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Autore: Black ashes    05/05/2013    1 recensioni
Ora abbiamo solo bisogno di silenzio.
Silenzio per immergermi lì, tra la tua iride e la tua pupilla, per diventare io quella scintilla che ho visto poco fa’.
Silenzio per incastonarmi negli occhi la tua immagine.
Silenzio per cercare di non dimenticarti.
Silenzio per non lasciarti andare via.
Silenzio perché tu riesca a fare lo stesso con me.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gestures.


Incontro n° 1.

«Come ti chiami?»
«Sofia.» Rispondo. La voce esce stridula, mi infastidisce. La schiarisco.
«Tu lo sai perché sei qui?» Chiede il tizio.
Faccio sì con la testa, raccolgo le ginocchia al petto sulla poltroncina di pelle beige, le avvolgo con le braccia. «Mia madre pensa che io sia una matta.»
«In realtà il pianeta pensa che tu sia matta.» Precisa lui.
Faccio spallucce.
«La cosa non t’interessa?»
«Quando uno fa una pazzia, è pazzo. Quando cinque persone fanno una pazzia, sono pazze cinque volte. Quando cinque miliardi di persone fanno una pazzia, il pazzo sei tu.» Mi inumidisco le labbra.
Ride. «Questa l’avevo già sentita, ma era diversa.»
«L’ho adattata alla situazione.»
Sorride, si alza e prepara il caffè con una di quelle macchinette strafighe della Nespresso.
«Per me macchiato.» Dico.
Lui sorride, obbedisce.
Poco dopo è lì che mi passa lo zucchero, che rifiuto.
Mentre bevo il primo sorso, fa la domanda.
«Allora, Sofia. Mi puoi raccontare come è iniziato tutto?»
Non rispondo e prendo un altro sorso, poi appoggio la tazzina vuota sul tavolino di vetro e legno.
Sospiro.
«Se non te la senti…»
«Erano i primi di ottobre. Pioveva sempre.» lo interrompo. «Ero uscita con un paio di mie amiche, Giulia e Alessia. Ci eravamo sedute sulla panca di cemento dietro al campetto di calcio, come al solito.» Sorrido. «Guardavamo i ragazzi che si allenavano.»
Sorride anche lui.
«Non che a me piacesse quel tipo di ragazzo, sa. Troppo… sono tutti in stile fighetto. I classici con le Nike e la felpa Abercrombie, non so se ha presente il genere.»
Annuisce.
«Comunque, sul campo erano diversi. Tutti con la stessa divisa, tutti che giocavano allo stesso gioco. Era più facile catalogarli in modo oggettivo. Ed era quello che facevamo: davamo dei voti. Infantile o meno, ci divertiva.»
«E lui era un giocatore?»
«Oh, no.» Prendo una bustina di zucchero, inizio a giocherellarci. «Stavo fumando una sigaretta, una Camel se non mi sbaglio, ed è passato lui. Mi ha chiesto se avevo l’accendino, e io gliel’ho prestato. Ha tirato fuori un pacchetto di Marlboro Rosse, se n’è accesa una.»
«Te le ricordi bene le marche delle sigarette.» Osserva.
Faccio spallucce.
«Qual è stata la prima impressione che ti ha dato?»
Ci penso un attimo, poi sorrido. «Ho pensato che somigliasse molto a Robert Sheehan, nella versione di Misfits. Sa, capelli ricci scuri, magro come un chiodo, l’aria di uno che non ha idea di dove andare o cosa fare.»
«Non ho ben presente chi sia l’attore che hai nominato. È un attore, vero?»
Annuisco. «Lo cerchi su Google.»
Sorride, poi torna a guardarmi con la stessa espressione di prima: interessata, concentrata. «Ti piaceva quando lo hai visto la prima volta?»
«Non lo so. Voglio dire, mi piace molto il genere, è esattamente il mio. Solo… forse se fossi stata da sola avrei agito in modo diverso. E pensato, in modo diverso.» Mi inumidisco le labbra, faccio per continuare, poi mi fermo e aspetto che dica qualcosa.
«Le tue amiche ti condizionavano?»
Sospiro. «Decisamente. È complicato da spiegare, ma per farla breve tendo a confrontarmi con ogni ragazza che vedo. E valuto come viene vista dagli altri. E se percepisco che le persone la accettano, o la ammirano addirittura, cerco di pensare come credo pensi lei, di diventare come lei.» Rido, piano. Da sola. «E’ patetico, vero? Non ho una personalità.»
Corruga le sopracciglia. «No, anzi. È normale. È una cosa che succede a molte ragazzi della tua età, solo non tutti se ne rendono conto.»
«Stronzate.» Borbotto. Lui non dice nulla, fa un gesto per dirmi di continuare.
Respiro, poi riprendo. «Comunque, mi ha ridato l’accendino e si è messo a fumare davanti a noi, guardando il campo da calcio. Era quasi il tramonto, il sole era arancione e caldo. Mi piaceva quell’atmosfera strana. Credo piacesse anche a lui.»
«Cosa hai pensato quando invece di andarsene è rimasto lì, a guardare il campo?»
Aspetto un attimo prima di parlare. Cerco di ripercorrere con la mente i ricordi appannati.
«Francamente, non ho pensato nulla. Forse la cosa mi ha compiaciuta un po’, ma non mi ricordo bene.»
«Come mai eri compiaciuta?»
«Solitamente, io tra le tre ero quella meno guardata dai ragazzi. L’ultima scelta. Quella volta no. Quel ragazzo guardava solo me.
Dopo poco abbiamo iniziato a parlare. Di cazzate, sa. Ho iniziato io, chiedendogli come mai era rimasto lì. Ha chiesto se volevo che andasse via.»
«Cos’hai risposto?»
«Ho detto no. Che non volevo che se ne andasse. Lui ha sorriso, e ho pensato che fosse veramente carino. Mi ha chiesto come mi chiamavo, poi io gli ho chiesto come si chiamasse lui. Matteo, ha detto. Poi mi ha chiesto quanti anni avessi. Gli ho domandato quanti me ne dava, lui ha riposto diciotto. Gli ho detto che ne avevo sedici, lui ha sorriso e ha detto “io diciotto”.» Faccio una pausa, il tizio non m’interrompe.
«A quel punto, Giulia e Alessia hanno iniziato a sembrare… a disagio. Si sono alzate, mi hanno salutata e se ne sono andate. Lui è rimasto lì, in piedi davanti a me, e abbiamo iniziato a parlare.»
«Ti ricordi di cosa?»
«Non particolarmente. Abbiamo parlato di che scuola frequentavamo, di musica, di calcio. Mi sono accorta dell’orario che ormai era buio, così sono dovuta tornare a casa. Mi ha accompagnata, è stato gentile. Gli ho dato il mio numero, poi se n’è andato.
Ho pensato che fosse un ragazzo fottutamente intelligente e dolce. Un po’ scemo, in senso buono. Battute, cose così. Ma era dolce in modo implicito. Ed è una cosa che mi piace, perché non sopporto quelli che ti dicono ‘sei bellissima’ ‘mi fai battere il cuore’ o cazzate del genere. Mi bastano i gesti.»
Controllo l’orologio. Tempo scaduto.
«Alla prossima.» Dice.
Non lo saluto, prendo la borsa e esco.
Psicanalista del cazzo.
  
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