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Autore: CarolPenny    06/05/2013    6 recensioni
[Capitolo 7- Mycroft.]: “Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio. Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MYCROFT

 
“Il livello di protezione sulla signorina Hooper deve essere cambiato, signore?”
Mi girai verso Anthea, in piedi proprio alla mia sinistra.
“No” risposi con calma “Il trasferimento di mio fratello non le garantisce sicurezza, anzi, il contrario, quindi lasci tutto invariato.”
Lei annuì.
“Questo vale anche per tutti gli altri?”
“Assolutamente.”
Anthea annuì di nuovo e digitò qualcosa sul suo cellulare.
“È tutto per oggi, signore?”
“Sì, cara. Metta a posto i documenti e poi può andare.”
La ragazza si girò, facendo svolazzare dolcemente i suoi capelli castani, e si diresse verso la mia scrivania, dove cominciò a mettere in ordine.
Rivolsi nuovamente lo sguardo verso il finestrone che avevo di fronte, anche se si era ormai fatto buio e non si riusciva più a scorgere la vegetazione del giardino.
Ero seduto sulla poltrona del salotto, e avrei potuto affermare che non ci fosse nulla di più bello. La stanza era calda al punto giusto. Una sola luce, quella della lampada sulla scrivania, lasciava tutto nella semioscurità e rendeva l'ambiente più intimo e sereno.
Amavo la tranquillità.
Qualcuno avrebbe potuto dire che la mia appartenenza al Diogenes Club dipendesse solo da quello, dal diritto di avere unasala in cui regnava il silenzio più assoluto.
Naturalmente, non era il solo motivo.
Insieme alla tranquillità, amavo anche la solitudine.
Non avevo mai sentito il bisogno di avere qualcuno al mio fianco, tanto che le poche persone degne della mia fiducia erano state segnate prontamente sulla mia agenda.
La mia agenda mentale.
Mia madre era la prima della lista. Aveva ormai superato i settant'anni e l'età poteva averla colpita nel fisico, ma sicuramente non nello spirito. L'amore per la famiglia era sicuramente il suo miglior pregio, la cosa più importante che mi avesse mai insegnato e che continuava ancora ad insegnare.
C'erano poi i miei più stretti collaboratori: il mio autista Roger, macchina sempre pronta, conoscenza precisa di ogni singola strada di Londra e discrezione assoluta.
Anthea, che era stata assunta a diciannove anni grazie ad una raccomandazione e che si era poi rivelata all'altezza dei compiti assegnati e quindi degna di stima. E infine c'era Ronald, il genio informatico dietro la rete di telecamere di tutta la città.
Molte altre persone, invece, si erano rivelate decisamente più interessanti solo negli ultimi anni.
La signora Hudson, per esempio, era una donna stravagante, ma dopotutto anche molto buona e coraggiosa. Sherlock amava ricordare agli altri il ruolo che aveva avuto durante il processo contro il marito della donna, ma io avrei potuto senza indugio parlare di ciò che avevo fatto per lei. Forse mio fratello non l’avrebbe neanche conosciuta,se non fosse stato per il mio intervento.
La signorina Molly Hooper, invece, era una di quelle persone di cui, a prima vista, non ti saresti mai fidato, a causa del suo carattere insicuro e riservato. Aveva, il più delle volte, un senso dell’umorismo un po’ macabro, probabilmente perché lavorava in un obitorio, ma era anche piena di buona volontà,e svolgeva i suoi compiti con grande diligenza e professionalità. Sherlock si era fidato di lei e le aveva affidato un incarico davvero impegnativo, dal quale non si era tirata indietro, dimostrando una grande forza d’animo. Forse il suo unico difetto era quello di fidarsi troppo di lui,  di credere a tutto quello che le aveva sempre detto. Conoscevo senza dubbio il motivo per cui lei era così affezionata a Sherlock, ma le questioni di cuore non mi avevano mai interessato, in modo particolare se riguardavano mio fratello.
Entrato a far parte della mia lista in tempi più recenti, come Molly Hooper, c’era poi l’ispettore Gregory Lestrade. Il nostro primo incontro era avvenuto a causa di uno spiacevole avvenimento che aveva coinvolto il governo, un omicidio spietato contro una delle personalità più vicine al primo ministro inglese. Non avrei mai immaginato che, dopo l’involontario coinvolgimento di Sherlock in quella storia, l’ispettore avrebbe seguito il mio consiglio e avesse poi accettato di fidarsi di lui. Per di più, anno dopo anno gli aveva permesso di partecipare a molti dei casi affidati a Scotland Yard, come se gli agenti all’interno del servizio di polizia londinese non fossero sufficientemente competenti e come se Sherlock fosse il miglior investigatore del paese. Probabilmente, entrambe le ipotesi erano vere, ma tutto ciò mi aveva comunque stupito.
Il silenzio con cui aveva difeso mio fratello durante gli ultimi anni, vista la sua posizione, e le azioni da lui compiute nell’ultimo mese erano state davvero notevoli. Non avevo mai conosciuto uomo più onesto.
Mi stiracchiai, togliendomi le scarpe e allungando le gambe. Il mio corpo affondò un po’ di più nella poltrona. Era una posizione davvero molto comoda. Mi girai di sfuggita, notando alcuni fascicoli che Anthea stava mettendo via.
“Quelli li lasci sulla scrivania” dissi.
Lei annuì leggermente.
Prima di addormentarmi avrei dovuto terminare la lettura dei fascicoli che l’ispettore Lestrade mi aveva procurato. Non avevo trovato nulla di interessante, a parte fantasiose teorie su come Sherlock avesse architettato i falsi casi affidati a Scotland Yard, poi risolti da lui stesso. Il materiale rimanenteavrebbe potuto fare sicuramente concorrenza alle riviste scandalistiche. Certe affermazioni erano parecchio esilaranti.
Ero fermo al fascicolo dedicato interamente a John Watson.
Il medico, il soldato. Ovviamente, avevo inserito anche lui nella mia agenda mentale.
Tra quelle poche persone, lui era di gran lunga la più interessante. Sherlock sembrava tenere particolarmente a John, ma non ero ancora riuscito a capire il motivo di tale interessamento.
John Watson era un uomo che, in apparenza, amava la tranquillità, e che invece era di certo molto più felice di entrare in azione, di muoversi, di essere d’aiuto. Vivere con uno schizofrenico come mio fratello di certo gli aveva giovato, su questo non avevo dubbi. Cosa aveva invece lui, oltre alle competenze in campo medico, da poter offrire a Sherlock?
Anthea si fece di nuovo di fianco a me e mi augurò la buona notte. Io ricambiai sorridendo e chiusi gli occhi. Ascoltai il suono dei suoi passi allontanarsi sempre di più, poi il rumore della porta che si apriva.
“Signore!”
Mi voltai di scatto, allarmato.
Ronald era sull’uscio, ansimante, Anthea lo stava guardando con preoccupazione.
“Cosa succede?” gli domandai, maledicendo mentalmente quell’interruzione e chiunque l’avesse provocata.
Immaginavo già chi, tra l’altro.
“Si tratta di suo fratello!”
Appunto.
“Non è diretto a Baker Street. Sta andando verso Dereham Place”
Feci un bel respiro e cercai di mantenere la calma.
“Anthea, cara, può per favore controllare chi dei nostri agenti è in quella zona e avvertirli?”
“Certo, signore” mi rispose la ragazza, prendendo il suo cellulare e cominciando a digitare sulla tastiera.
Io indossai di nuovo le scarpe, mi alzai e mi unii a loro.
Raggiunta la ‘sala delle telecamere’, mandai un messaggio all’ispettore Lestrade dicendogli di stare allerta.
“Guardi… sta per imboccare French Place”
Ronald mi indico lo schermo in altro a destra.
Perché stai andando lì, Sherlock?” mi ritrovai a pensare “Proprio nella tana del lupo…
“Anthea, chiami Roger.”
“L’ho già fatto, signore. È fuori, al cancello.”
Ottimo. L’efficienza dei miei collaboratori era davvero inimitabile.
“Signore” Ronald parlò di nuovo “Ha appena imboccatoDereham Place, le nostre telecamere non…”
“Ne sono perfettamente al corrente, hai fatto bene ad avvertirmi”
Lui annuì e si scambiò uno sguardo veloce con Anthea, la quale tornò subito a dedicarsi al suo cellulare.
“Mi tenga informato in ogni momento. Qualunque cosa succeda, qualunque cosa veda tra Dereham Place e il Jim’s”
Annuì di nuovo.
Un tempo, mandare sms a mio fratello era molto più semplice. Se non rispondeva, c’era sempre il dottor Watson a farlo per lui. In quel momento, mi avrebbe sicuramente ignorato.
Più di quanto non facesse di solito.
In realtà, anche Sherlock era nella lista delle persone presenti nella mia agenda mentale, ma il più delle volte era davvero difficile fidarsi di lui, o ascoltarlo.
Ma era mio fratello, e questo mi bastava.
Forse era un’idea un po’ troppo sentimentale, ma proprio per questo,la tenevo per me e me soltanto.
Probabilmente anche io ero stato colpito da qualcosa che non volevo ammettere. Un insieme di sensazioni comuni a tante altre persone quando venivano in contatto con Sherlock.
Rabbia, nervosismo, invidia, come una sorta di istigazione alla violenza. Contro di lui, ovviamente. E poi lo stato avanzato in cui si provava comprensione, pazienza, persino divertimento.
L’esatto opposto, in pratica.
Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio.  Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Il più delle volte una vera e propria ossessione, che non aveva risparmiato neanche lui, uno degli uomini più pericolosi che avessi mai conosciuto: James Moriarty.
“Questo è tutto quello che le serve per conoscere Sherlock. Il suo passato, i suoi casi, e i suoi rapporti sociali.” gli avevo detto durante il nostro ultimo incontro.
“Il suo lungo raccontino non è nulla in confronto a ciò che ho in serbo per lui”
Mi aveva risposto sorridendo maliziosamente.
“Non ne dubito” gli avevo confidato, con calma “Io le ho dato Sherlock, ma non sono sicuro che accetterà queste condizioni. Potrebbe sorprenderla.”
“Lo spero!” aveva esclamato ridendo.
Lo avevo guardato a lungo e per l’ultima volta.
“Buona fortuna”
 
 

*

 
Quella era stata senza dubbio una delle estati più calde mai avute in Inghilterra, per cui i miei genitori avevano deciso di trasferirsi nella nostra residenza in campagna, Silent Garden, che si trovava nei pressi di una piccola cittadina di nome Hever, a sud del Paese.
Mio padre aveva comprato quella villa subito dopo il matrimonio con mia madre e l’avevano sempre utilizzata, appunto, in estate.
Era un elegante edificio in pietra, con un piano superiore ed uno inferiore. Quest’ultimo includeva l’ala ovest, completamente dedicata ai domestici, in cui c’erano le loro camere, un bagno e una grande cucina. Nell’ala est, invece, c’erano la nostra sala da pranzo e un salotto, che affacciava sul giardino. Al primo piano  c’erano tutte le nostre stanze da letto (io e mio fratello ne avevamo una a testa, con il bagno al loro interno), e infine la stanza dei miei genitori e lo studio di mio padre.
Intorno alla villa c’era un enorme giardino, che si sarebbe potuto confondere con la campagna circostante, se non fosse stato per il recinto e le staccionate. Il verde si estendeva per chilometri. La pianura era interrotta per un tratto molto breve da un boschetto molto fitto. Al di là di esso c’era un’altra abitazione, la casa della famiglia Andrews, e a pochi chilometri verso est la residenza dei Rivers, che recentemente era diventata Edenbridge, cognome originario della signora Rivers, ripreso dopo il divorzio.
Era davvero fresco lì, l’aria era pura e l’ombra degli alberi era decisamente utile nelle ore in cui il sole era più forte.
Il giorno del mio dodicesimo compleanno ci eravamo spostati verso il centro abitato e avevamo festeggiato insieme a tutte le famiglie, come se si fosse trattato di una festa di paese. Purtroppo, però, i festeggiamenti non erano durati a lungo. Quella stessa sera, un terribile avvenimento ci aveva colpiti tutti: la scomparsa della piccola Jenna Andrews, la figlia minore di Juliet e Mark Andrews, di soli due anni.
Quella calda estate si era raffreddata, così come i rapporti tra chi viveva lì.
Così, avevamo passato le ultime due settimane di Agosto nell’isolamento più totale. E Silent Garden era, tra le residenze, la più isolata di tutti, infatti.
La sera precedente al nostro ritorno a Londra, Julia, la nostra cuoca, aveva preparato una cena davvero squisita: da una parte, pollo arrosto con purè di patate e piselli, dall’altra, anatra all’arancia con contorno di pistacchi e mandorle. I due piatti preferiti dei miei genitori.
Mio padre si era seduto a tavola e aveva guardato mia madre con aria grave.
“Che cosa ha detto Mark Andrews?” aveva chiesto proprio lei.
“Nessuna novità” mio padre aveva sospirato “La villa è stata perlustrata tre volte. Idem per quanto riguarda le case di Hever.”
“Stanno cercando nel posto sbagliato.”
Sherlock si era intromesso, mischiando contemporaneamente e violentemente i piselli nel purè che aveva nel piatto.
“Sherlock” aveva detto mia madre “Prima di iniziare a mangiare avresti dovuto aspettare che avessimo tutti il piatto pieno.”
“Non sto mangiando, infatti” aveva subito risposto lui “Non mi piace questa roba. Il pollo sembra vecchio di due settimane…”
“Sherlock!” mia madre lo aveva ammonito con lo sguardo.
 Subito dopo, era caduto un silenzio imbarazzante in cui entrambi i miei genitori avevano guardato Julia, in fondo alla stanza, accanto alla porta, come a volersi scusare.
 “Gli agenti di polizia verranno di nuovo qui?” avevo domandato improvvisamente.
 “Non credo proprio.” rispose mio padre “Ma se ce ne sarà bisogno, Silent Garden sarà a disposizione. Noi ce ne andremo domani.”
A quel punto, avevamo iniziato a riempire i piatti e a mangiare.
“A proposito.” proseguì mio padre “Poiché la settimana prossima entrambi inizierete un nuovo anno scolastico, io e vostra madre abbiamo preso una decisione, ed è giusto che ne veniate a conoscenza.”
Aveva addentato un pezzo di anatra, così era stata la mamma a continuare.
“Naturalmente, siamo molto orgogliosi dei risultati che quest’anno hai ottenuto, Mycroft.”
Io avevo sorriso, compiaciuto, e avevo messo in bocca un pezzo di pollo.
“Non si può dire lo stesso di te, Sherlock” era stato di nuovo mio padre a parlare, pulendosi le labbra con un tovagliolo.
Mio fratello aveva continuato a giocare con piselli e purè.
“Quando parlo con te, signorino, esigo che tu mi guardi in faccia!”
Quell’esclamazione severa lo fece smettere quasi subito di giocare con il cibo e lo fece girare verso di lui. I loro sguardi di ghiaccio, così uguali, si scrutarono a lungo.
Mia madre aveva allungato un braccio e aveva stretto la mano che mio padre aveva sul tavolo, parlando al suo posto.
“Cosa c’è che non va, Sherlock?” il suo tono era molto dolce e comprensivo.
Mio fratello l’aveva guardata subito.
“Odio la scuola. Odio i miei compagni e le insegnanti. Vogliono che si faccia solo quello che dicono loro.”
A quel punto, mi ero intromesso, di nuovo. Era stato più forte di me.
“È quello che fanno, è il loro lavoro. Sono ‘insegnanti’, quindi ‘insegnano’.”
Sherlock mi aveva fulminato con lo sguardo. Io lo avevo guardato a mia volta, notando tra i suoi folti ricci neri qualche filo d’erba.
“Non è questo il vero problema.” aveva continuato mio padre “Hai rubato quelle rane dal laboratorio di chimica delle classi superiori! Per non parlare dell’anno scorso, quando hai quasi incendiato la mensa!”
Mia madre strinse di nuovo la mano di mio padre per farlo calmare. Lui era nervoso, ma almeno non stava urlando.
“Non mi interessano i tuoi capricci. Sei un Holmes e devi comportanti come tale! Non ti permetterò di infangare il nome della nostra famiglia.”
Allora ero ancora troppo giovane per capire che forse mio padre stava esagerando.
Era un uomo molto legato alle antiche tradizioni e dava molta importanza al prestigio che il nome della nostra famiglia ancora aveva. Ma sapevo che c’era anche un’altra questione dietro quella rabbia. Lui aveva già programmato la nostra vita, i nostri studi, il nostro futuro lavoro. Lo avevo sentito parlare con la mamma più di una volta ed ero già a conoscenza dell’università che avrei dovuto frequentare, e anche i nomi dei colleghi a cui intendeva raccomandare me e mio fratello.
 Non avere più tutto sotto controllo lo mandava in crisi, ed era il motivo principale per cui il più delle volte era così arrabbiato, soprattutto con Sherlock, che sembrava avere una notevole predilezione per i guai.
“Pertanto” aveva continuato “Io e vostra madre abbiamo deciso di trasferirvi entrambi in una scuola privata.”
In un primo momento avevo pensato di non aver sentito bene.
“Ti trasferirai anche tu, Mycroft. In questo modo, potrai tenere sotto controllo tuo fratello.”
Io avevo guardato prima Sherlock, che ancora continuava a mischiare purè e piselli e poi i miei genitori, con sconvolgimento.
“Ma… perché?” avevo risposto “Non mi sembra giusto! Ho un buon rapporto con gli insegnanti e uno discreto con i miei compagni di classe. Per di più, ho buone possibilità di diventare il rappresentante degli studenti l’anno prossimo. Perché dovrei pagare per ciò che ha fatto Sherlock?”
“Proprio perché possiedi disciplina e autocontrollo. Sono sicuro che riuscirai ad ottenere gli stessi risultati anche in un’altra scuola, e nel frattempo, cercherai anche di dare un aiuto a tuo fratello.”
Avevo scosso la testa con disappunto.
“Non sono d’accordo! Non voglio che i miei compagni pensino che io abbia un fratello matto, con l’ossessione per navi, pirati e…”
Ma a quel punto qualcosa di freddo e appiccicoso mi era arrivato dritto in faccia e mi aveva costretto a chiudere occhi e bocca.
“Tu sei il fratello peggiore del mondo!”
Aveva urlato Sherlock, lanciandomi un’altra manciata di pollo e purè.
Mio padre si era alzato immediatamente e lo aveva afferrato.
“Questo è troppo!” aveva esclamato, strattonando Sherlock in modo che si alzasse.
“Adesso andrai subito nella tua stanza, e lì rimarrai fino a domani mattina!”
Io avevo preso un tovagliolo e mi ero pulito la faccia.
Papà e Sherlock erano andati fuori e avevo sentito indistintamente il suono di uno schiaffo e il pianto di mio fratello. Mia madre si era alzata, ma non li aveva raggiunti. Si era invece avvicinata a me e mi aveva aiutato  a pulirmi.
“Non è giusto, mamma! Hai visto cosa ha fatto?”
“Lo so, tesoro…”
Mi aveva dolcemente passato il tovagliolo attorno all’occhio sinistro.
“Vostro padre è molto orgoglioso di te e vorrebbe che tuo fratello ti somigliasse…”
“Ma Sherlock è…”
“Fammi finire” mi aveva interrotto lei, ma con gentilezza, pulendomi anche il colletto della maglietta.
“Naturalmente, Sherlock non è come te. È più esuberante e pieno di energie. Dopotutto, ha ancora sette anni.”
“Io non ero così.”
“Lo so.” aveva fatto una pausa e aveva sospirato, assumendo un’aria più severa.
“Sono molto preoccupata per Sherlock. E lo è anche vostro padre, credimi. Si è molto arrabbiato quando, dopo i recenti avvenimenti, gli ho chiesto di parlare con uno psichiatra.”
Ero rimasto scosso da quelle parole, ma non ero molto sorpreso.
“‘Un Holmes dallo psichiatra? Assolutamente no!’  Ha risposto tuo padre. Lo conosci. Ma conosci anche tuo fratello…”
Eccome se lo conoscevo. Quando faceva tutti quei discorsi sulle ferite, sulle cause di morte di un qualche conoscente e addirittura quello che aveva detto sulla questione della scomparsa della povera Jenna Andrews… perché un bambino doveva essere interessato a cose così tanto orribili?
“Te lo sto dicendo perché sei un ragazzo molto intelligente e anche molto maturo per la tua età.”
Avevo fatto un mezzo sorriso. Sentivo la mia faccia ancora sporca e appiccicaticcia.
“Quindi, devo chiederti una cosa molto importante, tesoro.”
Io e mia madre ci eravamo guardati negli occhi attentamente.
“Sii paziente e veglia su Sherlock.”
Io avevo iniziato a tenere il broncio, e lei lo aveva notato.
“Devo ritirare tutto ciò che ho detto poco fa?” mi aveva chiesto, ma,come al solito, sorrideva ed era tranquilla. Mi aveva poi stretto un braccio.
“ Aiutalo, Mycroft. Aiutalo fino a quando ne avrà bisogno” aveva fatto una brevissima pausa “So che puoi farlo.”
Mi aveva dato un bacio sul capo e poi mi aveva consigliato di finire di mangiare in fretta e di andare a fare un bagno.
“Prima di andare a letto, vai in camera di Sherlock e vedi come sta. Credo che sia il caso che facciate pace.”
Avevo annuito e lei mi aveva dato di nuovo un bacio, questa volta sulla guancia.
 
Fare un bagno caldo era stato molto rilassante, e mi ero trattenuto dentro la vasca per un po’.
Soprattutto, mi ero messo a pensare a ciò che era accaduto poco prima.
Non ero affatto d’accordo con i miei genitori riguardo la decisione presa di trasferirci entrambi in una nuova scuola. Più che altro, non ero d’accordo di dover dipendere da Sherlock.
Io ero il fratello maggiore.
Appunto. Era proprio quello che mia madre mi aveva fatto capire tra le righe. Da fratello maggiore mi sarei dovuto occupare di lui e avrei dovuto offrirgli appoggio e aiuto.
Sempre.
Fino a qualche anno prima, ero stato abituato a passare molto tempo con Sherlock. Giocavo volentieri con lui, e condividevo i miei giocattoli. Di solito, anzi molto spesso, mi chiedeva di interpretare il capitano della marina militare britannica, mentre lui era l’invincibile ‘pirata solitario’. Passavamo pomeriggi interi a combattere con spade di cartone o di legno e la sera non voleva mai andare a dormire se una delle nostre avventure non era finita.
Ma poi, gli impegni scolastici erano diventati più importanti e avevo deciso di dare priorità allo studio. Avevo preso l’abitudine di chiudermi nella mia stanza, studiare e fare ricerche, e anche lui, in un certo senso, sembrava aver fatto lo stesso. Non aveva abbandonato i suoi sogni da pirata, ma avevo sentito una delle nostre domestiche dire a mia madre di aver trovato strani liquidi e pezzi di costanze non identificate sulla sua scrivania, a terra e anche sotto il letto. Sherlock aveva detto che erano esperimenti fatti con gli strumenti del gioco ‘il piccolo chimico’. In pochi mesi, mio padre glielo aveva sequestrato.
Forse era stata colpa mia? Forse lo avevo portato io all’isolamento?
Mi ero messo il pigiama e avevo guardato l’ora. Le 23:25.
Ero rimasto parecchi minuti seduto sul letto, indeciso se andare a parlare con Sherlock. Il tono gentile e il bacio che la mamma mi aveva dato furono i motivi che mi spinsero a uscire e a raggiungere la camera di mio fratello. Avevo preso la chiave appesa a un chiodo al muro (poiché era stato chiuso dentro) e l’avevo inserita nella serratura.
Avevo poi aperto la porta, lentamente, ed ero entrato. La stanza era al buio, a parte per una striscia di luce lunare proveniente dalla finestra che illuminava il pavimento e un po’ della scrivania accanto al suo letto.
“Sherlock?” avevo sussurrato.
Non mi aveva risposto, così lo avevo chiamato di nuovo.
Ero arrivato alla conclusione che, vista l’ora, si fosse già addormentato, poi, qualcosa aveva attirato la mia attenzione.
La finestra della stanza era socchiusa e c’era qualcosa di bianco sospeso tra il letto e le ante. Riuscivo a vederla poco a causa della luce scarsa. Mi ero inoltrato di più all’interno della stanza per cercare di riconoscere la figura di mio fratello tra le lenzuola, ma invano.
“Sherlock?”
Arrivando accanto alla finestra, avevo visto qualcosa di sconcertante.
C’era una corda molto spessa e bianca, che subito dopo avevo capito essere il lenzuolo, che legato al letto si allungava fino a fuori e arrivava fin giù al giardino.
“Sherlock?!”
Avevo velocemente chiuso la porta e acceso la luce. Non avevo mai provato così tanto panico in vita mia.
Mio fratello non era nel suo letto.
“Sherlock? Se ti sei nascosto, sappi che non è un gioco divertente!” avevo esclamato, a voce bassa.
Non era proprio il caso di far alzare mio padre e di fargli prendere un’altra arrabbiatura.
Avevo iniziato a cercare Sherlock per tutta la stanza, cercando di fare in silenzio. Avevo aperto armadi, controllato sotto il letto, persino in bagno, ma era stata solo una perdita di tempo. Conoscevo già la risposta, ma ero assolutamente terrorizzato all’idea di ammetterlo.
Ero tornato accanto alla finestra, cominciando a pensare a una soluzione, guardando di sfuggita le due spade di cartone ancora legate sui pomelli di ferro ai piedi del letto.
Il mio primo pensiero fu quello di tornarmene in camera e di andare a dormire, ma qualcosa di estremamente doloroso, proprio allo stomaco, mi aveva suggerito di non farlo.
Perché in realtà non avevo mai ignorato mio fratello del tutto. Anche se non giocavo più con lui, sapevo quali fossero le sue preferenze, sapevo cosa faceva durante la giornata.
E facevo solo finta di ignorarlo, per poter poi scuotere la testa con disappunto e superiorità quando i miei genitori lo rimproveravano.
In quel momento però, una strana preoccupazione si era impossessata di me, e quindi avevo deciso di rischiare. Sapevo esattamente  dove fosse andato, e probabilmente, sapevo anche il perché.
Mi ero velocemente messo una felpa sopra il pigiama e le prime scarpe che avevo trovato ed ero rientrato nella sua stanza.
Avrei dovuto obbligatoriamente percorrere la sua stessa strada. Non avrei potuto attraversare la casa e aprire la porta principale senza essere scoperto. Sarei dovuto scendere anch’io appeso a quella corda.
Avevo spalancato la finestra e mi ero arrampicato. Avevo stretto le mani attorno al lenzuolo e contato fino a tre prima di saltare. Le mani avevano sfregato violentemente contro il tessuto e avevo sentito un forte bruciore. A fatica, avevo cercato di non urlare.
Dopo diversi secondi, mi ero finalmente reso conto di essere sospeso a tre metri e mezzo dall’asfalto e mi ero fatto coraggio. Non avevo mai particolarmente amato giochi di quel genere, anzi, avevo di gran lunga sempre preferito i libri, i giochi da tavolo, ascoltare la musica seduti sul divano. Insomma, cose ‘tranquille’.
Avevo iniziato a respirare affannosamente, cercando comunque di non fare rumore e finalmente avevo aperto la mano destra e l’avevo spostata più giù.
Non so quanto tempo, in totale, ci avevo messo per fare quella discesa ma, per me, doveva essere passata più di mezz’ora.
Ero caduto in ginocchio sull’erba del giardino e avevo cercato di alleviare il dolore alle mani soffiando sui palmi.
Mi ero subito guardato intorno. Le luci di Silent Garden erano tutte completamente spente e regnava il silenzio più assoluto.  L’aria era fresca e la luna molto luminosa. Infatti, era l’unica fonte di luce, l’unico mezzo che quella sera mi aveva fatto da guida. Per fortuna, in ogni caso, non avevo mai avuto paura del buio.
Conoscevo le campagne di Hever e conoscevo la strada che portava alle altre abitazioni.  Ma il mio istinto mi aveva suggerito una sola di quelle, e lì avrei trovato sicuramente Sherlock: la casa degli Andrews.
Lo avevo visto fin troppo interessato alla questione della figlia scomparsa, e la cosa mi era sembrata  decisamente preoccupante, ma in quel momento, il mio unico pensiero era stato quello di trovarlo, a tutti i costi.
Avevo percorso la lunga strada in pianura, cercando di seguire i punti illuminati dalla luna e avevo raggiunto il piccolo boschetto che faceva da spartiacque tra la zona di Silent Garden e la dimora degli Andrews. Farsi strada tra gli alberi non era stato facile, e più di una volta ero stato costretto a fermarmi e a cercare la luce lunare per orientarmi, ed ero anche inciampato, graffiando gambe e ginocchia. Poi, finalmente, ero uscito da lì e la pianura era ricominciata.
Di giorno, probabilmente avrei potuto metterci metà del tempo impiegatoci quella notte, poco meno di un’ora, quindi doveva essere passato molto tempo dall’ultima volta che avevo visto l’orologio, in camera mia.
Quando avevo avvistato la villa degli Andrews avevo tirato un sospiro di sollievo, ma contemporaneamente era tornato quel senso di terrore provato quando non avevo trovato Sherlock nel suo letto.
Mi ero avvicinato furtivamente e avevo scavalcato, con non poca fatica, la recinzione di legno. Mi ero avvicinato sempre di più all’ingresso, cercando di guardare attentamente in ogni angolo del giardino, ma sempre con molta fatica a causa della poca luce.
“Sherlock?” lo avevo chiamato a voce molto bassa, anche se con quel silenzio, era suonato quasi come un urlo.
Mi era tornato il panico. Sherlock non c’era ed io avevo cominciato a dubitare dell’idea - oggettivamente assurda - di trovarlo lì.
Avevo fatto il giro dell’abitazione, ed ero arrivato sul retro. Mi ero guardato di nuovo in giro, anche se lì la luce della luna non arrivava, e quasi mi era preso un colpo, quando avevo visto qualcosa muoversi nell’erba. Inizialmente, avevo pensato a un animale. Un gatto, o forse un porcospino - nella zona ce n’erano molti - ma poi avevo sentito dei lamenti leggeri ed era comparso un cerchio luminoso che mi aveva colpito.
Mi ero subito coperto gli occhi con una mano.
“Mycroft!”
Quella era la voce di Sherlock.
Avevo sospirato sollevato e mi ero avvicinato.
“Sherlock, cosa diamine stai facendo qui?”
Lui aveva puntato la luce, che apparteneva a una torcia, verso una buca proprio ai suoi piedi.
“È qui, Mycroft!” aveva esclamato.
“Di cosa stai parlando? E abbassa la voce.”
Lui aveva fatto un risolino.
“Jenna è qui.”
Lo avevo guardato,  sperando di aver capito male. Lui si era inginocchiato e aveva iniziato a scavare.
“Non essere stupido, Sherlock. Qui non si tratta di una delle tue storie. È una cosa seria.”
Lui aveva continuato a scavare e mi aveva buttato del terreno sulle scarpe.
Io mi ero inginocchiato a mia volta e avevo cercato di fermarlo.
“Jenna è scomparsa durante la festa…”
“È stata presa…”
“Rapita…” lo avevo corretto.
“Ho ragione, allora.”
Avevo sbuffato e gli avevo afferrato le braccia.
 “Sherlock, adesso smettila. Siamo in piena notte, ti rendi conto che tutto questo non è normale?”
“Lasciami andare, Mycroft!” non si era curato minimamente di abbassare la voce e mi aveva violentemente strattonato per farmi allontanare , ricominciando poi a scavare più forte, lanciandomi, questa volta di proposito, il terreno addosso e in faccia.
“Mamma e papà vogliono mandarti da uno psichiatra, e se verranno a sapere quello che hai fatto stanotte penso proprio che lo faranno…”
Ero stato quasi sul punto di dirglielo, ma avrebbe capito? Sherlock aveva solo sette anni, e quello era probabilmente tutto un gioco per lui.
L’unico che avrebbe potuto spifferare tutto, tra l’altro, ero io, e io soltanto. 
E non ero assolutamente convinto di volerlo fare.
Avevo lasciato che mio fratello scavasse ancora un altro po’, magari si sarebbe stancato e avrebbe capito che il tempo di giocare era finito.
“Mi dispiace, Sherlock. Tu sei malato…”avevo pensato, a malincuore.
“È qui…” aveva detto di nuovo lui, fermandosi. Riuscivo a vedere le sue braccia completamente inzuppate di fango ed erba attraverso la luce della torcia, che lui poi prese, puntando verso la buca.
Ero rimasto senza parole. Sconcertato, senza riuscire a credere a ciò che avevo davanti.
No, doveva trattarsi di un osso messo lì da un cane, o di una radice, non poteva davvero essere…
“È Jenna! Questa è la sua mano! Se scaviamo più a fondo…”
Avevo preso la torcia e avevo guardato più attentamente.
“Andiamo via.” erano state le mie parole. “Sherlock, andiamo via!”
Lo avevo preso con forza per un braccio e lo avevo fatto alzare.
Ero rimasto davvero sconvolto, e quasi sul punto di avere un attacco di panico.
“Lasciami! L’abbiamo trovata! Ho risolto il caso!” aveva urlato mio fratello.
Risolto il… caso?
Una luce si era improvvisamente accesa al piano terra della villa.
Tutto quello che avevo fatto in quegli attimi, la paura che avevo provato in quel momento, erano ricordi indelebili nella mia mente:
Avevo iniziato a riempire di nuovo la buca con il terreno, il più velocemente possibile, e mio fratello doveva aver fatto lo stesso, perché non aveva più parlato. Altre luci si erano accese. Non avevamo avuto più tempo per fare nient’altro, se non prendere uno dei vasi del giardino e metterlo lì dentro.
Avevo preso Sherlock per mano e avevamo iniziato a correre, sentendo voci dietro di noi, ma senza girarci. Ad un certo punto, la luce della torcia era diventata più debole, fino a spegnersi poi del tutto.
Avevo aiutato Sherlock a scavalcare la staccionata, ma proprio in quel momento, due figure ci avevano raggiunto.
Ero stato nuovamente colpito dalla luce di una torcia.
“Chi sei?” la voce di un uomo. Avevo subito riconosciuto il signor Andrews.
“Mark…” la voce di una donna, sicuramente la signora Andrews “Questo è Mycroft. Il figlio maggiore degli Holmes.”
Si erano avvicinati. Io non ero riuscito a muovermi. Mi ero reso conto che ormai fosse troppo tardi per scappare.
“Che cosa ci fai qui? È successo qualcosa?”
Non ero riuscito a trovare la forza di parlare.
“C’è Jenna in una buca del vostro giardino!”
Aveva urlato Sherlock arrampicandosi di nuovo sulla staccionata e facendosi vedere.
I signori Andrews lo avevano guardato con sconcerto e sorpresa.
Io non avevo fatto niente. Ero spaventato e confuso quanto loro.
 
I nostri genitori erano stati chiamati immediatamente. Gli Andrews ci avevano fatto entrare in casa e ci avevano offerto una tazza di the.
Spiegare loro cosa fosse successo era stata la parte più difficile, ma ero stato ben attento a non dire loro che in realtà era stato Sherlock a fare quella scoperta. Non volevo dare ad altri il sospetto che mio fratello avesse davvero qualcosa che non andava. E per fortuna, mi avevano preso in disparte e avevo potuto raccontare loro quella bugia.
Il momento più critico era stato senza dubbio quando era stato ritrovato il cadavere. Le prime luci dell’alba si stavano facendo spazio nel cielo e mi era stato chiesto di indicare il punto esatto in cui avevo visto ciò che avevo visto.
L’urlo e il pianto di Juliet Andrews erano stati strazianti. Lo stomaco aveva cominciato a girare.
Sherlock si era fatto spazio tra i poliziotti, per vedere meglio, ma mio padre lo aveva afferrato e fatto arretrare.
“Sei stato tu a trovarlo? Che cosa…”
“Sono stato io.”
Ero subito intervenuto.
Mio padre mi aveva guardato con sospetto e per un momento avevo anche avuto l’impressione che fosse estremamente deluso.
“Sono stato io a coinvolgere Sherlock. Era solo un gioco all’inizio… come una caccia al tesoro…”
Mi ero reso conto solo dopo della stupidità di tale scusa. Ma mio padre non aveva commentato, perché il piccolo corpicino di Jenna Andrews era stato recuperato e stava passando proprio accanto a noi.
Sherlock aveva iniziato a muoversi scompostamente sul posto.
“Io l’ho trovata! Io l’ho trovata!”
Mia madre lo aveva allontanato, anche se a fatica.
Io e mio padre eravamo rimasti a guardare il cadavere. Il vestito era strappato in più punti e la pelle bianchiccia era in moltissimi punti sporca di terra. I suoi occhi erano spalancati.
Sherlock aveva continuato a lamentarsi e la signora Andrews a piangere.
Io avevo deglutito, poi mi ero girato e mi ero vomitato sulle scarpe.
 
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Buon inizio settimana a tutte/i. Questa volta, il mio commento sarà un po’ più lungo perché ho bisogno di fare delle precisazioni:
Per prima cosa, voglio specificare che, naturalmente, tutti i nomi dei personaggi inventati e tutti gli avvenimenti che li coinvolgono, sono semplicemente frutto della mia immaginazione, quindi ogni riferimento a qualcosa di reale è puramente casuale, sia in questo capitolo, sia in quelli precedenti.
Per quanto riguarda i luoghi descritti che non sono Londra, e cioè Hever e Edenbridge, e quelli presenti nel flashback in Afghanistan del capitolo precedente, Kabul, Kandahar e Charikar, sono tutti esistenti e li ho trovati attraverso Google Maps e ho cercato di fare una descrizione basandomi sulle immagini. Invece, come penso abbiate intuito, non esistono le ville delle famiglie Holmes, Andrews e Rivers.
Infine, una piccola curiosità: originariamente, ho immaginato che i due fratelli Holmes riuscissero a scappare dall'abitazione degli Andrews, per poi essere scoperti appena tornati a Silent Garden. Ho pensato, poi, che fosse più credibile che andasse diversamente. Spero la pensiate così anche voi.
Spero che Thiliol legga il capitolo, visto che in un commento mi scrisse che le sarebbe piaciuto leggere il punto di vista di Mycroft, e spero di non averla delusa!
Al prossimo aggiornamento. Un grazie di cuore a tutti/e, come sempre.

   
 
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