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Autore: CleaCassandra    25/11/2007    11 recensioni
Frances, una vita fuori dall'ordinario, e una persona speciale, reincontrata dopo anni.
Diciamo pure che non sono brava a fare riassunti, spero solo vi piaccia.
attention please: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone di cui parlo (ma magari li conoscessi di persona ;O;), nè offenderle in alcun modo...beh, insomma, era una precisazione necessaria u_ù
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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per questo voglio una caterva di commenti, capito? u_ù

Cap. 28 – Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire

L'ho lasciato. Ormai è più di un anno.

Beh, mi ha lasciato, all'incirca un anno e mezzo fa. Mese più, mese meno. Non ho controllato il calendario, non voglio che diventi un'abitudine stillicida.

Di ragioni....beh, cito a mio personale uso e consumo il titolo di un romanzo che vidi anni fa su uno scaffale di libreria, reparto letteratura italiana.
Una, nessuna e centomila.
So che ce ne sono, ma non so qualificarle, e così è come se non ce ne fosse neppure una. Ho provato a dire qualcosa, a ripeterle, davanti allo specchio, pensato a qualche modo per renderle più convincenti, ma prese una ad una perdevano completamente un senso, ammesso che ce l'abbiano mai avuto. E così, meglio una sana e schietta scena muta. Probabilmente sarò apparsa come una stronza, ma che qualcuno mi creda, per favore. Non sono stronza.
Ero solo confusa. Lo ero, e lo sono tuttora.

Il motivo?
Non lo sa con precisione nemmeno lei. Uno, nessuno e centomila, così mi ha detto. Non so perché, ma questa frase mi sa di citazione. É troppo...troppo, per essere stata pensata da lei. Senza offesa, intendiamoci, ma è una che legge parecchio, non mi stupirebbe se provenisse da qualche libro. Tutto quello che dice o fa è una citazione, un vivere secondo dettami imposti dagli altri, e anche questo tatuaggio che continuo a portare sul braccio ne è una dimostrazione lampante. Non so perché ce l'abbia ancora, forse mi sembrava davvero di infierire, a farmi cancellare anche questo.
O forse perché spero ancora di essere l'antidolorifico per il suo cuore tormentato e incosciente.

Eppure mi sembra sempre di prendere per il culo qualcuno. Ho questa sensazione che mi striscia nelle vene ogni volta che ci penso, ogni volta che provo a darmi un perché per tutto questo. I primi a farne le spese, a sorbirsi il mio mutismo ostinato, sono stati coloro che mi ponevano la fatidica domanda, sgomenti perché fino a qualche giorno prima avevo la faccia di quella innamorata alla follia.
Mio fratello.
Alice.
Dave.
Mikey.
Alicia.
Gerard.
Bob.
Ray.
Persino Brian.
Ma soprattutto lui.
E non sapevo mai cosa dire. Bocca serrata, espressione costernata, quasi volessi provare a dire solo con lo sguardo "mi dispiace, non lo so, ma doveva andare così".
Lo confesso: a questo punto non sono nemmeno più così sicura che dovesse andare così, però è successo troppo in fretta, troppo velocemente, e la fiducia reciproca è crollata quella fottuta notte di capodanno, senza avere più la forza di rialzarsi.
Non credevamo più l'uno nell'altro. Ci abbiamo creduto solo qualche giorno.
Avremmo dovuto promettercelo a vicenda quella sera.
Credi in me, così come io credo in te, stanotte.
Ma è successo quello che Billy Corgan cantava in un altro verso.
Impossible is possible, tonight.
É successo l'impensabile, l'imprevedibile, l'impossibile. E non siamo riusciti a sottrarcene nemmeno all'ultimo momento.
É difficile credere in qualcuno, se hai anche il minimo sospetto che possa tornare sui suoi passi e abbandonare tutte le promesse che, implicitamente o meno, aveva fatto.
E ormai non credevamo più in niente. I nostri incubi erano tornati, più se n'era aggiunto qualcun altro, qualche disgraziata new entry.

Non siamo più gli stessi, da quel capodanno. Il germe del dubbio s'è risvegliato e non è più andato a dormire, e potevamo scambiarci le promesse più grandi di questo mondo, ma inconsciamente sapevamo che era un tentativo disperato di non farsi sfuggire la terra da sotto i piedi.
Quell'unico 'ti amo' ne era il segno inequivocabile. Mi amava davvero, e dentro di me sono più che sicuro che mi ami ancora, anche solo un po', che un angolo minuto della sua mente si ricordi di me e di quello che eravamo, ma non aveva mai avuto bisogno di dirmelo. Lo sapevamo e basta. Ci scherzai su, ma sentii chiaramente che qualcosa stava iniziando ad incrinarsi. Ed era successa soltanto una minuscola percentuale di fatti. Era solo la punta dell'iceberg, e non lo sapevamo.
Non è facile assistere a una ricaduta, e pensare che sia l'ultima. Ancora mi rimane il dubbio, perché non so se si fosse davvero fatta di qualcosa o se era soltanto uno stupido rumour.
Ma Jamia non è una stronza, no. Non può avermi detto una cazzata così, tanto per fare qualcosa.
Però...se avesse visto male? Se le avessero riferito la notizia errata? Insomma, non riesco a venirne a capo, e nemmeno Frankie mi ha mai dato l'occasione di capirci qualcosa. Avrei dei motivi per non fidarmi, allora, ma ormai è talmente irrilevante che non ci penso nemmeno più.

Non ho mai pensato di essere stata una specie di ruota di scorta, un tappabuchi per riempire le sue giornate senza di lei, e avevo l'evidenza dei fatti dalla mia: c'ero anche prima che il loro rapporto s'infrangesse, e quando lei lo ha cacciato di casa, beh...sono stata io ad andare a cercarlo, non l'opposto. Oddio, se proprio devo essere sincera la questione è ben più complicata di come la si dipinge: lui stava male per colpa mia, ed era arrivato a un grado di distruzione tale da esasperare e allontanare chiunque.
Stava lanciando un messaggio. Non è di voi che ho bisogno, non adesso.
Era me che voleva. E la cosa paradossale, ma nemmeno così tanto, era che io stavo facendo lo stesso.
Incosciamente speravo che, ogni pomeriggio, al tramonto, quando andavo da sola su quella piccola spiaggia e davo fondo a tutte le mie lacrime, lui comparisse dal nulla e venisse a rassicurarmi che sarebbe andato tutto bene, che non ci saremmo più separati. Sì, lo so, probabilmente qualche rotella se n'era andata in vacanza premio, ma la speranza, ci insegnano da piccoli, è l'ultima a morire, e io cercavo di alimentarla con quel piccolo rito, come se potesse davvero servire a qualcosa, e anche perché, in fondo, non avevo nulla da fare, visto che eravamo in pausa forzata.
Poi è arrivato Mikey, ed è cambiato tutto. Ancora mi chiedo, se non ci fosse stato lui, come sarebbe andata a finire.
Ho temuto il peggio, in quella stanza, a casa di Gerard. Avevo una fottuta paura che andasse tutto a ramengo, che lui non volesse più vedermi, ma non era così. Anche lui sperava che, ogni volta che mandava il suo senno a farsi un giretto da solo, arrivassi alle sue spalle e lo abbracciassi, sussurrandogli che era solo un incubo, che si sarebbe svegliato presto. Me l'ha confessato lui stesso.
Era innamorato perso.
Io lo stesso.
E allora perché è finita?

Con Jamia abbiamo ricominciato a sentirci, per gradi, da qualche mese dopo la fine della storia con Frances.
Sono stato un vigliacco, lo so, ma sentivo che avrei dovuto sistemare anche con lei, e dimostrare al mondo che non ne ero ancora innamorato, ma mi sono reso conto praticamente subito che stavo prendendo in giro tutti e tre.
Ero innamorato di Frances.
Ed ero innamorato, ancora, di Jamia.
In fondo, avrei dovuto sposarla. Glielo avevo chiesto, prima di rincontrare Frankie, e quel tatuaggio, quello che ormai non ho più, rappresentava proprio la nostra promessa di matrimonio. Una promessa infrantasi con la banalità con cui un vaso può cadere a terra e fare la medesima fine.
Lei...beh, è stata sempre piuttosto gentile, con me, ma continuava a dire che non saremmo mai tornati insieme. Non voleva, non più.
"Come posso stare con una persona che ho allontanato nel peggiore dei modi proprio quando stava male e aveva bisogno di aiuto?" ripeteva in continuazione. Eppure lo sapeva meglio di chiunque altro che ero io che la stavo allontanando, agendo in quel modo, diventando la persona più sgradevole sulla faccia della terra. Come a dirle che lei non avrebbe mai risolto la situazione, che questo compito sarebbe toccato a qualcun altro.
A Frankie.
Aspettavo solo lei, ma non avevo il coraggio di rivederla, avevo paura che si frantumasse come una statua di cristallo solo ad avermi davanti. Non mi preoccupavo per me, ero già a pezzi per come l'avevo trattata, e tutto questo solo perché avevo creduto a determinate cose, elementi che nella mia testa si incastravano in un certo ordine, ma che nella realtà avevano tutt'altra collocazione.
Se solo l'avessi ascoltata a fondo. Se solo non fossi stato così bastardo, e le avessi dato tempo di spiegarmi che non può certo andare in giro a raccontare a tutti della sua tossicodipendenza, men che meno a gente che conosce da qualche giorno, tipo me, all'epoca. E invece l'avevo solo inibita, in quel modo, e lei era così....così impaurita, che non riusciva a dirmi niente, così disperata da quel suo mutismo inatteso, da giungere ad urlare il suo amore per me, pentendosene immediatamente. A quel punto non sapevo che fare. Avrei voluto gridarglielo, dirle che anche io, sì, anche io ero innamorato di lei, per questo non riuscivo ad accettare il suo passato. Avevo paura che potesse ripetersi, e non riuscivo a concepire di dover, per una qualsiasi ragione, fare a meno di lei, del suo sorriso e della sua voce inconfondibile. Dio, se solo avessi una voce come la sua...è meravigliosa. Sembra avvolgerti e scaldarti, dirti che almeno un posto sicuro c'è, in questo mondo.
Ma non ci riuscii, perché avevo stampata a fuoco nel cuore la cocente delusione di avere scoperto quello che era. Non doveva esserci nulla di male, anche Gerard, in fondo...e Mikey...ma da parte sua, inspiegabilmente, non lo accettavo.
Però, se ci penso...in fin dei conti non ho mai veramente avuto fiducia in lei.
E allora come ho potuto chiederle di fidarsi di me, con quella frase?
Eppure ogni tanto mi capita di vederla, magari a qualche live. Il tatuaggio è sempre lì, anzi, adesso tutto intorno ha come un cartiglio, che lo mette ancora più in evidenza. É solo grazie a questo ridicolo particolare che continuo a sperare.
Lei crede ancora in me, nonostante quel giorno sia venuta lì? Me lo starà facendo capire? Non lo so, ma averne l'illusione mi fa sentire meglio.
Ho sempre avuto la sensazione che non avesse il coraggio di muovere un passo senza qualcuno, o qualcosa, a sostenerla, ma posso criticare qualcuno per i miei stessi difetti? Se non ci fosse stato Mikey, come avremmo fatto a rivederci?
É solo lui che dovrei ringraziare. E Ray, sì, anche lui. Grazie a lei, non lo chiamo più per cognome, e anche lui si è abituato all'idea, e forse, chissà, me ne è anche grato. Insomma, io devo ringraziarlo, perché dopo mesi di cazzate, di giullarate da cretino, sul palco e fuori, avevo sentito il bisogno di staccare la spina, di cambiare per un attimo.
"Prestami qualche disco che mi distragga, per favore." Mi aveva guardato stranito, e d'altronde anche io, in un primo momento, mi chiedevo perché fossi andato proprio da lui. Sì, insomma, era l'unico che non aveva ancora detto la sua su tutta la faccenda, e mi sarebbe piaciuto sapere cosa ne pensasse.
Mi allungò Vol 3: The Subliminal Verses degli Slipknot.
"Occhio alla traccia 11" si raccomandò. Non aveva aggiunto altro, e così sentivo crescere la curiosità, ma mi ero promesso di ascoltare tutto il disco, senza saltare subito a quella canzone.
Era perfetto, pensavo, intanto. Con le orecchie trapanate da quei nove pazzi avrei avuto il tempo di non pensare a nulla, come se potesse essere la cosa migliore.
Ma non avevo tenuto conto dei testi.
Traccia dopo traccia sentivo dentro di me crescere la rabbia, per aver lasciato andare tutto così, e un peso nel petto che si faceva sempre più insostenibile, sempre più gravoso da portar dietro. Le canzoni scorrevano nelle mie orecchie come preludio a quella famigerata traccia numero undici, come antipasto all'apoteosi di incazzatura con il mondo, ma soprattutto con me stesso.
E invece delle note, emanate da una chitarra acustica, mi spiazzarono.
Tristi, malinconiche, dense di dolore.
Guardai con stupore la custodia del cd, in cerca del titolo: Vermilion, part 2.
Le parole, a tratti, somigliavano a quelle di Vermilion, la prima. La voce di Corey era profonda come sempre, pacata, ma intrisa di una dolcezza terribile, di quelle che ti spezzano il cuore.
She is everything to me. The unrequited dream. A song that no one sings.
Piansi, piansi come avrei dovuto fare sin dal primo momento, senza sosta, senza vergogna, mettendo a ripetizione quella traccia, col preciso intento di cullarmi nella mia disperazione.
L'avevo persa.
Ed era tutto per me, solo in quel momento me ne resi conto.
Jamia passava irrimediabilmente in secondo piano, scompariva come neve al sole, mentre ripensavo a Frances.
E non sapevo cosa fare, non sapevo come poterla riavere. Mi mancava come l'aria che respiro, l'aria che soffocavo nella nebbia di mille sigarette, fumate nel tentativo di arginare quella piena di lacrime che aspettavo da troppo tempo, ma che non ero mai riuscito a tirare fuori, pensando che la cosa migliore fosse dimenticare, fare sì che quella fosse una pagina ormai voltata, su cui non tornare più. E, in disparte, Ray assisteva alla mia disperazione, silenzioso, comprensivo, discreto.
Fu quello il suo commento alla mia situazione. Il silenzio. E quella traccia, consigliata cripticamente.
Mi conosce, sa quanto la mia curiosità possa diventare un impiccio, ma quella volta era stata provvidenziale, perché mi aveva fatto capire che era così che stavo, in realtà. Che 'Frank il Cretino' era solo la prescelta, tra le tante maschere che avrei potuto indossare per nascondermi, e che quelle parole avrei potuto benissimo scriverle io, in quel momento, se solo non fossi stato così alacremente impegnato a fare di me una macchietta, un personaggio mediocre.
Dentro di me non smetto di ringraziarlo nemmeno ora. Perché mi ha aperto gli occhi.
I don't know what to do.
Anche adesso sono paralizzato dall'indecisione, ma almeno so cosa voglio.

Keith si prese cura di me come ci si prenderebbe cura di un bambino nato da poco.
Con delicatezza, dolcezza e affetto sconfinato. Con devozione.
Non chiedeva perché avessi lasciato Frank, chiedeva solo perché gli avessi anteposto lui e Dave. Gli risposi che sono sempre stati la mia vita, non potevo buttarmi ad occhi chiusi tra le braccia dell'ultimo arrivato. Rimaneva sempre spiazzato dal cinismo estremo della mia visione, ma io sapevo che era tutto finto, che mi sarei abbandonata volentieri a lui, ma non potevo, perché avevo dei doveri verso me stessa, ma soprattutto verso la mia band.
Già, Anche nei confronti di Dave.
David Griffith. Il migliore amico di mio fratello. Quello che ormai non mi parlava da mesi.
Alla fine si sbottonò.
Eravamo dalle parti di Amsterdam, o Rotterdam, non ricordo. In ogni caso, eravamo in Olanda, per il tour europeo, ed era all'incirca la fine di gennaio, questo lo ricordo bene. Stavamo barricati in questo locale, perché fuori faceva un freddo boia, noi tre, Alice, che ci aveva seguito, e tutta la crew, tecnici del suono, manager, turnisti, questo tipo di gente qua. Keith aveva riprovato a farlo bere come si deve, seduti a un tavolo un po' isolato, cercando anche di dirottare la conversazione sui punti giusti, ma io giustamente non potevo accorgermene, visto che ero con Alice a bere e fare amicizia con la barista, una tipa veramente simpatica. Purtroppo mi sono dimenticata il suo nome, ma credo che comunque non sia indispensabile ai fini della storia, giusto?
Insomma, con Alice finimmo a discutere su quei tatuaggi che ci eravamo fatti fare, le frasi a sorpresa. Lei mi stava criticando, perché a suo parere era stata una mossa un po' troppo avventata. "E se poi non vi fossero piaciuti?" chiese, e io a spiegarle che la faccenda era più complessa di così, e a un certo punto questa ragazza mormorò che l'idea invece era carina e originale, e così finì che s'era introdotta nella conversazione, e devo dire che creò dei buoni diversivi per non far discutere ancora più aspramente me e Alice, cosa di cui le sono grata tuttora.
In effetti, ancora sento soddisfazione per la mia idea. Nonostante tutto quello che è successo, non riesco a pensare che continuare a portare questa frase, che oltretutto ho fatto circondare da una specie di cornice, una spessa riga scura, al cui interno si ritagliano piccole stelline e farfalle stilizzate, sia uno sbaglio. Forse lo sto illudendo, così, perché so che mi vede, lo so. E anche io vedo lui, ai concerti, nei filmati e le foto che i fans gli scattano durante i live, e vedo ciò che lui vede guardando me.
Vedo ancora la mia richiesta di alleggerire il mio dolore, di essere il mio muscolo cardiaco, ancora per un po'.
Vale sempre.
Per entrambi.
Ma facciamo finta di niente, continuiamo a condurre le nostre vite su binari paralleli. Possiamo vederci l'un l'altro, ma non scontrarci, come successe quel giorno.
"Andiamo dai ragazzi?" aveva proposto lei.
"No, dai, non vedi che stanno parlando tra loro...magari saremmo solo d'intralcio..."
"E a cosa?"
"Beh, alla loro, uhm...conversazione..." stavo tentando di arrampicarmi sugli specchi. La verità era che avevo questa sensazione, che se mi fossi tenuta a distanza avrei evitato qualche situazione, come dire, spiacevole, ma Alice non sentì ragioni, e così ci avvicinammo.
Sentii distintamente uscire dalla bocca di un Dave ormai ubriaco fradicio le seguenti parole, testuali: "Io mi sono rotto veramente le palle, sono stufo di stare zitto e sentirla cinguettare al telefono con quella mezza sega! E tu che gli organizzi anche la vacanzina di qualche giorno per andarla a trovare, poi! Keith, seriamente, sei un fratello per me, ma lì ti ho odiato...odiato, beh, come si può odiare un fratello, cazzo! M'è rimasto sui coglioni da subito, quel pivellino, cosa crede, di essere figo ad andare a giro con tutti quei tatuaggi? A dire di essere il chitarrista di quella band di froci...che schifo, porca troia!"
Qualcuno si chiederà come faccio a ricordarmi le parole a memoria. Beh, gli insulti di Dave sono sempre molto incisivi, e la faccia...ehi, quella era da oscar. La tipica espressione dell'ubriaco devastato dal mal di stomaco, che sembra dirti con gli occhi 'sto per vomitare anche l'anima, togliti da davanti, se vuoi rimanere incolume'. Il suo mal di stomaco, oltretutto, aveva un nome ben preciso.
Frank
Anthony
Thomas
Iero.
Mio fratello cercava di placarlo, "e dai, Dave, stai pisciando di fuori, è il ragazzo di mia sorella, non me ne frega che sei innamorato di lei, insomma, potevi deciderti prima, invece di spalargli merda addosso, anche perché poi lo sommergi, piccoletto com'è..." ridacchiava.
E qui mi scappò un "E CHE CAZZO!" piuttosto ben scandito. Beh, poteva assumere diverse sfumature, dipendeva solo dal lato in cui lo si fosse guardato. Sconvolgimento per quella specie di rivelazione attesa per mesi, anche se già abbondantemente ipotizzata nella mia testa, oppure Dave che si sfogava su Frank, o ancora, e forse soprattutto, mio fratello che gli stava dando corda, insomma, il tutto si prestava ad infinite interpretazioni.
Si voltarono entrambi, Keith sorpreso di vederci così lontane dal bancone e così vicine a loro e ai loro bei discorsi 'da uomini', Dave assolutamente dotato del suo aplomb da sbronzo, e proprio così, senza fare una piega, mi si rivolse, biascicando che "lui, sì, quel tappo, quel LURIDO tappo, tengo a specificare, non ti renderà affatto felice...io invece posso!"
Alice aveva le mani davanti alla bocca, poi se le portò in mezzo a quella giungla di liane rosse che ha il coraggio di chiamare capelli e si mise a fissarmi, come in attesa di una risposta per tutta quella trafila di provocazioni.
Cos'avrei dovuto dire? Buon per lui, che aveva scoperto di essere attratto da me, quando ormai erano anni che non pensavo più a lui in quelle vesti (credo sia una tappa quasi inevitabile, innamorarsi del migliore amico del proprio fratello maggiore, durante l'adolescenza.), buon per lui, che stava infamando Frank, e chissà quante altre volte lo aveva fatto. Buon per lui, insomma, ma non me ne fregava proprio un accidente.
"Tu? Ma vaffanculo, và!" esclamai, alzando il sopracciglio, poi tornai verso il bancone a cercare di credere che fosse solo un'orrida allucinazione, magari anche aiutata da una vodka ghiacciata come si deve. Però, non solo non avevo le traveggole, ma soprattutto non feci altro che pensarci per tutto il tour. Avevamo da arrivare fino in Russia, ne avremmo avuto per un altro mese almeno, ed ero terrorizzata solo dal pensiero di passare i tempi morti a pensare a Dave, e a come fargli capire, una volta sobrio, che non era proprio il caso.
A Frank non accennai minimamente la questione, e forse fu un po' questo l'inizio della fine. Non s'è mai fidato troppo di me, e questo lo capivo benissimo anche da sola, quindi a tacere ostinatamente sul perché gli apparissi così strana, sul perché, ogni volta che nominava la mia band, lo fulminassi con lo sguardo, e su tanti altri perché, beh, avevo soltanto gettato benzina sul fuoco.
Iniziarono le accuse. Non so se per reazione, o perché lo pensasse seriamente, continuava a ripetermi che Jamia aveva ragione, che gli avevo sempre mentito riguardo alla mia vita, e che gli stavo nascondendo chissà cosa. Insomma, ogni pretesto era buono, ma che dico, ottimo, per iniziare a litigare come due imbecilli, e lui tirava sempre fuori Jamia, e non ce la facevo più a sentirla nominare sempre e comunque, era diventata una pratica di sadismo puro. Sapeva che non volevo sentire il suo nome, sapeva che contro di lei non avevo nulla, ma che non ne potevo più, e quindi andava avanti, provocandomi, istigandomi ad incazzarmi e andarmene, sbattendo porte e finestre. Una delle ultime volte mi ricordo che sbottai una cosa tipo: "Visto che Jamia ha sempre ragione, perché non te ne torni da lei, invece di stare tra i piedi a questa cogliona che fa sempre un mucchio di stronzate?" e lui non rispose, non disse niente, prese solo le sue cose e se ne andò, forse da Gerard, o da Ray, salvo tornare dopo un paio di giorni a chiedere scusa. Era sempre così, ormai, sempre un oscillare convulso tra lo scannarsi e il tornare pateticamente smielosi come ai primi tempi.
Però non era per questo che sono andata ad annunciargli che "mi dispiace, è finita". Eravamo solo un fascio di nervi pulsanti, in quel periodo, e quello era il modo che avevamo per sfogarci l'uno contro l'altro, invece di aiutarci ad andare avanti.

S'era incrinato qualcosa. Jamia non voleva più stare con me, è vero, ma non perché mi avesse allontanato nel momento più critico. Cioè, alla fine quello è stato l'epilogo di tutta una serie di situazioni che erano iniziate da quando ero a San Francisco ed ebbi l'idea di entrare nel suo studio a farmi quel tatuaggio.
Il grottesco, in tutta la faccenda, è stato che il copione si è ripetuto quasi del tutto identico con Frankie, tornata dal tour europeo.
Ho un modo strano di reagire alle difficoltà. Mi nascondo dietro a un dito. E quel dito si chiama 'fare il cretino'.
Ecco perché litigavamo così spesso. Lei ci metteva del suo, era sempre vaga, nascondeva tutto, o quasi, di sè, e io non riuscivo a fare altro che provocarla. Soprattutto nominandole Jamia. Perché effettivamente la mia mente tornava sempre a pensare a lei. Come se lei e Frankie stessero giocando a tennis, con la mia testa come pallina.
E lei andava fuori di senno. Ero la goccia che faceva traboccare il suo vaso, ogni volta. Immaginavo avesse dei problemi con il gruppo, ma non mi diceva mai nulla, e se provavo a chiamare Keith, mi diceva sempre che "se non te l'ha raccontato lei, non vedo perché dovrei io. Evidentemente non vuole tirarti nei suoi casini."
Ma io volevo farmici trascinare dentro! Ero il suo ragazzo, in fondo, non un soprammobile.

Dave era rimasto talmente schiacciato dal mio rifiuto, che non sembrava più lui.
Non rideva, non scherzava, se possibile era ancora più muto rispetto al periodo precedente.
In un certo senso non riuscivo a darmene pace. Mi dispiaceva, in fondo, perché è un amico e, insomma, gli ho sempre voluto molto bene.
"E di che ti lamenti, era ubriaco, ma mica scemo. Il tuo bel vaffanculo se lo ricorda, sai?" mi rispose Keith, il giorno che gli chiesi perché non si riprendesse.
Insomma, Dave voleva buttarsi. Dal ponte. Sì, il Golden Gate. É piuttosto famoso per via di tutta la gente che ci si suicida.
Eravamo tornati da qualche mese dall'Europa, e continuava ad avere quella faccia da funerale, da cane bastonato. Stranamente, nemmeno la notizia che stavo rompendo con Frank lo risollevava.
Un giorno, durante le prove, era saltato fuori dicendo che si sarebbe fatto una passeggiata, ma uno non va a fare passeggiate in auto, questo doveva aver pensato Keith appena aveva sentito rombare il motore della sua, così uscì di fretta, deciso a seguirlo, e si mise alla guida del mio maggiolone, che stranamente, sotto di lui parte sempre subito. Prodigi della tecnica.
Ero riluttante, soprattutto dopo il silenzio ostinato che era calato, ancora più pesante di prima, tra me e Dave. Però vedere mio fratello così preoccupato mi aveva fatto impressione, e così stavamo andandogli dietro, e quando abbiamo visto la sagoma arancione del ponte iniziare a stagliarsi all'orizzonte, mi sentii spalmare sul sedile da un'accelerata brusca.
Se devo essere sincera, lì per lì non mi ero scomposta più del dovuto.
Okay, lo ammetto, proprio non c'ero arrivata, a pensare al suo gesto. Keith sì, però. Quando vide, con la coda dell'occhio, la macchina accostata da una parte, fuori dalle corsie stradali, per poco non rimaneva lì, secco. Qualche secondo a boccheggiare, poi lo vidi letteralmente schizzare fuori dall'auto e gridargli qualcosa.
Ci misi un bel po' di coraggio a uscire anche io dalla macchina, e la scena che mi si parò davanti aveva seriamente del surreale.
Dave era già sistemato per il suo tuffetto, e Keith lo stava praticamente raggiungendo.
"Pezzo d'imbecille, non hai bisogno di toglierti dal mondo! Torna qui e smettila di giocare a fare l'Harold della situazione, perché io non ti salverò davvero, ho forse l'aria da Maude?"
Okay, passi per la citazione cinematografica un po' riadattata a tuo uso e consumo, fratellone, e passi anche il fatto che tutto sommato non somigli a una simpatica vecchietta che ha una voglia incontenibile di vivere, ma cosa credi di essere andato a fare lì, raccogliere una banconota da cento dollari?! Su, avanti, meno cazzate, non fare il duro e riporta quel cretino qua!
Ma la cosa ancora più assurda fu la risposta di Dave, che piagnucolante, farfugliava: "Ma Harold faceva finta, io no...", sempre meno convinto di fare quel che aveva intenzione di fare. E io assistevo a tutto questo a distanza, terrorizzata e col cervello in pieno moto, e ragionavo, elucubravo, riflettevo che, forse, l'unica persona che avrebbe fatto un piacere al mondo a togliersi di torno ero io.
Stavo facendo naufragare una relazione meravigliosa per i miei nervi del cazzo, e uno dei migliori amici che abbia mai avuto si vuole buttare dal Golden Gate Bridge per colpa mia.
'Direi di aver fatto abbastanza danni' conclusi, nel chiuso della mia scatola cranica (vuota). Era già tanto che non mi fossi prodotta in una ridicola scena madre in cui supplicare tra ignobili piagnistei quei due imbecilli, che nel frattempo si erano messi a parlare di film, di ritornare sulla terraferma, ma, ecco, diciamo che tutta questa situazione mi stava facendo rivalutare alcuni concetti.
Per esempio, le priorità della mia vita.
Mi misi a tracciare un elenco, mentre Keith finalmente aveva convinto Dave a cambiare idea e stavano tornando verso le macchine.
Al primo posto, la band.
Al secondo, mio fratello.
Al terzo, tutto il resto.
E Frank rientrava in 'tutto il resto', il che era da interpretarsi come segnale inquietante, sicuramente influenzato dalle circostanze, ma da qualche parte doveva pur essere uscito.
Insomma, ero già sull'orlo della rottura, con lui, ma non riuscivo a farmene una ragione. Non ci riuscivo per un motivo ben preciso: litigavamo sempre, è vero, ma dentro di me avevo la consapevolezza che il discuterci sempre volesse dire che continuavo a tenere a lui, a considerarlo importante, in un certo senso.
Ma dovevo fare una scelta.
Non so ancora se sia stata giusta. Ogni giorno che passa mi sento come se avessi fatto la cazzata più grande della mia vita, ma non credo di essere ancora pronta per tornare indietro. E il fatto che non ci vediamo, nè ci sentiamo, da un anno e passa, è un fattore che peggiora ulteriormente la situazione.

Ogni giorno, da quando siamo in tour, al tramonto, mi allontano dal bus per fare una passeggiata, completamente solo.
Io, una Coca-cola, e le sigarette. Ammetto solo la loro compagnia, perché questo momento della giornata è speciale.
Mi ricorda una persona.
In una canzone dei Leathermouth urlo che i tramonti sono per i rapinatori, gli aggressori. Sunsets are for muggers. Ma ormai lei l'aveva interpretata in un altro senso, a tratti intriso di una comicità disperata e grottesca, ed era difficile toglierglielo dalla testa.
Lei aveva capito che i tramonti fossero per i mug. Gli sciocchi.
O per le tazze, come diceva sempre. Mi prendeva in giro con questo gioco di parole, e mi diceva che allora ero una tazza da té. L'ho sempre trovato un modo carino di darmi dello stupido, da parte sua, ma mi piaceva, perché adesso mi sento di darle ragione.
Io sono uno scemo, dunque. E non certo perché conservo questo piccolo rito dei tramonti.
Sono scemo perché non ho più il coraggio di prendere e fare una pazzia per lei, solo per lei, fregandomene se possa servire a qualcosa o no.
Sono scemo perché me ne sto qui, su questo spiazzo, davanti a questo palazzetto di Atlanta, aspettando di suonare e guardando un tramonto, la cosa più effimera di questo mondo. Perché non ce n'è uno uguale a un altro, eppure mi ostino ad accomunarli tutti allo stesso ricordo.
Sono scemo perché lei è qui, gli Unnamed sono in tour con i My Chemical Romance, e altre band, e ancora non ci siamo avvicinati. Ci siamo evitati, finora, come la peste, per paura di qualcosa.
Paura di capire che forse le cose si possono sistemare, con pazienza e perseveranza.
Sono scemo, soprattutto, perché è a una decina di metri da me, di spalle, che fuma, e guarda il tramonto.
Come me.

Allora è vero, sono una tazza.
Ho ripreso l'abitudine di starmene a guardare il sole che si congeda dall'emisfero in cui vivo. Abitudine da scemi, secondo lui, e io che lo smontavo sempre, dicendogli che è più carino pensare che 'mug', lì, nel titolo di quel pezzo dei Leathermouth che avevo storpiato volutamente, stia per 'tazza', e non 'sciocco'.
Rideva sempre, quando glielo ricordavo.
Tazza era la nostra parola in codice, per dire che eravamo due inguaribili imbecilli, e direi che sull'"inguaribili" avevamo pienamente ragione. Anche per quanto riguarda la parte degli imbecilli, in effetti.
Ho appena suonato, e sono felice. Perché Dave sta bene, adesso. Inciucia con la batterista di un gruppo in tour con noi, e lei è veramente carina, una a posto. Sono felice anche perché mi piace suonare a giro, mi piace pensare alla musica, e solo a quella. E mi piace pensare che ci sia anche lui, con i suoi Chem, in tour.
Sono una tazza, decisamente.
Perché non sono sola in questo spiazzo davanti a questo palazzetto. Non sono l'unica che sta fumando una sigaretta dietro l'altra, sorseggiando una Coca-cola.
Due delle azioni più deleterie che si possano compiere. Se potesse parlare, il mio fisico mi manderebbe a cagare senza tanti complimenti.
Mi giro, e alle mie spalle c'è qualcuno che sta compiendo le mie stesse azioni, inavvertitamente. Subito penso che anche il suo fisico dovrebbe inveirgli contro, ma stranamente è molto resistente, molto più del mio, che pure ne ha passate di tutti i colori.
Come faccio a saperlo, dite?
Lo conosco sin troppo bene, quel corpo.
Aveva ragione. Siamo più simili di quanto pensassi.
Non riesco ad essere fredda. Sento gli occhi annaspare in un mare di lacrime, ma non voglio versarne nemmeno una.
Il motivo è semplice e disarmante: non sono triste, o dispiaciuta, di vederti, quindi perché dovrei piangere?
Io non piango, quando sono felice.
E allora ti sorrido, con sincerità. Perché, lo voglio ammettere, gridarlo al mondo, dandomi dell'irriducibile tazza ancora una volta, mi sei mancato più dell'aria che si fa strada nei miei polmoni, tra un'autostrada e l'altra, di quelle che ho spianato nei bronchi a forza di fumare quelle Marlboro rosse che ti sembrano così pesanti. Ormai per me sono come una boccata di ossigeno.
C'è tempo per le scuse, e anche per fugaci sguardi, o per le occasioni che abbiamo perso dietro a inutili cavilli.
In fondo, il tour è appena iniziato.
C'è tempo.

Sorride. E getta la cicca a terra, schiacciandola con il piede.
L'odore inconfondibile delle sue Marlboro arriva fino alle mie narici, si insinua nei miei condotti respiratori, insieme al fumo della Camel light che stringo tra le dita. Immagino che per lei fumarne una sia come respirare una ventata d'aria fresca.
Il suo sorriso è la conferma ai miei dubbi, ma non la risposta definitiva.
Per ora mi basta.
Mi basta sapere che non mi odi, che sei sempre quella che ho conosciuto quattro o cinque anni fa, quella che aveva problemi con la sua cantante, e che vagava su un prato del New Jersey con una macchina fotografica in una mano e una lattina di birra nell'altra, cercando di non pensare, di percorrere una via possibile per addormentare il dolore, perché era quello che provavi, nel tuo petto, quello che ti provocava quella tipa, di cui nemmeno mi ricordo il nome.
Sei quella che tre anni dopo mi tatuò una promessa che ormai non sento nemmeno più mia, quella che ritrovai un anno dopo in tour, quella che ho amato incondizionatamente, nel bene e nel male, sin dal primo momento in cui l'ho vista, con quell'aria così fragile, eppure dotata di una forza decisamente non comune, capace di ricostruire dal nulla le macerie della sua vita sregolata. Forse è per questo, perché pensavo a te come a una creatura invulnerabile, che non ti ho mai fatto sconti, quando cadevi. Avrei dovuto solo aiutarti a rialzarti, senza dire una parola.
Ed è salutandoti, alzando timidamente la mano, che mi rendo conto che forse non è cambiato nulla, che la speranza stavolta non solo non è morta, ma gode di ottima salute, che riesco a stare in equilibrio sopra le rovine di un meraviglioso impero.
E che questo impero è fatto di noi, in ogni mattone, in ogni colata di cemento, finestra, porta, cancello, in ogni respiro, muscolo, articolazione, centimetro di pelle, la nostra pelle, la mia, e la tua, fuse come una cosa sola, e in ogni sigaretta fumata insieme, ogni film guardato sul divano, ogni disco ascoltato sdraiati sul letto dopo una notte passata a fare l'amore, e di ogni alba che ha illuminato i nostri visi distesi nel sonno, ogni goccia di pioggia che ha lavato via le magagne che inevitabilmente abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, anche nella solitudine.
Tutto è perfetto, nella sua infinita imperfezione.

The End(?)
  
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