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Autore: Oscar_    06/05/2013    2 recensioni
Uno scrittore inglese dalle discutibili abitudini, costretto ad ospitare il cugino scozzese, fa conoscenza d'un francese a cui manca tutto tranne la perseveranza nel tormentarlo; grazie a lui incontra un miliardario americano, che ha urgentemente bisogno d'un dottore tedesco di cui ha sentito parlare in un articolo di giornale. Come se non bastasse, ci si mettono anche il pettegolo fruttivendolo spagnolo e i due fratelli italiani sul suo stesso pianerottolo.
Riuscirà, il nostro eroe, a non dare di matto?
[Pairing ancora da definire; avvertimenti nel primo capitolo; linguaggio colorito; lasciate un commento!]
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Germania/Ludwig, Inghilterra/Arthur Kirkland, Un po' tutti
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Introduction:
Rain and habits;

 
 

 






Sfortunato colui che non udirà mai il canto d’un merlo misto allo scrosciare della pioggia e al rombo dei tuoni; sfortunato colui che, in mezzo alla tempesta, non avvertirà mai il soffuso e distante scampanellìo della chiesa, che, in tutta la sua autorità, persiste a non lasciarsi abbattere. Sfortunato colui che, fra gli umidi respiri dell’acquazzone, non sussulterà nel veder bussare alle proprie imposte i grandi e centenari alberi costretti in giardino dalle dure radici. Sfortunato colui che non sentirà mai allontanarsi le livide nuvole, coi loro immensi carichi d’acqua. Sfortunato colui che mai farà ritorno a casa durante la pioggia, che mai riscalderà i propri piedi sotto un plaid, ben sistemato dinanzi al camino, né rinvigorirà mai l’animo con un’aromatica tazza di tè bollente.
Sfortunato, insomma, colui che non vive in Inghilterra, la patria dell’umidità per eccellenza. Molti si chiedono perché ancora non siamo mai stati logorati da un clima simile, bagnato e inospitale, quasi una terra indegna d’esser abitata. La risposta è chiara, sotto gli occhi di tutti: l’Inghilterra è un territorio capriccioso e difficile, che ama farsi desiderare e conquistare. Mai nessuno, in nessun altro luogo, potrà descrivere esperienze affini a quelle vissute giornalmente dagli inglesi. C’è una piccola guerra nello sguardo di tutti. Una guerra che non si vede l’ora di concludere, proprio come il temporale.
Mi chiamo Arthur J. Kirkland, ventisei anni, di professione scrittore, nel tempo libero poeta ed acuto osservatore della mia amata nazione, che non cambierei mai con nessun’altra.
Abito al 19 di Rotherfield Street, adoro il tè al gelsomino col latte e quattro cucchiaini di zucchero e, la domenica, cucino sempre un pasto che porto in beneficienza; piace così tanto che mi hanno intimato di non portarglielo più!
La mia vita ha sempre seguito un corso monotono, quasi nessun evento l’ha mai sconvolta. A volte mi piace anche far schizzi di paesaggi ed uscire quando—
... Quel “quasi” vi stuzzica la coscienza, non è vero? Mi rendo conto che sarebbe avvincente narrare della mia vita come faccio nei miei libri:
“Si destò di buonora e, dopo aver emesso uno sbadiglio degno d'un maestoso leone, si diresse con coraggio ad affrontare la prima delle dure battaglie quotidiane: la colazion—”
... Forse, dopotutto, non verrebbe così bene.
Allora tanto vale prepararsi un tè caldo ed accomodarsi alla scrivania, pronto a ripercorrere con la memoria quelle scure giornate di Novembre, il periodo peggiore da passare a Londra...
 
 
 
 

 
Chapter 1
 
There’s no place like London!*
« What the hell does it mean “Sacrebleu”? »

 
 
 
 
 
Fare la spesa, o più precisamente, tentare di trovare il coraggio sufficiente per armarsi d’ombrello e impermeabile, sebbene già se ne conosca l’effettiva inutilità, è una delle azioni più divertenti da osservare — e non da compiere — a Londra. Vedere un inglese, magari ultra-raffreddato ma che vive da solo ed è spinto a uscire dalla fame, e godersi lo spettacolo di quei violenti e ripetuti starnuti è una delle abitudini di chiunque abiti in un condominio del centro.
Molti hanno la veglia facile, qui, piccolo particolare conservato dai tempi in cui il sonno era nient’altro che un privilegio, perciò si ode subito un inusuale scalpiccio nella tromba delle scale ed i classici colpi di tosse grassa, quella che infiamma il petto grazie al dannato catarro; God damn it!
Comunque, una volta sentita l’impavida presenza di un individuo, costretto dalle circostanze ad uscire, è il momento di appostarsi alla finestra ed osservare come scivoli e tenti inutilmente di non bagnarsi oltre. Di solito, dopo tali scampagnate, ci si ritrova bloccati al letto con una febbre che va dai 39° in poi. E si finisce sempre per chiamare il medico di fiducia, che nel quartiere è uno solo: Ludwig Beilschmidt, un tedesco dai modi militareschi ma il tocco angelico, in grado di tranquillizzare il più fobico di tutti i pazienti; che è un italiano trasferitosi da poco, assieme al fratello, sul mio stesso piano. Fanno rumore e gridano fin’oltre l’una di notte. Ovviamente sono il pettegolezzo principale del condominio.
Tornando al dottore: quell’uomo austero, che posso giurare, sarebbe anche capace d’entrare nella stanza d’un appestato, non teme il contagio di nessun germe e, non appena qualcuno richiede il suo intervento, è pronto ad accorrere in suo soccorso. Abita in un edificio più agiato e meglio costruito di quello in cui sosto io — che risale al 1920! —, ma non impiega che cinque minuti scarsi a giungere dal paziente, il tempo necessario perché egli si alzi dal proprio giaciglio e gli apra la porta con espressione di funebre gratitutine.
Le sue visite non durano che una ventina di minuti, compresa l’eventuale somministrazione di cure e/o raccomandazioni e parole di conforto. Per quanto possa esternare un’aria rigida, quando si accorge che qualcuno ha bisogno di essere rassicurato diviene amorevole e riguardevole, quel tanto grazie al quale si riesce a comprendere che qualcuno gli ha spezzato il cuore.
Tornando alla spesa: uno dei primi mattini di Novembre, durante il quale non ero ammalato o raffreddato, uscii a far compere e passai dinanzi al centro di beneficienza, optando per lasciargli qualche cosa delle cibarie acquistate. In effetti, quel giorno avevo leggermente accantonato la mia parsimonia.
Ad ogni modo, bussai sulla fredda porta di vetro smaltato e, dopo aver inutilmente atteso una risposta per qualche secondo, aprii, notando come la sala che di domenica pullulava di viandanti e sfollati, fosse invece quasi vuota, se non per la presenza della gentile inserviente ungherese di nome Elizabeth, che di solito prendeva in custodia i miei pasti, e due individui biondi dall’aria malandata, occupati a confabulare in un angolo.
La giovane Elizabeth, chiaramente impegnata in un’accesa discussione in lingua madre al telefono, mi fece un breve cenno di saluto e si spostò nella stanza adiacente per parlare, lasciandomi solo con quei singolari tizi: uno dei due era visibilmente più grande, con buffi ed umidi capelli biondi, lunghi sino alla nuca, un taglio che, dal canto mio, reputo femminile, ed una barba evidentemente incolta da almeno una settimana. Un vero barbone, insomma.
L’altro, un ragazzo dall’aria più sobria, aveva dei grandi occhi violetti, mascherati da un paio di vistosi occhiali ovali, e sembrava malaticcio. Mi domandai quanto scadente potesse essere la sanità in posti come quello — e in una città come Londra! — ed al solo pensiero rabbrividii.
Preso dallo stesso bizzarro slancio altruistico di poco prima, quando ero entrato nell’edificio, mi avvicinai con circospezione alla coppia, mostrando un lieve sorriso e facendo sfoggio di tutta la mia impeccabile educazione:
- Good morning, how do you feel? -
In tutta risposta, ricevetti nient’altro che un’occhiata sprezzante da parte del maggiore dei due, ed un’espressione sorpresa dall’altro. Il primo domandò qualcosa al secondo, che gli rispose sottovoce. Quindi, quest’ultimo si degnò di rispondermi, con forte accento canadese:
- Meglio di ieri, grazie. E lei? – Capii che, forse, il suo compagno conosceva solo il francese, magari anche lui canadese, ma appartenente all’altro ramo; dunque, indicandolo, risposi:
- Bene, grazie. Non riesce a capire l’Inglese? – La reazione di quel barbaro fu immediata:
- Lo capisco benissimo. È che non amo spoVcaVmi le labbVa di questa pVonuncia Vude. – Scandì malamente, con chiaro accento parigino. Mi domandai come un evidente esempio di francese DOC potesse essermi sfuggito. Tuttavia lo ignorai, porgendo all’altro qualche confezione di zuppa, tè e biscotti. Il giovane mi gettò un’occhiata colma di gratitudine; il maggiore mi squadrò, nemmeno gli avessi ordinato d’ingurgitare Marmite** e carbone.
- Sarai mica tu quello che porta i pasti la domenica? – Non comprendendo appieno la natura della domanda, risposi:
- Sì, sono io. Perché? -
- Sacrebleu! Quegli abomini sono opera tua! Eccolo il motivo delle mie serate al bagno, lo sapevo ch’era inglese! -
Di fronte a quell’esempio insopportabile di maleducazione, persi totalmente il contegno, abbandonando di lato la busta della spesa ed avventandomi contro quel barbone, tentando di soffocarlo alla bell’e meglio.
Stavo giusto per tirargli un pugno in pieno viso, quando Elizabeth fece ritorno dalla stanza affianco, fiondandosi subito a separarci. Quel francese non faceva che sbraitare nella sua lingua, contribuendo solo ad alimentare il mio nervosismo. La giovane tirò ad entrambi uno scappellotto sulla nuca, per poi dilungarsi in una ramanzina che mi presi la libertà d’ignorare.
Una volta concluso quell’imbarazzante momento, recuperai le buste e mi avviai all’uscita di quel posto in cui non avevo più intenzione di metter piede.
- Sacrebleu! Sacrebleu...! – Continuava a ripetere quell’idiota, così gli urlai:
- What the hell does it mean “Sacorblou”?! -, per poi uscire sbattendo vigorosamente la porta.
Ho ancora l’impressione di non aver pronunciato correttamente quell’imprecazione, tale che fosse.
 
 
 
 
 


 
« Ne ho abbastanza di questo tempo del cazzo! »

 
 
 
 
 
 
Ormai l’umore della giornata era stato rovinato da quegli spiacevoli incontri, decisi dunque d’interrompere lì il mio vagare sotto la pioggia, un altro dei miei passatempi; se il temporale non è troppo forte e non soffia troppo vento, ovviamente. Non ci tengo a farmi scuotere come un fuscello.
Feci, per cui, dietrofront, dirigendomi al mio trasandato appartamento, ch’era come sempre ad attendermi, quasi che, dal momento in cui era stato innalzato, non avesse mai fatto altro.
Aprii il portone e, dopo aver asciugato appena le scarpe sul tappeto posto dinanzi le scale di dura pietra, che a così tanti passi avevano sempre resistito, percorsi quella breve salita a chiocciola; vi sono solamente tre piani nella casa. Al momento della costruzione era più una specie di villa, che un appartamento, ragion per cui abbiamo in realtà parti di differente grandezza, noi condòmini. Io ho la più grande perché, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la mia famiglia se n’è appropriata a poco prezzo, realizzando subito che quella zona avrebbe recuperato di nuovo il suo antico splendore, come d’altronde è stato.
Stavo per infilare nella serratura della porta di casa la chiave, quando un notevole baccano proruppe dall’appartamento dinanzi il mio, attirando giustamente l’attenzione.
- Ne ho abbastanza di questo tempo del cazzo, me ne torno a Napoli, porca puttana! -  
- Ma fratellone, no! Dai, resta! Ci siamo messi d’accordo, ricordi? Solo sei mesi, poi torniamo in Italia! Non mollare adesso, mancano solo centonovantatré giorni! –
- Li hai anche contati?! Sei più malato di questi inglesi di merda. E lasciami! Fammi uscire, almeno! –
- Non puoi uscire vestito così! Ti ammalerai, Romano! –
- Vaffanculo! – E, dopo diversi rumori di natura indefinita, che mi convinsero a voltare le spalle alla porta altrui e riporre nuovamente lo sguardo sulla mia, udii il chiaro tramestio d’un chiavistello che viene rimosso, seguito da un violento muoversi di passi, che s’interruppero poco dopo, probabilmente nell’aver notato la mia presenza. Quindi mi voltai con noncuranza, accennando a un “Good morning”, che venne timidamente ricambiato da un giovane dalla pelle mediterranea e gli occhi del colore delle olive mature, che si avviò poco dopo, con una certa fretta, giù dalle scale.
- Romano! – Chiamò una voce con tono disperato, la stessa che avevo udito appena prima durante il litigio. Apparteneva al giovane di cui ho trattato qualche riga fa, riferendomi all’italiano impaurito dai recenti metodi della medicina; Felishano, mi sembra si chiami. Questi italiani hanno dei nomi stranissimi.
Notando che lo stavo osservando con aria incuriosita, il giovane spostò lo sguardo dalle scale, da cui aveva ormai realizzato che il fratello non sarebbe più risalito, a me, ricambiando l’espressione interessata sul faccino infantile, con tanto di dito posato sul labbro inferiore.
- Good morning. – Lo saluai, mostrando un mezzo sorriso, non troppo convinto.
- Ciao! – Mi domandai che diavolo volesse dire ma, vedendolo scuotere la mano con allegria, interpretai quella parola indefinita come un ricambio al mio saluto; quindi entrai in casa, richiudendomi la porta alle spalle.
Quei tipi del Sud Europa sono davvero davvero bizzarri.
 
 
 
 
 
 


 
« Wow! Is there a party? I like parties! »

 
 
 
 
 
 
 
Per uno scrittore, il momento preferito è quello in cui si ha ispirazione e voglia di scrivere; perché, beh, sono cose differenti, nel caso ve lo stiate chiedendo! L’ispirazione è quella massa d’idee compatta di cui si ha una precisa immagine ed un determinato ordine; la voglia di scrivere è quel desiderio di piazzarsi dinanzi al portatile e battere sino alle prime ore dell’alba, durante cui si prepara il primo tè del giorno. Se manca l’una o l’altra, lo scrittore è impossibilitato materialmente a scrivere una riga di cui si senta soddisfatto appieno.
Per conciliare ambe le cose, avevo ideato uno stratagemma alquanto efficace, che consisteva nel fumarsi una sigaretta - le Lucky Strike sono le mie preferite - per poi sdraiarsi sul divano, in penombra, accostando le persiane e chiudendo completamente gli occhi, lasciando vagare la fantasia ed i sensi per quel sentiero misterioso e segreto che ogni uomo o donna di letteratura possiede, un sentiero che solamente lui, o lei, è abilitato a percorrere. Il sentiero per il successo, o quello della perdizione? Questo è in grado di deciderlo solo lo scrittore.
Stavo giusto per passare alla seconda fase dello stratagemma, quello della sistemazione sul divano, quando mi accorsi che, tornato a casa, non avevo ancora controllato gli eventuali messaggi nella segreteria. In effetti, lampeggiava la spia rossa e spiccava il numero “1” sul piccolo display scuro. Quindi sollevai la cornetta e, dopo aver premuto il tasto per udire il messaggio, attesi d’avvertire una qualche voce familiare; cosa che non accadde, visto che udii nient’altro che il tono brusco e dall’accento inconfondibilmente scozzese di mio cugino Ian, quel rosso alcolizzato e dagli occhi sempre scarlatti, con molte probabilità per via del continuo stato d’ebrezza. Sospirai, continuando ad ascoltare il messaggio, imponendomi pazienza. Forse voleva chiedermi soldi; che non gli avrei concesso.
- ... –ur! È da tanto che non ci si sente, eh? Ti va di ospitarmi qualche giorno? Devo venire a Londra per degli affari urgenti e non ho la minima idea di dove fermarmi. Ci fai stare il tuo cuginetto da te, vero? Sì, certo... Non richiamarmi, arrivo in serata. Fammi trovare la birra! -
Fui tentato di lanciare il cordless a terra ma mi trattenni, respirando a fondo prima di sciogliermi in imprecazioni che non riporterò di seguito, concludendo la sfuriata con un urlo isterico, che riserbavo solo ai momenti di totale sconforto, come quello.
Dire che detesto mio cugino è davvero poco. Lui e quei due irlandesi mi hanno rovinato la vita sin dal primo momento, cacciandomi in casini dalla dubbia utilità e dandomi responsabilità di cui non avevo alcuna voglia di farmi carico, usandomi a piacimento non appena ne avvertivano il bisogno. Ian, Wilbur e Connor. Tre dei nomi sulla mia interminabile lista nera.
Non mi dilungherò a narrare di come mi affrettai a riassettare la casa per renderla il più presentabile possibile; un uomo che vive da solo, peraltro uno scrittore, è abituato al proprio territorio, che non lascia varcare a nessuno senza prima averlo ritenuto all’altezza. Ed Ian non era certamente all’altezza. Ma, visto che non me la sentivo di lasciarlo fuori casa, perché in fondo possiedevamo – in teoria – lo stesso sangue, sistemai tutto e comprai persino la birra, sperando che non si ubriacasse troppo. Beh, vista la mia costante presenza in casa – perché non avevo assolutamente intenzione di lasciarlo nel mio appartamento da solo -, ci avrei pensato io a moderarlo.
Convinto di ciò, una volta piazzato ogni oggetto e capo d’abbigliamento al proprio posto, ritenendomi sufficientemente soddisfatto, pensai di potermi concedere ancora qualche ora di scrittura, visto che alle sette mancava una mezz’ora ed Ian era famoso per i suoi ritardi.
Eppure, quella buona stella che mi sorveglia dall’alto, aveva optato per il non farmi nemmeno pensare a scrivere, quel giorno; sentenza che si manifestò vistosamente con due forti scampanellate alla porta.
Convinto più che mai che non potesse trattarsi di nessun altro all’infuori del mio caro cugino scozzese, aprii senza neanche chiedere chi fosse, trovandomi invece davanti uno dei due fratelli italiani, precisamente quello ch’era uscito qualche ora prima, zuppo d’acqua e tremante di freddo. Inizialmente sbalordito da quell’improbabile visione, non mi venne affatto in mente d’invitarlo a entrare, motivo per cui quel giovane, con tutte le sue ragioni, mi sbraitò contro qualche insulto nella sua lingua finché non mi scostai di lato, domandandomi mentalmente perché non avesse fatto ritorno in casa propria.
- What are you doing here? -
- E accendi de più ‘sto fuoco, sennò mi congelo! – Impiegai qualche istante a realizzare che, con i gesti teatrali da lui compiuti, mi stava intimando di alimentare il camino. Quindi vi aggiunsi della legna, che arse subito, riscaldando l’ambiente circostante. Il ragazzo si pose lì davanti, strusciando le mani l’una contro l’altra con vigore, nemmeno si trovasse sotto una tempesta di neve. In quel momento compresi perché gli italiani erano quasi sempre perdenti in battaglia.
- And so... Perché non sei a casa tua? –
- Feliciano è uscito. Chidd’ ciucc’***. Eh, ma quando torna... –
- Avete un solo mazzo di chiavi? –
- In realtà abbiamo una sola chiave, che lui tiene sempre al collo. Non dobbiamo restare qui per molto, la casa è in affitto e costa troppo fare una copia di quell’affare. – Compresi a stento le sue parole; il forte accento italiano, forse persino dialettale, gli faceva incollare malamente fra loro tutti i termini, rendendo le sue frasi una specie di malloppo indefinito.
- Ehm... Sai quando torna, tuo fratello? – Domandai con garbo, mentre m’immaginavo una possibile scena con in casa sia Ian che quel tipo; pensiero grottesco, che mi sbrigai a rimuovere.
- Sì, gli ho telefonato poco fa, dice che sta tornando, ma— - Non fece in tempo a concludere la frase che un forte starnuto lo scosse da capo a piedi, facendomi venire in mente di chiamare il dottore, visto che non avevo intenzione d’ammalarmi a mia volta.
Intimai all’italiano di attendere e composi il numero del dott. Beilschmidt, sperando che non fosse impegnato altrove. Fortunatamente rispose subito.
- Pronto? -
- Hello! Here’s Arthur Kirkland. –
- Oh, buon giorno, Arthur. Ha bisogno di una visita? –
- Non io. Il fratello di quel buontempone italiano che abita sul mio stesso piano, quello che ha il terrore degli aghi. –
- Ah. – Ebbi l’impressione che avesse compreso molto bene di chi stavo parlando.
- Può passare il prima possibile? Si trova a casa mia. –
- Ja, ja— cioè-, sì. Arrivo. –
E, conclusa la telefonata, tornai in salone, osservando come l’italiano si fosse accasciato contro il camino, a metà fra il sonno e la veglia, col respiro leggermente affannoso. Probabilmente era vittima di qualche linea di febbre.
- Hey, you. Non ti senti bene? – Domanda dalla risposta piuttosto ovvia, ma il ragazzo non fu in grado di fornirmi nemmeno quella, ragion per cui, fatto appello a tutte le poche forze del mio corpo esile, lo presi in braccio disordinatamente e lo riposi sul divano, spogliandolo di tutte quelle vesti fradice, coprendolo con una delle trapunte recuperate poco prima.
Finalmente, una manciata di minuti dopo, efficente come al solito, Ludwig fu davanti alla mia porta, pronto a visitare l’italiano. Impiegò sì e no dieci minuti, dichiarando, come avevo previsto, che il giovane non aveva nient’altro che 38° di febbre.
- Senta, come penso già sappia, il giovane abita qui di fronte, ma io non riuscirei a trasportarlo sin lì. Quando tornerà suo fratello, potrà farmi il favore di caricarlo in braccio per quel breve percorso? Per lei non dev’essere un grande sforzo, dopotutto. – Proposi, gettando un’occhiata a quelle spalle massicce, sicuramente non solo dote naturale. Mi dava l’idea di uno con parecchia rabbia repressa, il dottor Beilschmidt.
- Certo. Non c’è problema. – Rispose prontamente il tedesco, annuendo un paio di volte, riponendo gli strumenti con cui aveva visitato il ragazzo in una valigetta di cuoio.
Lo scampanellìo alla porta mi distolse dal fissare lo sguardo su quelle braccia muscolose, facendomi domandare mentalmente se si trattasse di Ian o del fratello dell’italiano.
Eppure, aperta la porta, non fu il viso di nessuno dei due quello che mi trovai davanti; anzi, era uno ben peggiore: quello del francese incontrato all’associazione di beneficienza il mattino stesso. Era vestito meglio, lavato e leggermente sbarbato. E mi porgeva, con un sorriso sornione, delle scatole di tè al gelsomino. Non ho idea di come abbia fatto a capire che è il mio preferito, visto che quello che gli avevo lasciato la mattina era al limone. Sesto senso, forse.
- Bonne soir! -
- Oh, please, non parlare quell’abominio in casa mia. –
- Non siamo ancora in casa tua, chérie. –
- What do you want? –
- Porgerti le mie scuse. Ti ho portato queste, ho pensato potessi gradirle. È anche per ringraziarti di stamani e dei pasti che porti ogni domenica. Non ho apprezzato il tuo sforzo e me ne rammarico. Non ero affatto dell’umore, quest’oggi, devi perdonarmi. Accetti le mie scuse, petit anglais? –
- A patto che la smetti di parlare francese e che mi stai alla larga, bloody french. – Risposi, prendendo nel frattempo le scatole; regalo, mio malgrado, estremamente gradito.
Dietro al francese, qualche istante dopo, sbucò correndo il fratello dell’italiano, che mi fissò con aria sfiancata per poi esclamare:
- Dov’è? Dov’è? È vivo? - Vedendomi in difficoltà, visto che quel ragazzo aveva parlato nella sua lingua originale, il francese mi fece da interprete momentaneo.
- Chiede dove si trovi non so chi. –
- Oh, m-ma certo! L’avevo capito. – Dunque feci cenno al giovane d’entrare in casa, dove corse ad abbracciare il fratello, svegliandolo di soprassalto.
Mi domandai perché, dopo mesi di totale silenzio e tranquillità, dovessero venire in casa mia così tante persone in una sola volta. E, come se non bastasse, giustamente quel genio di Ian pensò bene di presentarsi in quel momento.
- Wow! Is there a party? I like parties! – Proruppe, gettando a terra il mozzicone della sigaretta, peraltro ancora mezzo acceso, rischiando di ridurmi in cenere il parquet. Lasciò il bagaglio in un angolo e, dopo essersi sbracato sulla mia poltrona, iniziò a parlare fra sé, o forse credendo d’essere ascoltato, vaneggiando su quanto scomodo fosse stato il viaggio.
Fra i due italiani intenti a discutere fra loro – persino nella loro lingua -, Ludwig che annuiva con aria confusa alle rumorose chiacchiere di Ian e quel francese che continuava a sorridere, come se tutta la situazione fosse una soup opera, persi sul serio la pazienza e finii per sbraitare una seconda volta nella stessa giornata.
- Oh for God’s sake, calm the fuck down, everyone! I need silence! S-i-l-e-n-c-e! -
E, finalmente, tutti si zittirono, fissandomi però con aria sbalordita.
Calata quell’imbarazzante cappa di silenzio, mi resi conto d’aver – forse – esagerato e tossicchiai, sviando lo sguardo al tappeto del salone, quel bel tappeto che da bambino detestavo perché un giorno il gatto ci aveva vomitato e credevo sempre di sentirne ancora il fetore.
Feci un lungo respiro ed approfittai della pausa creatasi per imporre le mie decisioni, visto che ci si trovava pur sempre in casa mia.
- Please, italian brothers, come back to your appartment. And you, doctor Beilschmidt, go with them. You, bloody french, go wherever you want except here and Ian, please, get down of my armchair. – Incredibilmente, tutti fecero come richiesto. In realtà i due italiani ci avevano capito ben poco ma, con qualche parola del tizio francese, si alzarono dal divano ed uscirono discretamente dalla casa, seguiti dal dottore, che mi salutò con un timido cenno del capo. Quindi fu il turno del biondo, che puzzava di vino e dopobarba, fui tentato di cacciarlo con un calcio nel didietro, ma mi trattenni all’ultimo. Ed infine, persino il mio cugino scozzese discese dalla poltrona, recuperando la valigia e togliendo dal parquet il mozzicone gettato poco prima.
- I think... I’ll get a shower. See you later! – Annunciò Ian, dirigendosi in bagno senza nemmeno vestiti di ricambio appresso. Mi convinsi che sarebbe sopravvissuto ugualmente e, più stressato che mai, mi sedetti sulla poltrona, abbandonando il capo di lato e scivolando lentamente in un piacevole dormiveglia.
Peccato che la capacità di udire ogni rumore nel sonno, compresi quelli più flebili, si fosse affievolita, forse per via del continuo casino di qualche istante prima; e che non riuscii a sentire una voce pronunciare il mio nome.





— Note:

*There's no place like London: Titolo ispirato dall'omonima canzone del film Sweeney Todd.
**Marmite: Marmellata salata tipicamente inglese.
***Chidd' Ciucc': "Quell'asino" in dialetto calabro.


~


Saaalve~!
Era da un sacco che non pubblicavo in questa sezione! c:
Spero che la storia vi abbia catturati, così magari mi lasciate un commentino-ino-ino e m'invogliate a continuare! Anche perché, una storia abbozzata alle quattro di mattina non dovrebbe essere nemmeno degna di nota ma— questo sta a voi deciderlo. ~
Di seguito, piccoli avvisi per i prossimi capitoli e la storia in generale:
Gli aggiornamenti saranno poco frequenti, ho appena il tempo di connettermi al pc; continuerò ad inserire termini in lingua ma, se ci saranno lamentele, inserirò anche una traduzione a fine capitolo.
Non mi viene in mente nient'altro quindi... Boh, al prossimo capitolo~!

 

   
 
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