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Autore: Aine Walsh    06/05/2013    1 recensioni
[Benjamin Whishaw]
Ci sono così tanti volti là, visi di tutti i tipi, eppure manca proprio quello che cerco. Non so che pensare e ho la mente completamente imbiancata. Perché illudersi ancora? È evidente che non verrà, chiaro come il sole.
Vuole sbarazzarsi di me? Bene, perché non dirmelo?! Mi sarei fatto volentieri da parte senza pensarci un attimo di più, evitando tutta questa farsa e, soprattutto…
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1 – Welcome to my life
 

Do you ever feel like breaking down?
Do you ever feel out of place?
Like somehow you just don't belong
And no one understands you

 
«È la casa migliore del quartiere, ve lo posso garantire» ripeto per l’ennesima volta, perdendo anche il conto.
La signora Hobbs non mi degna nemmeno di uno sguardo. Credo ce l’abbia con me per la troppa attenzione che, invece, mi presta suo marito. Mi mette in forte imbarazzo questo tipo, davvero indisponente, maleducato ed estremamente viscido. Le sue occhiate mi fanno quasi rimpiangere di aver scelto una camicia un po’ più aderente del mio solito. Sospiro impercettibilmente; in fondo non mi importa. Devo solo riuscire a vender loro questa casa e poi scomparirò dalla loro vita per sempre. Eppure Malefica in Biondo non sembra disposta a volerlo capire e continua imperterrita la sua battaglia personale nei miei confronti  trovando difetti in questo o in quell’appartamento. Se riesce a trovarmi qualcosa che non va anche qui, giuro che…
«Caro, tu che ne dici? A me non piace quest’orrida moquette blu, è così poco igienica» commenta sgarbatamente storcendo il naso.
Il signor Hobbs alza le spalle e mugugna qualcosa di incomprensibile. Sono pronta a scommettere che anche lui sia stufo di girare di casa in casa alla ricerca della Terra Promessa che soddisfi questa Megera.
Su, Dana, ricorda: il cliente ha sempre ragione. Ma questo non vuol dire che tu non possa provare a fargli cambiare idea.
«Signora, mi permetta di ricordarle che può sempre sostituire la moquette con ciò che lei trova più conveniente, qualora acquistasse il locale». È difficile apparire gentili quando senti la furia degli elementi scatenarsi dentro di te.
La risposta? Un «Questo lo so» talmente acido che mi domando come faccia il suo stomaco a restare incolume con tutto questo veleno in circolo.
Lancio un’occhiata disperata all’orologio e noto con orrore che sono già le tre e mezza. Ho ancora tempo prima di dover essere in aeroporto ma preferisco arrivare in anticipo, per una volta nella mia vita.
Crudelia Demon e il suo (in)fedele babbuino di compagnia continuano a girare per i vani, lui parlando a bassa voce, lei non avendo alcun timore a confessare tutto ciò che vi trova di terribilmente sbagliato e poco adatto. Nemmeno fosse la Regina in persona, tsè!
Sono esausta, affamata e ho un dolore lancinante ai piedi per via dei tacchi che sono costretta a portare; rimpiango amaramente i giorni in cui ero libera di indossare jeans e Converse senza preoccuparmi di dover apparire professionale.
Mi avvicino alla finestra centrale, la più grande, e ammiro il panorama della città. Westminster, vista sul Tamigi, pieno centro, a due passi dal St James e dall’Hyde Park: come si fa a non voler abitare in un posto del genere? La luce che filtra dalle finestre al tramonto, le pareti bianco ottico, il caminetto all’angolo… non sono motivazioni sufficienti, queste? Anni fa sognavo una casa del genere e sapevo anche come arredarla. Ennesimo sogno infranto, rotto, calpestato, morto e sepolto da qualche parte. Mi aspettavo una vita diversa dopo l’Accademia, lo ammetto. Una vita in cui giravo il mondo invece di restare bloccata in una squallida agenzia immobiliare, in cui avevo un posto tutto per me invece di dipendere dalla signora Millian e dall’imminente matrimonio di sua figlia, in cui all’alba dei trent’anni avessi già creato qualcosa di concreto come una solida carriera o una bella famiglia.
«Basta così, – sbotta la Hobbs – non mi piace. Non va bene per niente. È questo il meglio che sa fare, signorina Downey?».
Guardo velocemente il signor Hobbs, sperando che mi aiuti. Niente, il suo sguardo è sempre rivolto a ciò che la scollatura a V mi nasconde. Porco maiale depravato.
«Dalloway, il mio cognome è Dalloway. E mi rincresce sapere che l’immobile non rispecchia i suoi gusti, devo essermi sbagliata». Dio, la voce che trema no, ti scongiuro!
«Che impertinenza!» esclama la scrofa, avviandosi verso l’uscita.
Mai rivolgersi con maleducazione al cliente, per nessuna ragione.Ma puoi sempre rigirare la frittata a tuo favore e far capire che sta sbagliando. Sii una leccapiedi se ce n’è bisogno, difendi la tua dignità in modo schietto ma velato.
«Non sono impertinente, signora, volevo solo chiederle scusa e darle appuntamento in ufficio per discutere e trovare insieme una…».
Si volta a guardarmi infuriata, con gli occhi che quasi schizzano fuori da quella costosissima montatura Vogue che ostenta tanto. «Appuntamento? Ufficio? Insieme? Non ci sarà un altro incontro. Non so se ha ben capito, signorina Downey, abbiamo bisogno di qualcuno con esperienza nel settore e non di una ragazzetta qualunque alle prime armi». Le sue parole sono veleno e non ho mai visto tanta cattiveria in un sorriso.
Estrema cordialità, fa andare il nemico in bestia, diceva sempre nonna.
«Mi scuso per non essere stata all’altezza e spero vivamente che la nuova agenzia cui deciderà di rivolgersi sia in grado di soddisfarla, signora Hobbs. Consenta a questa ragazzetta qualunque alle prime armi di dirle una cosa, però: procuri un paraocchi a suo marito. È sgradevole e molto sconveniente sorprenderlo a fissare il decolté altrui».
Melinda Hobbs diventa livida per la rabbia, ma non riesce ad aggiungere altro. Prende Richard per mano e lo trascina fuori dall’appartamento, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
Strascico fino all’angolo della stanza, mi accascio per terra con le spalle al muro e inizio a piangere.
Umiliata, frustrata, delusa e incazzata con me stessa, è così che mi sento. Sono una fallita e non penso che qualcuno potrebbe definirmi diversamente. Mi sento come se avessi perso le redini della mia vita, come se avessi preso una scorciatoia sbagliata e mi trovassi adesso con le ruote anteriori dell’auto impantanate nel fango, con l’orribile sensazione di aver lasciato qualcosa indietro ad aggravare la situazione. Non ricordo nemmeno più come ho fatto a ficcarmi in una situazione del genere, con uno schifo di lavoro che non mi piace e nemmeno uno straccio di vita sociale.
A volte penso che dovrei mollare tutto e trasferirmi a Venezia da mamma, o a New York da papà. Il buon senso mi dice di restare ferma qui dove sono perché quei due sono incapaci di gestire una famiglia e perché sono convinta che mi sentirei troppo in imbarazzo. Il lato triste è che penso che quella parte di me abbia ragione. Quanti anni avevo quando hanno divorziato? Sei? Sette? Voglio bene ai miei genitori e loro ne vogliono a me, ma è meglio per tutti se stiamo lontani e ci limitiamo a vederci solo una o due volte l’anno.
Poi c’è stato quel disastro di convivenza durata appena due mesi, certo. Quella è una parentesi talmente squallida della mia vita che non vale nemmeno la pena di parlarne. In fondo, non avevo mai pensato che Aaron potesse essere la mia scelta decisiva per il futuro, il mio asso nella manica. Non quando lo vedevo stravaccato sul divano a scolare bottiglie e bottiglie di birra mentre io mi davo da fare ai fornelli per preparare qualcosa di decente. Quei sessanta giorni sono stati la realizzazione del mio incubo più grande, anche se non nego che Aaron ci tenesse davvero a me. Più che altro, mi rimprovero sempre quell’unica volta in cui ho preso qualcosa alla leggera senza averci pensato sopra per almeno quarantotto ore come è mio solito fare. Mi sono odiata per questo, ma devo ammettere di essermela cercata. Uno dei consigli del buon vecchio Peter Dalloway diceva di non avere mai a che fare con gente delle campagne sperdute del nord, specie se vivevano a Londra e si trovavano ad un passo dal licenziamento. Il ragazzotto era solamente tanto pigro e lavativo, uno di quei tipi che continua a procrastinare senza un domani e che non si preoccupa nemmeno di accompagnare la sua ragazza alla porta quando esce di casa per andare a lavoro e portare qualcosa da mangiare.
Mi tiro su a sedere e decido di andare via. Meglio non perdere ancora più tempo, soprattutto se lo impiego a piangere sul latte versato e a torturarmi per le molte, moltissime, scelte sbagliate che ho fatto in passato.
 

* * *

 
Quando arrivo all'aeroporto sono in grandissimo ritardo. A nulla è valsa la corsa verso la metro, quella maledetta serpe mi ha fatto perdere più tempo del dovuto e del meritato. Ho anche provato a rifarmi il trucco in parte sbavato per le lacrime, ma il risultato è stato disastroso e alla fine ho deciso di ripulirmi del tutto con un fazzolettino trovato per caso nella cartella.
Gate 2, Gate 2, Gate 2... Si vede che ho poca dimestichezza con gli aeroporti e con i viaggi in genere. Il mio massimo è stato prendere il treno per andare a Blackpool, una volta sola che è bastata a segnarmi per tutta la vita.
Continuo ad aggirarmi completamente sperduta tra tutta quella calca: Heathrow è immenso, riuscirò mai a trovare Johanna prima della mezzanotte?
Mi fermo e mi passo una mano tra i capelli, confusa. Le telefonerei volentieri, se il cellulare non mi fosse morto tra le mani mentre venivo qui. Per un velocissimo attimo l’idea di farla chiamare dagli altoparlanti mi sfiora il cervello. No, proposta malsana, proprio malsana e idiota. Subito dopo, però, un altro pensiero prende forma e questo sembra più realizzabile del precedente. Apro la cartella con i documenti ed estraggo quello con le informazioni degli Hobbs; tanto male, hanno detto che non verranno più a farci visita (che peccato!) e in caso posso sempre ristampare il modulo. Scribacchio Johanna S. Moore sul foglio e vado a cercare lo Starbucks all’interno della struttura perché, se conosco la mia amica, quella sarà la sua prima meta.
Mi avvio su per le scale mobili, quando qualcuno bussa letteralmente alla mia schiena e sono costretta a girarmi. Sono già abbastanza stressata e nervosa di mio, ci manca solo qualche scocciatore che voglia sapere…
«Mi scusi, non sono riuscita a fare a meno di osservare il nome che ha scritto sul foglio e, non so se sia uno scherzo o una coincidenza, ma corrisponde al mio».
Capelli lunghi, liscissimi e castani; occhi cerulei da cerbiatta;  voce gentile e un largo sorriso tra le labbra sottili: sì, non ci sono dubbi.
«JO!» esclamo buttandomi al suo collo. E poco importa se abbiamo bloccato la fila e stiamo per ricreare il famoso effetto domino con delle cavie umane.
Johanna, sicuramente più saggia e intelligente della sottoscritta, scioglie l’abbraccio e mi trascina poco più in là, senza però smettere di ridersela.
«Iniziavo a sentirmi come Tom Hanks in The Terminal» ammetto togliendole di mano la valigia.
«L’ho notato».
«Da quanto mi seguivi?».
«Da quando hai iniziato a guardarti intorno come una folle e non ti sei accorta che io fossi seduta proprio davanti a te. Fammi indovinare: hai il cellulare scarico e qualcosa è andato storto al lavoro».
«Sono in condizioni così oscene?» mugolo.
Johanna scuote la testa e mi carezza una guancia. «Solo per chi ha uno sguardo attento come il mio. Che è successo?».
«Oh, credimi, non vale neanche la pena di parlarne. Andiamo a prendere qualcosa di estremamente dolce e ipercalorico per favore, sento che potrei svenire. – propongo facendo strada – Ma ora dimmi, com’è andata a Chicago?».
«Niente di che, è stato uno dei corsi d’aggiornamento più noiosi a cui abbia mai partecipato. Ho solo imparato che l’eco pelle è il nuovo materiale del futuro e che le balze in tulle sono terribilmente out anche per i balli settecenteschi del Re Sole. Voglio dire, come si fa a ricreare lo stesso effetto senza balze e tulle? E l’eco pelle! Di solito stringe e non fa traspirare i tessuti, sono in tanti ad odiarla! – sospira – A volte mi chiedo perché abbia scelto quel corso di studi».
«Perché l’hai sempre desiderato, perché ci metti passione, perché sei in gamba e perché nessuno meglio di te avrebbe potuto sopportare le angherie di Miss Mitzy».
«No no no no! Non nominare quel maledettissimo nome da arpia!» piagnucola coprendosi le orecchie con le mani.
Sghignazzo maleficamente. Strano modo, quello di scaricare la rabbia su un’innocente. «Perché? Miss Mitzy era una brava donna. Gracchiava come un corvo quando parlava e non era mai felice di niente e più di una volta ti ha costretta a ricominciare da capo a lavoro finito, ma dove saresti adesso se non l’avessi avuta come insegnante?».
Jo prende posto e poggia le mani sul bancone. «Forse da nessuna parte, ma non avrei sprecato nemmeno un briciolo della mia sanità mentale».
«Non preoccuparti di quella, è sempre destinata a sparire».
«Disse l’esperta. – ridacchia la mia amica legando i capelli in una coda – Mi mancano gli anni del RADA».
«Anche a me» ammetto mentre sfoglio il menu, pur sapendo che finirò sempre con lo scegliere il mio solito frappuccino alla vaniglia.
«E allora dovresti venire alla festa, stasera».
Colpo basso, Johanna, davvero colpo basso. Alzo lo sguardo e mi viene spontaneo fare la svampita. «Quale festa?».
«Lo sai benissimo, non fingere. Abbiamo frequentato lo stesso corso di recitazione, so quando reciti» replica col tono di chi non ammette obiezioni.
Scoperta ancora prima di darci davvero dentro, mi decido ad uscire allo scoperto. «Ho detto che mi mancano gli anni del RADA, non i suoi studenti. Non ho voglia di vederli e ho perso i contatti con tutti, cosa dovrei andare a fare lì? Clare mi odia da sempre, poi!».
«Non è vero che hai perso i contatti con tutti».
«Tu sei l’unica eccezione».
«E non è vero che Clare ti odia».
«Uhm, devo ricordarti il famoso ‘incidente della mensa’?».
«Ci sarà Jimmy Patterson».
«Oh cavolo, non posso proprio perdermelo!».
Johanna sbuffa, visibilmente irritata. «Non ti sopporto».
«Va’ tu. La mia presenza non è indispensabile e ho passato una giornata tremenda, non credo che sarei di gran compagnia stasera. Ho solo voglia di sedermi a gambe incrociate sul letto e divorare un barattolo di gelato mentre piango guardando Ritorno a Cold Mountain».
«Non ti lascerò ingrassare come una balena e deprimerti come se non ci fosse un domani, quindi verrai con me, che ti piaccia o no. – dà un’occhiata all’orologio – A proposito, è tardi e dobbiamo andare».
«E il frappuccino?» lamento a bassa voce.
La risposta arriva chiara e forte, simile ad un ruggito: «Non c’è tempo!».
Sì, a volte la mia migliore amica riesce davvero a farmi paura.
 

* * *

 
«Et voilà! Adesso guardati e dimmi che ho fatto un buon lavoro e sei stupenda» esclama Jo con troppa allegria.
In definitiva, ho accettato di andare a questa stramaledettissima festa. Dietro linciaggio a vista, però, altrimenti me ne sarei rimasta chiusa nei pochi metri quadri della mia camera. Direi che è proprio il caso di riconoscere di essere stata schifosamente costretta e ricattata.
Mi volto pian piano fino a riuscire a vedere per intero la mia immagine riflessa nello specchio a parete. Johanna ha ripescato dal fondo del suo armadio un vestito che, mesi fa, mi aveva chiesto di prestarle per una cena (anche se poi non l’aveva indossato) e adesso sto qui a chiedermi come abbia fatto a comprare qualcosa del genere: carino sì, ma non indosso a me. Mi muovo appena e faccio oscillare le pieghe plissettate sopra il ginocchio con fare molto poco convinto. Non sopporto il fatto che mi fasci in questo modo, come fossi un fagottino, o peggio, una barbie.
«Hai fatto un buon lavoro… ma sono io che non vado bene per questo vestito. Tienilo tu, a te sta meglio».
Jo alza gli occhi al cielo, scocciata. «Non dire baggianate e non entrare in paranoia, okay? Ti sta benissimo, il blu elettrico si intona perfettamente al colore della tua pelle e ti mette così in risalto il girovita che nessuno riuscirà a resisterti».
«Come se ci fosse qualcuno da far cadere ai miei piedi!» commento sarcastica mentre infilo quelle meravigliose decolté bianche che ho appena preso in prestito.
«Chi può dire il contrario?».
«Ah, ma per favore. Ho chiuso con le smancerie e la sfera affettiva in genere. Adesso voglio concentrami su…» mi zittisco di colpo, non trovando nulla per cui vale la pena spendere energie.
«Sul lavoro?».
Chiara battuta da presa in giro. Ma non gliela do vinta.
«Perché no, potrei diventare la più grande venditrice d’immobili del Paese e ricevere pure una medaglia da Guiness World Record. Potrei vendere trenta appartamenti in un solo mese, no? Immagina, puoi».
Sì, sto divagando. Mi capita spesso, specie quando sono nervosa. E penso che questo sia un ottimo momento per essere nervosa e divagare.
«Comunque sia, non ne hai la certezza».
«Di riuscire a vendere trenta appartamenti in un mese?».
«Di non essere guardata da nessuno».
«L’essere guardata è diverso dal fare colpo» obbietto.
«Non del tutto. Ci sarà parecchia gente stasera, persone che non vediamo da anni. Cinque, quattro… tre anni…».
Non mi piace il modo in cui ha evidenziato quella parolina. Diciamo che Johanna non è quel tipo di donna che riesce a fare delle frecciatine velate che lasciano dubbi.
«Oh, non vedo l’ora».
La mia amica non risponde, ha capito che è meglio non darmi modo di continuare a delirare. Mi tiro su (Dio, quanto sono alti questi tacchi!), mi risistemo di fronte allo specchio e completo trucco e parrucco. Quando finisco prendo posto proprio sotto la finestra e la guardo: Johanna indossa un abitino ancora più corto e striminzito del mio, con lunghe maniche a sbuffo e una strana fantasia pseudo-floreale beige, rossa e bianca. Sta una favola, insomma.
Sto per elaborare un complimento o qualcosa del tipo Perché non sono come te, ma il suono di qualcuno che bussa alla porta mi distrae. Mary, la minore delle quattro sorelle Moore, fa irruzione nella stanza e punta dritta dritta al puff.
«Che ore sono?» domando, avendo completamente perso la cognizione del tempo.
«Le otto e un quarto. – risponde la ragazzina – A che ore è la festa?».
Jo si paralizza alle parole della sorella, con lo sguardo nel vuoto e il mascara stritolato nella mano chiusa: lei non è affatto abituata ad arrivare in ritardo.
«Era alle sette e mezza…» rispondo pensando di non essere stata io l’ultima ad essere pronta, per una volta.
Johanna dischiude appena la labbra per dire qualcosa, con la faccia di chi ha visto un fantasma alla finestra di fronte. «E lui è già arrivato?».
Mary si rigira una ciocca tra le mani e annuisce. «Venti minuti fa, credo».
La Moore si ricompone all’istante, sfoderando un grandissimo sorriso a noi povere vittime dei suoi bizzarri sbalzi d’umore. «Benissimo! Dana, perché non vai avanti e gli dici che io sto per raggiungervi?».
La proposta/obbligo mi spiazza e penso di essermi persa qualcosa. «Dove dovrei andare?».
«Giù, in strada».
«Ma da chi?».
«Da lui».
«Lui chi?».
«Il nostro passaggio».
Ora è tutto più chiaro, decisamente. Cristallino come l’acqua del Tamigi, per la precisione.
Mary mi passa il trench, gesto carino e cordiale per farmi capire che devo andare via alla svelta. Lo infilo, prendo borsa e cellulare e apro la porta. «Pensavo che avremmo preso il taxi, come abbiamo fatto prima» dico stupidamente, prima di immettermi nel corridoio e uscire subito dalla porta d’ingresso.
Per fortuna casa Moore è solo al secondo piano e il fatto che il palazzo sia sprovvisto di un ascensore non è un gran problema. Mentre scendo non posso fare a meno di chiedermi chi sia questo misterioso signor Passaggio di cui non hanno voluto fare il nome.
Non è che Johanna si sia felicemente fidanzata senza dirmi niente, vero? No, non lo penso affatto. Anche se da lei potrei aspettarmi una cosa del genere.
Apro il portone e una folata di vento mi investe in pieno, facendomi rabbrividire. Un nome mi attraversa fulmineo la testa, ma non faccio in tempo a rifletterci un po’ su che lo abolisco immediatamente; non lo so sento da anni ormai, e sono sicura che sia lo stesso anche per Jo. Non mi resta che uscire e scoprire da sola di chi si tratta.
La strada è scarsamente illuminata e completamente deserta, fatta eccezione per la macchina parcheggiata di fronte a me, quella col conducente poggiato contro il cofano anteriore proprio sotto il palo. Almeno non è un maniaco, altrimenti non si sarebbe esposto così tanto. Mi avvicino domandomi chi sia mentre studio meglio quel poco che di lui mi è possibile vedere. Pantaloni neri, mani infilate nelle tasche della pesante giacca, viso chiaro contornato da barba e capelli tendenti al biondo. Sorride già, indice del fatto che mi abbia riconosciuta. E anche io ho capito chi è.
La notte, quando non si riesce proprio a prendere sonno, si fanno i pensieri più assurdi ed io non vengo di certo meno. Passato, presente, futuro, tutto si mescola facendoci rivedere o immaginare ciò che abbiamo fatto, ciò che facciamo, ciò che faremo o che pensiamo di fare. Ecco, questo non rientrava per niente in quello che immaginavo sarebbe stato il mio comportamento. La mia reazione tipo sarebbe stata felice, tranquilla e allegra senza cadere nel comico; una reazione normale per farla in breve. Ma sono stata colta di sorpresa e la normalità non è mai stata il mio forte, quindi è ovvio che ogni buon proposito sia andato presto a quel paese.
«Tom! – esclamo abbracciandolo – Sei tu il signor Passaggio!».
Hiddleston ride divertito. «È così che mi hanno soprannominato ai piani alti?».
«Sì, immagino volessero farmi una sorpresa. Dio Santo, come stai? Ne hai fatta di strada, sei davvero una persona importante adesso! Non sai che euforia quando…».
«Quando hai scoperto che mi era stata affidata la parte di Loki? Ti piacciono ancora i supereroi Marvel?» sorride.
«Sempre e comunque. Hai fatto vacillare il mio amore assoluto e incondizionato per Spiderman, ma va bene così. I cattivi hanno sempre il loro perché».
«Così come le rimpatriate» afferma.
Mi allontano un po’ e lo squadro, dubbiosa. «Johanna ti ha detto che non voglio venire?».
«Sì, e secondo me sbagli. Ci divertiremo, sarà una bella serata».
«Odio il vostro ottimismo e il vostro essere sempre così estroversi».
«Qualcuno deve pur tirare su il morale di Lady Tenebra, no?» ride. Vorrei fingermi offesa, ma il broncio lascia subito posto ad una risata che fa eco a quella del mio amico: fare i seri con Tom è praticamente impossibile quando lui non vuole.
Il rumore metallico del portone che si richiude ci fa voltare e Johanna avanza verso di noi sorridendo, anche se non riesco bene a capire a chi sia rivolta. Però, ci ha messo un attimo a finire ed ha un trucco perfetto. Ogni volta che la guardo sento quel poco di femminilità che ho sbriciolarsi e volare via col vento. Pazienza, non credo che mi ci ritroverei nemmeno a fare la perfettina: sono più poeta maledetto dell’Ottocento, io.
Thomas le afferra la mano e la bacia platealmente, anche sotto questa strana luce a intermittenza posso vedere le guance di Jo tingersi di rosso. Quei due hanno ancora qualcosa, ne sono convinta. Se ci fosse stato anche… ehm. Tanto lui non c’è, che senso ha parlarne?
«Principe Hal, non dovevate».
«E perché no? Un così bel fiore… senz’offesa, Dana».
Alzo gli occhi sorridendo a labbra chiuse. «Non fa niente. Avvertitemi quando finite di flirtare alla maniera trecentesca e ammettete che stavolta il ritardo è dovuto a voi e non a me, stranamente, quando arriveremo» aggiungo salendo in macchina e chiudendo la portiera. Li vedo scuotere le teste divertiti prima di prendere posto nell’abitacolo.
«Signore, è già parecchio tardi – Tom mette in moto – quindi allacciate bene le cinture perché siamo diretti a… dove siamo diretti?».
«Mayfair».
«Uh, si tratta bene la signora» commento senza troppa sorpresa. C’era proprio da aspettarselo da una come Clare Harris.
«Sì, ha sposato un imprenditore o roba del genere. Un americano di quelli abituati a essere sempre sulla copertina di Forbes» spiega Jo.
«Uno spocchioso ricco sfondato da far schifo, quindi».
«Esattamente».
«Beh, almeno l’ha smessa di sculettare a destra e sinistra per darsi da fare e pagare quel buco di stanza», le parole mi muoiono in gola quando capisco che una simile cattiveria potrebbe essere detta sul mio conto. Con la sola differenza che io non sono sposata con un riccone americano, anzi, io non ho neppure qualcuno con cui uscire.
«Però era brava».
«Cielo, Hiddles, davvero?» domanda prontamente la Moore, quasi infastidita quanto me dall’affermazione.
Tom approfitta del semaforo rosso per staccare gli occhi dalla strada e guardarci in faccia. «No?».
«Certo che no!» esclamiamo.
«E va bene, va bene, no… Ma per noi ragazzi lo era».
«La cosa non mi stupisce affatto» rido, mentre Johanna si affaccia appena dal finestrino per prendere aria.
«Fingo di non aver sentito niente. Piuttosto, ci pensate? La banda è riunita, siamo di nuovo tutti insieme!».
«No, non siamo proprio al completo. Per esserlo manca solo…».
Sospiro. «Ben».
 

* * *

 
Anche non sapendo il numero civico avremmo riconosciuto la casa… pardon, Reggia Reale, ugualmente: è la più illuminata di tutte, come se fosse giorno, cosa che mi fa credere che il marito deve essere veramente arrogante ed egocentrico quasi quanto la moglie.
Thomas fischietta stupito. «Clare ha davvero fatto il salto di qualità con il matrimonio, questa casa è grande quasi quanto quella di Chris».
«Chris?» domando.
«Hemsworth».
«Ah già» rispondo distrattamente col cervello che mi figura immagini di quel dio biondo.
Ci fermiamo davanti al cancello d’ingresso e osserviamo meglio: la villa è a due piani, bianca, con due colonne ai lati della porta d’ingresso che sorreggono un balcone al livello superiore. Mi ricorda la Casa Bianca, in un certo senso.
«Okay, chi suona?» chiede Jo, le mani ai fianchi come di chi si aspetta una risposta veloce.
Inizio ad entrare nel panico. «Non lo fai tu?».
«Dovrei?».
Tom ci fissa per un attimo e alza le mani scuotendo la testa. «Non guardate me».
«Jo…».
«Vai».
«Ho avuto una giornata tremenda, non puoi farmi questo!» piagnucolo.
«Non vedo come questo c’entri con lo spingere un pulsante».
«Mi trascini a delle feste a cui nemmeno tu vuoi partecipare, perché?» dico, pur sapendo che non avrò risposta. Sbuffo e suono il campanello laccato d’oro.
Ansia. Mi tremano le mani. Avrei anche potuto accettare di uscire, ma non per venire qui. Questo è l’ultimo posto al mondo in cui desidero essere al momento.
«Chi èèèèèè?» si sente gracchiare qualcuno dopo un po’.
I due novelli Iscariota scoppiano silenziosamente a ridere vedendo la mia istantanea espressione di puro disgusto. Quella voce così acuta, così palesemente falsa, così fintamente zuccherina mi ha sempre dato i nervi. Questa si chiama violenza psicologica.
«Siamo Johanna, Tom e… Dana» rispondo a fatica cercando di sembrare alquanto dolce. Spero non faccia davvero La Battuta.
Attimo di silenzio dall’altra parte, musica esclusa. Poi: «Dana faccia di banana?».
Ecco, l’ha fatta. Datemi almeno una buona ragione per entrare e comportarmi in modo civile, senza spaccare la faccia a quella stronzissima padrona di casa.
«Ahahahaha! Entrate pure, tesori!».
Il cancello si apre con uno scatto e Thomas lo spinge in avanti.
«Giuro che la uccido, stasera sono proprio in vena» sibilo a denti stretti.
Jo mi prende sottobraccio, sorridendo più ampiamente del dovuto alla Harris che ci tiene aperta la porta. «E invece no, sta’ vicino a noi e vedrai che non ti darà fastidio se non quando ce ne sarà estremamente bisogno. – una veloce strizzata d’occhio – Clare!».
«Johanna, carissima!» esclama quella stampandole due sonori baci sulle guance. Poi è la volta di Tom, che però riesce a defilarsi in fretta, e infine mia. Mi bacia sulle orecchie, con la chiara intenzione di darmi fastidio.
«Che meraviglia, il fantastico quartetto del RADA di nuovo tutto unito!».
«Trio, – mi affretto ad aggiungere, cogliendo al volo l’occasione di vendicarmi – siamo un trio, stasera. Se conti bene siamo tre, non quattro».
Il sorriso forzato e acido di Clare è inversamente proporzionale al mio, fintamente stupido e ingenuo.
«Sì, era quello che volevo dire» afferma  più seria, con quei suoi bei occhioni azzurri da cerbiatta che prendono fuoco.
Nessuno di noi si degna di risponderle (sono anche pronta a scommettere che Tom stia lottando per trattenere una risata) e io mi sposto leggermente più a sinistra per sbirciare un po’ all’interno: un lungo e largo corridoio inondato di luce e stracolmo di gente conduce ad un immenso giardino anch’esso affollato. Mi chiedo quanti siano gli invitati.
«Oh, ma entrate! Non vorrete mica restare qui, no? Ahahahaha!».
«Ahahahaha!» le facciamo eco con il più o meno velato intento di prenderla in giro.
Nel giro di nemmeno mezz’ora ho già salutato almeno la metà degli ospiti e con alcuni sono anche riuscita ad intrattenere conversazioni che andavano oltre il Come stai?. Direi che è un’ottima cosa, ma ho la sgradevole sensazione che la serata appena cominciata sarà molto lunga, lunga ed estenuante perché non devo mai abbassare la guardia. Non si sa mai cosa potrebbe accadermi in casa del nemico.
La situazione peggiora quando mi rendo conto di non essere più in grado di trovare Tom e Jo, ovvero quasi un’ora dopo il nostro arrivo. Sembrerà una boiata colossale, ma la villa è così grande (a proposito, c’è un terzo piano seminterrato non visibile dall’esterno) e gli invitati così numerosi che non riesco assolutamente a vederli. Inizio a sentire una sorta di panico farsi strada nella mia mente; cosa farò per tutto il resto della serata? Dove sono finiti, soprattutto? Erano dietro di me quando salutavo Berta Holbrook e cercavo di mostrare interesse per la sua folle e folgorante decisione di diventare un’egittologa e di come tale scelta l’avesse portata a conoscere l’uomo della sua vita. Sì, perché la maggior parte è tutta felicemente accasata e con prole.
Rassegnata e infastidita per essere stata abbandonata, dopo aver controllato per due volte il seminterrato senza successo, decido di restare al pian terreno convinta del fatto che, per andare via, quei due mascalzoni dovranno necessariamente passare di lì. Riesco abilmente a scansare alcuni vecchi compagni e le loro idiote domande (già tre persone mi hanno chiesto come mai non fossi in compagnia) fingendomi particolarmente interessata a dei finti Caravaggio appesi ai lati del corridoio come si trovassero in una galleria d’arte. La mia strategia non sembra funzionare con tutti, però.
«Ullalà, chi abbiamo qui? Dana Victoria Dalloway, la mia vecchia fiamma!».
Che esordio da sfigato. Tipico di un personaggio del genere, ma estremamente da sfigato.
Le opzioni sono le seguenti: posso far finta di non averlo sentito, posso dirgli di essersi sbagliato, posso scappare via a gambe levate e tornare a casa a piedi, oppure posso… semplicemente provare a rispondergli.
«Jimmy, ma quanto tempo». Impegnati di più, Dana, impegnati.
James Patterson mi si avvicina e mi bacia sulle guance con troppa confidenza. «Festa della Laurea di sei anni fa, ricordi? Ti avevo anche lasciato il mio numero e tu mi hai risposto che mi avresti chiamato, cosa che invece non hai mai fatto», i suoi occhietti da topo scintillano dietro la montatura nera.
Ma cos’è, tutta la gente più inutile e stupida del pianeta ha deciso di riunirsi oggi per darmi fastidio? Hanno appena inaugurato una nuova trasmissione, una specie di Candid Camera dei poveri?
Sento calore alle orecchie e non è un buon segno. «Sì, io… ho… perso il cellulare quella sera stessa! Sai no, ricordi… tutta quella confusione… e nessuno di noi era sobrio già da un po’…».
Jimmy annuisce vagamente convinto. Non mi importa se ci creda o no. «Capisco. Beh, è un peccato, avrai perso i contatti con tutti».
«Sì, in effetti è così».
«Quindi sarai felice di essere qui stasera. Scommetto che ti siamo mancati, scommetto che ti sono mancato».
Lancio un’occhiata veloce alla sua mano sinistra, un po’ allarmata. Non c’è nessuna traccia di anello e la cosa non mi aiuta affatto.
«Chi più, chi meno, non si può avere simpatia per tutti» rispondo neutrale, scrollando le spalle.
«Giusta osservazione. Ma dimmi, cosa fai di bello adesso?».
Altra domanda che odio. Il mio futuro non è esattamente come lo immaginavo e mi vergogna ammetterlo, anche se non si tratta di nulla di sconcio o illecito. «Lavoro, – spero che non mi chieda più nello specifico – e tu?».
«Anche, ma non più qui. Francoforte, ormai ci lavoro da quasi tre anni».
«Germania, bello». Voglia di intavolare una conversazione, stuprami!
Jimmy resta in silenzio a guardarmi come se si aspettasse che gli chiedessi qualcos’altro, e so che dovrei farlo, ma vedendo che me ne rimango zitta prende di nuovo parola. «Sono a Londra di passaggio, partirò tra due settimane».
«Oh». Il suo sguardo mi fa capire che si aspetta ancora qualcosa. Sant’uomo, quando pensa di lasciarmi andare? «Allora hai ancora tanto tempo. Rilassati e goditi le vacanze, mi raccomando».
Patterson fa per avvicinarsi pericolosamente al mio orecchio. Sa che quella è una zona off-limit, specie per lui? «Sì, sicuramente. Ma sono rimasto solo in città ormai e mi chiedevo se ti andrebbe di vederci e andare a prendere qualcosa da bere… magari settimana prossima, magari domani, magari… ora».
Inizio a non tollerarlo davvero più. Non che l’abbia mai fatto, certo, ma adesso sta esagerando e la prospettiva che la serata possa andare anche peggio di così mi turba e mi fa scappare un risolino nervoso che so per certo la mente deviata di Jimmy interpreterà per altro. «Ora non mi sembra proprio il caso».
«E domani?». Il suo braccio intorno ai fianchi mi innervosisce. Non ci vuole molto a capire che il sorcio sta cercando di rubarmi il bacio che si aspetta dai tempi del corso di pittura di scena, cosa che ovviamente non gli permetterò di fare. E aggiungo altro, questa è forse la volta buona che gli spiattello tutto in faccia e…
Una mano si poggia sulla mia spalla, delicata e timida. «La signorina domani è già impegnata con me. Scusa, James».
La faccia del Patterson cambia radicalmente espressione mentre si stacca da me e accenna a volersi allontanare. Io, dal mio canto, non penso che avrò una seconda occasione per apparire tanto idiota e insensata.
«Benjamin, è un piacere vederti» saluta cercando di sembrare meno acido di quanto sia in realtà. Estrae il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e si allontana. «Vogliate scusarmi, pare che qualcuno abbia bisogno di me».
Sono ancora troppo sotto shock per parlare, così lascio che sia il mio amico a salutarlo e augurargli una buona serata. È imbarazzante come questi due occhi verdi che mi fissano allegri riescano ancora a mandarmi a fuoco le guance, nonostante la vecchia abitudine e tutti gli anni passati. La sua mano però non resta a contatto con la mia pelle per più del necessario e, quando Jimmy è lontano, si sposta e ritorna in tasca.
«Allora, non dici niente?».
«Tempismo perfetto, Whishaw».
«Quello che tu non hai mai avuto» sorride mentre si fa strada verso il terrazzo.
«Sei sempre magro come uno spillo».
«Ho messo su qualche chiletto dall’ultima volta che ci siamo visti».
«Sarà, ma sembri ancora un bambino sottopeso» replico.
Ci fermiamo, ci guardiamo per un secondo o due e scoppiamo a ridere. «Ti sono mancato» afferma poggiandosi contro la ringhiera.
«Non più di quanto io sia mancata a te, tranquillo». Sono molto più felice di quanto possa sembrare, giuro. Lo guardo e non posso a fare a meno di notare quanto stia bene e quanto sia cambiato negli ultimi otto anni. «Mi piaci» dico stupidamente, e una largo sorriso prende forma nelle sue labbra, tanto che aggiungo: «Con questa barba un po’ incolta, intendo».
Benjamin si passa una mano sul mento con noncuranza. «Devo tagliarla. Spero di piacerti anche senza».
«Non importa. – scrollo le spalle – Ti sta bene» indico la sua giacca blu elettrico come il mio vestito. Il suo colore preferito, per di più.
Ben fa un mezzo giro su se stesso. «Sono accettabile conciato così? I colori s’intonano tutti?».
«Prendi ancora i vestiti a casaccio dall’armadio?».
«Non ho mai smesso di farlo. Vuoi?» domanda porgendomi un panchetto di Winston (anche quelle blu, naturalmente).
Ne prendo una e lascio che l’accenda con la sua. «Sto cercando di darci un taglio».
Espira e i suoi occhi si rimpiccioliscono mentre sorride. «Sei sulla strada giusta quindi, nulla da obiettare».
Restiamo in silenzio per un po’, fino a quando le nostre sigarette non sono quasi spente.
«Otto anni sono tanti».
«Già, ma non credere che la mia vita sia particolarmente speciale e che abbia fatto qualcosa di importante in quest’arco di tempo».
Mi rivolge un’occhiata apprensiva. «Crisi dei trent’anni?».
«Se tu la chiami così».
«Sono l’uomo giusto al momento giusto!».
Rido divertita, ma non faccio appena in tempo a rispondere che vengo fermata da una voce. «Ce l’hai fatta a venire, eh». Thomas e Johanna avanzano nella nostra direzione, vicini. Non posso fare a meno di rivolgere uno sguardo arrabbiato alla mia migliore amica, che mormora delle scuse veloci.
«Mi sono fatto forza e ho preso un taxi».
Jo abbraccia Benjamin sorpresa e penso che nemmeno lei sapesse della sua presenza.
«Tu lo sapevi?» domando rivolta a Tom. Quante cose mi nasconde la gente?
«Non ne avevo la certezza assoluta, ma lo speravo. Comunque sia, – Hiddleston si strofina le mani con fare allegro – adesso che siamo tutti qui riuniti direi che possiamo sgattaiolare benissimo fuori da questa casa di palloni gonfiati e andare a festeggiare, no?».
«Questa è la cosa migliore che abbia sentito in tutta la serata» concordo sbrigativa mentre afferro Jo per una mano e mi dirigo verso l’interno a ripescare la borsa.

Step 2, rest on my shoulder...

L'avete letto tutto? Tutto tutto? Ma sul serio? No, perchè vi meritate un applauso u.u
Aaaallora, che dire, il quartetto (Cetra) è ormai riunito e mi sto dando da fare col prossimo capitolo. Cosa che non mi sta venendo affatto facile, data l'improvvisa vena tragica che ho appena scoperto di avere. Nemmeno fossi l'erede di Sofocle, Eschilo o Euripide ._.
Quindi niente, a chi ha letto grazie e a chi non ha letto bravi xD

Mi inquino (#cit) alla vostra presenza,

A.


 
  
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