marmo bianco che si affacciava a Piazza Repubblica. Le erano
sempre
piaciuti quei disegni scolpiti nel marmo. La Fontana delle Naiadi,
stagliate
davanti al palazzo, che quando erano illuminate durante la notte
rendevano la
piazza ancora più luminosa e romantica. E infine la chiesa.
“Avanti,
Alice, sali in macchina.”, le ordinò suo padre
dietro le sue spalle, facendola
sobbalzare per la sorpresa.
Guardando
per l’ultima volta la chiesa e la fontana, Alice
salì in macchina. Suo marito
era già entrato e aveva la testa rivolta verso il
finestrino. Silenziosamente lei
si sistemò vicino a lui, stando bene attenta a non toccarlo,
quando anche suo
padre entrò dentro la macchina, partirono.
Alla
stazione di Roma, Termini, i treni erano pigramente allineati lungo le
banchine. Uomini con l’elmetto verde in testa erano
indaffarati a caricare
borsoni e sacchi sul treno, e ad aggiustarsi con gesti seccati il fucile sulla spalla.
Alcuni sistemavano la
baionetta con gesti sicuri, altri con aria indifferente e stanca, e
altri con
ancora con espressione terrorizzata. Questi ultimi si guardavano
intorno con
aria circospetta, facendo guizzare gli occhi da una parte
all’altra, come se
stessero meditando la fugga.
Gruppi
di donne con capellini a cloche in testa, si assiepavano davanti al
treno,
cercando di raggiungere i finestrini e richiamare
l’attenzione dei soldati già
sistemati dentro il treno.
Alice
guardò assorta una donna—Franco era andato a
comprare il biglietto per lei—che
portava in braccio un bambino e parlava con un soldato che si era
sporto a
mezzo busto al finestrino. La donna aveva il volto rigato dalle
lacrime, che
ogni tanto nascondeva dietro un fazzoletto per non turbare il bambino,
mentre l’uomo
la fissava con espressione addolorata, accarezzando la testa ricciuta
del
figlio. Quando il treno fischiò, Alice vide la donna
piangere senza più freni e
afferrare la mano del soldato che stava già rientrando
dentro il treno. Il soldato
strinse la mano della donna e gliela baciò. Poi
posò le labbra sul palmo della
propria mano e toccò la testa del bambino che inconsciamente
sorrideva al
padre. Quando il treno partì, la donna e il bambino furono
inghiottiti dalla
folla di gente che gridava saluti e agitava le braccia.
Alice
sospirò e distolse lo sguardo sentendo come la sua tristezza
stava crescendo. Tra
poco il suo treno sarebbe partito e lei non avrebbe più
fatto ritorno a Roma. S'immaginò
la sua vita in Germania, in un paese lontano più di mille
kilometri dall’Italia.
Avrebbe dovuto obbedire a un uomo che nemmeno conosceva, assecondare
ogni suo
minimo cambiamento di umore e adempire ad un dovere in particolare.
Lucia le
aveva raccontato cosa facevano moglie e marito durante la loro prima
notte di
nozze. Era il pensiero di quella intimità indesiderata e
imbarazzante a farle
venire la nausea. Immaginava il sesso come una serie di dolorosi atti
perversi.
Stava
sudando freddo e il volto le era diventato pallido quando Franco la
raggiunse,
sventolando il biglietto per lei.
“Ed
ecco la mia figlia sposata!” esclamò Franco
mettendosi vicino a lei e
mettendogli in mano il biglietto. Alice fremette per la rabbia e si
allontanò
da lui, incrociando le braccia al petto. Non voleva sentirlo, non
voleva
toccarlo. Adesso la sua stessa voce le dava fastidio.
Indifferente
al malumore della figlia, Franco iniziò a parlare, senza
più smetterla. Non la
smetteva di dirle che la Germania era bella e pulita. Poi, Alice lo
sapeva,
sarebbe passato a decantarne i giardini, i mercati—sempre
puliti e ordinati,
diversi da quelli chiassosi e disordinati di Roma—, i teatri,
il caffè e la
qualità dell’aria e di lì a poco, lei
sarebbe salita sul treno e lui l’avrebbe salutata
sventolando orgogliosamente la mano. Poi sarebbe andato a prendere la
propria “meritata”
promozione. Ancora una volta l’avrebbe fatta franca a spese
di altri. Come era
successo con il fratello maggiore di Alice: Romano.
Alice
non riusciva a tollerarlo.
“Aveva
ragione Romano.” Disse.
Franco
si interruppe nel mezzo di una frase. Trasalì,
incrociò le braccia e poi le
lasciò cadere lungo i fianchi.
“Aveva
ragione Romano quando mi disse che tu sei solo un egoista ambizioso.
Disposto a
tutto per la carriera, anche a vendere i tuoi stessi figli.”,
l’accusò dura e
cattiva, girandosi per guardarlo dritto negli occhi.
Franco
trasalì di nuovo e replicò “Non
è vero. Sai che io non farei una cosa simile.”
“L’hai
appena fatto. Mi hai fatto sposare uno sconosciuto solo per aiutarti
nella tua
stupida scalata verso il potere.”
“Non
parlami con questo tono, Alice! E comunque questo matrimonio va solo a
tuo
vantaggio. La famiglia Beilscmdit è molto rispettata e
temuta in Germania.
Avrai una casa, una famiglia e dei figli, come hai sempre desiderato
e...”
“No,
come tu hai sempre desiderato! Non io!” lo interruppe la
ragazza. “Io non
desideravo sposarmi. Lo sai che non volevo.”
“E
che cosa volevi, allora? Dimmelo avanti. Così magari ci
mettiamo l’anima in
pace. Dimmi cosa c’era di più importante per te di
una famiglia, una casa, un
marito e dei figli.” Esclamò Franco, cercando
codardamente di difendersi dalle
accuse della figlia. Voleva svergognarla e farle capire che per una
ragazza non
esistevano cose più importanti di quello che lui le aveva
appena garantito
facendola sposare con quel ragazzo tedesco. Lui era un buon padre, ne
era
sicuro.
Alice
colse la sfida e abbandonando per un momento il risentimento e il
dolore,
addolcì il tono e rispose “Volevo stare con te e
diventare un giorno qualcuno
di cui tu saresti andato orgoglioso. Volevo diventare come te, un
giorno. Io ti
adoravo, nonostante tutto.”
Vide
suo padre impallidire e abbassare la testa, come se si vergognasse di
guardarla
in faccia ora.
“Io
ti adorava, papà.”, ripeté Alice,
schiarendosi la gola e distogliendo lo
sguardo per non piangere. Ecco, per l’ultima volta si era
resa ridicola di
fronte a suo padre. Nonostante le sue proteste, aveva fatto
ciò che suo padre
aveva voluto. Si era sposata con il figlio del Comandante Beilschmidt e
ora se
ne sarebbe andata via con lui.
“Non
ho mai creduto alle parole di mio fratello Romano. Non ho mai creduto
che tu
fossi così avido di potere.”
Vennero
divisi da un giovane soldato , che correva con in spalla una sacca.
Franco sembrava
sollevato da quella interruzione e alle scuse del soldato rispose con
un
sorriso educato.
“Non
immaginavo che tu mi ritenessi meno di un oggetto di
scambio.”
Franco
alzò finalmente il viso e provò a difendersi
“Non è vero. Questo mai. Mai,
Alice.”
La
ragazza scosse la testa e con un gesto brusco della mano lo interruppe.
“Basta,
quello che c’era da dire è stato detto. Ora
hai perso un altro figlio, spero che la tua promozione ne valga la
pena.” Disse
a suo padre distogliendo lo sguardo. E gli voltò le spalle,
incamminandosi lungo
il fianco del treno. Sentì che la seguiva e le stava
gridando “Verrò a
trovarti. Te lo prometto! Appena avrò tempo, lo
farò! Ma ti prego non lasciarmi
anche tu!”
Alice
scosse la testa “No. Non farti più vedere da me.
Non voglio più vederti. Mai più!
Non hai avuto nemmeno la decenza di farmi salutare la nonna!”
“Non
lasciarmi in questo modo! Alice!”
Arrivata
alla salita del treno, l’ebbe dietro. Rapida
mostrò il suo passaporto e il
biglietto al soldato di pattugliamento che con un gesto della mano la
invitò a
salire e un uomo che era appena salito si offrì di portargli
le tre valige che
aveva con se.
“Alice!”
Salì
e benché con la coda dell’occhio vedesse che suo
padre la seguiva camminando
lungo il lato del treno, non guardò fuori dal finestrino. Si
diresse verso la
cabina, dove Ludwig sedeva con una valigetta nera poggiata sopra le
ginocchia.
Non
si voltò a guardare Franco quando lui poggiò le
mani sul vetro e neppure quando
si mise a battere con insistenza le nocche sul finestrino. Quando il
treno si
avviò con un sobbalzo, Alice non si voltò a
vedere la figura di suo padre che
rimpiccioliva, che spariva dietro il fumo nero.
Ludwig che occupava il sedile vicino al finestrino guardò la scena senza battere ciglio, in silenzio, per poi rivolgere un’occhiata distratta alla ragazza, come se non si fosse accorto della sua presenza.
Ringrazio
chiunque mi lascerà una sua opinione, con la speranza che
questo capitolo ne
valga la pena.