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Autore: LilithJow    10/05/2013    5 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 22
"Clarity"


«Devo trovarla» ripetei, stavolta ad alta voce. Martha sgranò gli occhi e la vidi subito scuotere vigorosamente la testa, in cenno di dissenso. «Oh, no, tu non farai proprio un bel niente» sentenziò.

«Tu non capisci!» quasi urlai. «Devo trovarla, devo parlarle e...».

«E' troppo tardi, Simon!» sbraitò la Divoratrice e si sforzò di restare calma. Strinse per un attimo i pugni lungo i fianchi e tirò un sospirò. «Ormai Hazel è più lontana dall'umanità di quanto tu possa solo immaginare» mormorò.

«Appunto per questo» singhiozzai. Mi parai davanti a lei e misi le mani sulle sue spalle. «Devo riportarla indietro, perché lei non ha mai voluto essere così, ma lo è diventata, per colpa mia».

Martha mi fissò. La sua espressione parve mortificata. «Apprezzo il tuo atto di eroismo» disse «ma l'unica cosa che posso fare è tenerti al sicuro, per il bene di tutti».

«Non per quello di Hazel». Avevo passato così tanto tempo ordinandomi di non pronunciare il suo nome – nemmeno pensarlo – che sentirlo con il mio tono mi mise i brividi. Lasciai ricadere le braccia di peso e mossi due passi all'indietro. «Aiutami» biascicai. «Ti prego».

Esitò.

Il mio sguardo ricadde anche su Tamara, che nel frattempo, non si era mossa più di tanto. Avrebbe potuto andare ovunque, scappare, dissolversi, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti, eppure rimase lì immobile. Forse aveva paura che fuori da quella stanza, Sebastian l'avrebbe trovata e punita per essersi fatta scoprire. Da lui, ci si poteva aspettare di tutto.
Tornai a puntare gli occhi su Martha. Fissava un po' a terra, un po' il mio viso. Era evidente quanto fosse indecisa. «E' un rischio troppo grande» mormorò, ad un tratto. «Se ti succede qualcosa, non...».

«Lei non lo permetterà» la interruppi.

«Non l'hai vista di recente».

Non seppi come prendere tale frase. Sicuramente, non bene. Hazel si era trasformata in un mostro, per colpa mia, qualcosa di intoccabile, a causa del dolore che le avevo imposto. Il punto era: si era davvero spinta così in là, tanto da uccidermi per davvero? Provai a dubitarne, ma tutto era possibile.

«Questo è solo un motivo in più per salvarla» mormorai. «E poi, se tu mi non mi aiuterai, cercherò di trovarla comunque, solo che ci metterò più tempo».

Mi morsi appena il labbro inferiore. Quello era una specie di ricatto – ingenuo e assolutamente poco efficace – ma pur sempre un ricatto, perché le cose sarebbero andate allo stesso modo, seguendo una via o un'altra.
Martha sbuffò, passandosi le dita nei lunghi capelli biondi e li fece ondeggiare sulla schiena. «Perché sei così ostinato?» chiese, sottovoce.

«Lo sai perché» risposi d'istinto e lei capì. In realtà, a mio parere, aveva sempre capito e stava semplicemente aspettando che io mi dessi una mossa.

Mi parve di scorgere un sorriso dietro quella maschera ostile e sarcastica che aveva indossato. «Credo di sapere dove si trovi» disse. «Ti ci porterò, ma io resterò con te».

«Devo parlarle da solo».

«Terrò una distanza di sicurezza».

«Martha...».

«Niente discussioni, ragazzo carino».

Usò l'appellativo con cui Hazel era solita chiamarmi. Lo aveva fatto sin da subito, quando era ancora Johanna per me. Per un solo attimo, sorrisi anche io, malinconico, e non osai obiettare ulteriormente.
Non mi preoccupai di salutare o fare qualsiasi altro cenno a Tamara. Per il momento, era uscita dal mio campo di attenzione, oltre che visivo. Mi affidai completamente alla Divoratrice bionda, che prese le mie mani e mi incitò a chiudere gli occhi.

Conoscevo le sensazioni che la smaterializzazione – o qualsiasi cosa fosse – dava ad un comune essere umano. Per alcuni secondi, dopo esser giunti a destinazione, il corpo mi formicolò, con leggere scosse elettriche lungo gli arti. Approfittai del breve tempo in cui ripresi sensibilità per guardarmi attorno, anche se non c'era molto da vedere, a parte il buio.

«Dove siamo?» sussurrai, quasi avessi paura di usare un tono più alto di voce. «Nel punto più alto della città» rispose lei.

Facendo mente locale, dovevamo trovarci sulla Willis Tower, il grattacielo più alto di Chicago. Ammesso che intendesse quello e non seppi dirlo con certezza fin quando, salendo delle scale di pietra su cui rischiai di inciampare più volta, non ci ritrovammo proprio in cima a quel maestoso edificio, sullo skydeck di vetro che di giorno è solitamente riservato ai turisti, preoccupandosi principalmente di impressionarli, ma di notte è pressoché deserto.
Deglutii rumorosamente nel momento in cui Martha mi fece un cenno con il capo, indicando qualcosa – qualcuno – poco distante.

Ed eccola lì: la figura esile di Hazel, in piedi, davanti ad una lastra trasparente e infinita di vetro, una grande finestra che si affacciava su Chicago, che scintillava di luci nell'oscurità della notte.
Stava di spalle, con addosso quel vestito bianco e logoro che nell'ultimo periodo aveva sempre avuto. I lunghi capelli scuri le ricadevano sulla schiena, appena mossi, ma sporchi di quello che sembrava essere fango, misto a ciò che purtroppo era sangue. Chissà di chi. Le sue braccia, abbandonate lungo i fianchi, avevano lo stesso aspetto trasandato, di chi si è lasciato completamente andare.

Una morsa mi si strinse attorno al cuore, pensando di essere io l'artefice di quello spettacolo.

Tremai e fu difficile da nascondere. Martha mise una mano sulla mia spalla. «Io rimango qui» mi sussurrò. Annuii, distratto. «Qualsiasi cosa succeda» replicai «tu non intervenire».

«Simon...».

«Fa' come ti dico. Per favore».

Non obiettò più. In fondo, sapeva che sarebbe stato inutile mettersi a discutere in un momento del genere. Indietreggiò, mimetizzandosi nel buio, mentre io cominciai ad avanzare, a passi lenti e incerti. Mi fermai solamente una volta raggiunto il centro della grande stanza di vetro, quando solo qualche metro mi separava da Hazel. Lei, nel frattempo, non si era mossa. Che non si fosse accorta della mia presenza? Piuttosto improbabile.
Strinsi i pugni così forte che rischiai di farli sanguinare. «Hazel» biascicai. Non ebbe alcuna reazione, inizialmente. Rimase semplicemente immobile, a fissare le luci degli altri grattacieli.

«Hazel» ripetei, con voce più ferma, per quanto impossibile mi risultò farlo.

Solo a quel punto lei barcollò appena e si voltò. Il suo viso era irriconoscibile: sporco di terra e sangue, graffiato, contorto in una smorfia di rabbia. Gli occhi, invece, i suoi meravigliosi occhi verdi erano ricoperti da un rosso fiammeggiante, acceso e intermittente.
Mi ritrovai a trattenere il respiro. Avrei solo voluto stringerla a me, sussurrarle di scusarmi e che tutto sarebbe andato bene, ma non potei fare nulla del genere.

«Perché sei qui?» ringhiò. Il tono della sua voce era rauco, quasi assente.

«Sono venuto a prenderti» mormorai. Hazel piegò le labbra in un mezzo sorriso, privo di entusiasmo e sarcastico, a tratti inquietante, complice il rivolo di sangue che aveva sul mento. «Va' via» sibilò.

Scossi vigorosamente la testa e osai fare un passo avanti. E poi un altro, un altro ancora, finché non le fui davanti, a pochi centimetri di distanza. «Vieni con me» sussurrai.

Lei, stavolta, rise, amara. «Dovresti correre via terrorizzato, finché sei in tempo» esclamò, acida.

«Non ho... Non ho paura di te». Mi pizzicai lieve la lingua.

Hazel mi guardò per un attimo, per un millesimo di secondo in cui riuscii a rivedere il verde dei suoi occhi; ma, purtroppo, tutto fu eclissato dal rosso in breve tempo. «Dovresti» disse, in tono stanco. Poi si gettò in avanti, su di me. Le sue mani raggiunsero il mio petto e mi spinse, con forza, più di quanto ne avesse mai usata. Volai, letteralmente, dall'altra parte della stanza, sbattendo con violenza contro una parete di vetro. Provocai una grossa crepa su di essa e scivolai sul pavimento. Il dolore alla schiena fu lancinante e mi portò a piegarmi in due, nell'inutile tentativo di rimettermi in piedi. Fui solamente in grado di mettermi seduto, ancora a ridosso della parete, tenendomi un braccio incollato allo stomaco. Probabilmente, mi ero rotto qualcosa nell'impatto.
Strizzai gli occhi e vidi Hazel avvicinarsi a passi lenti, che le fecero ondeggiare il vestito bianco. I piedi nudi calcavano il pavimento, lasciando impronte di terra secca.

«Perché sei così ostinato a morire, Simon?» esclamò. «Potrei ucciderti in un battito di ciglia».

«Non lo farai» mormorai.

«E questo chi lo dice?». Ringhiò e mi afferrò per la maglietta azzurra che indossavo. Mi sollevò di peso, mettendomi forzatamente in piedi e, non mollando la presa, mi fece nuovamente sbattere contro la lastra di vetro, provocando un'ulteriore crepa. Cercai di non urlare e ci riuscii a stento.

«Io...» biascicai, quasi fossi a corto di fiato. «Lo dico io».

Le supposizioni avute durante gli allenamenti con i manichini si rivelarono più che vere, ma forse era solo colpa di tutta quella situazione. Come potevo anche solo pensare di attaccarla? Punto primo: non avrei avuto la benché minima possibilità. Secondo: non ne ero capace, la mia mente mi bloccava.
I nostri visi, intanto, si erano avvicinati incredibilmente. Riuscivo quasi a percepire il suo respiro – gelido – sulla pelle. La sua mano, tuttavia, spingeva sul mio sterno, provocandomi altro dolore. Cercai di non focalizzarmi troppo su ciò.

«Non mi ucciderai» sussurrai «perché mi ami». Ero consapevole che giocare quella carta, in quel momento, avrebbe solo peggiorato la situazione. E, di fatti, dopo qualche secondo, un suo urlo precedette un altro schianto: il mio corpo che piroettava nella stanza di vetro e andava a sbattere con il doppio della violenza contro la parete opposta, provocando più di una sola crepa.
Feci appena in tempo ad accorgermi che avevo cominciato a sanguinare sulla nuca, prima che lei mi afferrasse nuovamente per il collo della maglietta. Strinse in una morsa il mio mento e mi fece male. «Io non posso amarti» sbraitò e i suoi occhi scintillarono. «Non posso. Non ho un'anima. L'amore è per gli umani e io non lo sono».

Citò le mie parole, quelle che avevo pronunciato con disprezzo, trovando il falso diario. Quelle che nemmeno pensavo, ma che la rabbia aveva portato in superficie.

Hazel mollò la presa e io ricaddi fragorosamente sulle mattonelle. Sollevai a stento il capo e vidi il pavimento macchiarsi di gocce di sangue. Piccole macchie rosse, una dietro l'altra.
Feci leva su un braccio solo, quello sano, ed ebbi successo nel mettermi seduto, a ridosso della parete. Lei si era voltata e continuava a muovere passi distratti per la stanza.
Socchiusi gli occhi, anche perché le palpebre riuscivano a stento a starmi su. «Hai sempre...» mormorai, tossendo. «Hai sempre pensato che gli esseri umani fossero perfetti». La vidi fermarsi, a quel punto, ma non si girò a guardarmi. Così continuai: «Solo per... Per il fatto che siamo in grado di provare qualcosa, perché abbiamo emozioni. Il problema è che la maggior parte di noi non le sa usare o lo fa nel modo sbagliato. Ecco perché spesso... Spesso facciamo degli errori. Grandi errori, a cui possiamo riparare solo rare volte. Siamo esseri... Contraddittori, cattivi, incoerenti. Siamo qualsiasi cosa, ma lontani anni luce dalla perfezione. Forse nemmeno dovremmo chiamarci umani. L'umanità è troppo pura, qualcosa di a stento raggiungibile, qualcosa in cui non meritiamo di identificarci». Feci una breve pausa e solo allora Hazel si voltò. Nella penombra, cercai i suoi occhi, ma li vidi a stento. «Ma tu sì» mormorai «tu la meriti e tu... Tu non sei questa. Sei quella che... Che mette la vita di un ragazzo imbranato prima della sua, quella che si intrufola nella sua stanza per cantargli delle ninne nanne perché sa che senza non sa addormentarsi, quella che torna da un'idiota come me, anche se prima l'ha trattata da schifo».

Mentre le mie parole scorrevano, lei si portò le mani sulla testa, tra i capelli. Chiuse gli occhi, quasi non volesse sentire la mia voce. Iniziò a bisbigliare qualcosa di incomprensibile, che, gradualmente, prese tono e si trasformò in un urlo: «Sta' zitto!».

Ubbidii, ma il fatto di iniziare a sentirmi estremamente debole fu complice. Hazel sembrava sull'orlo di una crisi di nervi. Iniziò a tremare, fuori controllo. Dentro di lei si stava compiendo una battaglia, riuscivo a percepirlo: il bene da una parte, il male dall'altra.
Alle sue spalle, scorsi Martha. Immersa nel buio, riuscii solamente a vedere bene i suoi occhi. Voleva intervenire, ma gli feci cenno, con il capo, di non farlo.
Strisciai lungo la parete con la schiena, a fatica, per rimettermi in piedi. Avevo la vista leggermente appannata, a causa della botta in testa e del dolore presente, in pratica, in ogni parte del mio corpo.
Ero sul punto di compiere un passo verso di Hazel, ma lei mi precedette. Mi venne in contro e mi bloccò contro il vetro, premendo i polpastrelli contro il mio petto. Aveva il fiatone, come se fosse stata sottoposta ad un enorme sforzo e capii cosa si stava accingendo a fare: nutrirsi della mia anima.

Lo avrebbe fatto sul serio?

Da come continuava a tremare, da come quel gesto risultava incerto, ne dubitai, ma ormai niente era più sicuro.

Sollevai lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono. C'era di nuovo il verde nei suoi.

«Vuoi prendere la mia anima, Hazel?» sussurrai. «Fallo. Non mi serve, non se non riesco a riportarti indietro». Sentii le sue unghie affondare nella carne e mi lasciai scappare un gemito. Mi sforzai di tenere gli occhi incastonati ai suoi. «Prima però» biascicai «dovresti sapere una cosa». Feci una breve pausa, durante la quale sollevai a stento una mano, posandola sul suo avambraccio teso.

«Mi dispiace» dissi, a bassa voce. «Mi dispiace per come ti ho trattato, per... Per non averti creduto sin dall'inizio e... E per quello che hai visto con Tamara e... Sono umano, no? Ecco i miei errori».

Portai la mano libera sulla sua, sopra lo sterno, e premetti delicatamente. I respiri di entrambi erano affannosi; il suo, forse, per l'ansia che la attanagliava. Il mio... Non seppi dire il perché.

La guardavo, cercando di andare oltre in sangue scuro che le macchiava la candida pelle del viso, oltre i capelli arruffati, oltre l'aria minacciosa che aveva sempre più crepe e instabilità; perché lì sotto c'era la mia Hazel, quella di sempre, quella di cui non avevo mai davvero dubitato.

Lo sapevo e basta.

«Ti amo, Hazel».

Lo dissi senza pensarci. Senza esitare, senza rimuginarci sopra, perché tanto era cosa ovvia, era cosa logica, era cosa che il mio inconscio aveva già capito, da sempre, ma che io mi rifiutavo di ammettere, perché bloccato dalle circostanze, perché frenato dall'eccessiva ragione, perché accecato dalla rabbia futile.
Probabilmente, non era uno di quei momenti romantici in cui avevo pensato di dire quelle due parole per la prima volta, ma andava bene comunque.

«Non. E'. Vero» sillabò lei e premette più a fondo le unghie nella carne.

«Tocca a te crederlo questa volta» biascicai. «Vuoi commettere anche tu un errore?».

Avevo le palpebre pesanti. Mancava poco e le gambe non mi avrebbero più retto in piedi. Mi sforzai, tuttavia, di restare vigile, cosciente e i suoi occhi, in tal caso, aiutarono molto.
Vidi tutto. Vidi come la sua espressione si spaccò in due, come, tentando di mantenere una facciata dura, ogni cosa si ruppe, lasciando spazio alla sua solita aria dolce e, in quell'occasione, rammaricata. Vidi i suoi occhi tornare ad essere solo verdi e farsi, pian piano lucidi; la mano scivolò via dal petto e la mia la seguì a ruota.

Hazel si buttò tra le mie braccia, affondando il viso nel mio collo. Non potei fare a meno che stringerla a me, sebbene la mia debolezza fece crollare entrambi a terra, io seduto, lei semi-sdraiata su di me e in lacrime.

«Va tutto bene» mormorai, appoggiando le labbra sui suoi capelli. «Va tutto bene».

Singhiozzò, aggrappandosi alla mia maglietta. Solo allora Martha ci raggiunse e non ebbi la necessità di fermarla. Rimase in piedi, a qualche metro di distanza e ci scambiammo uno sguardo veloce. Le feci capire che ero riuscito nell'intento con quel gesto e lei abbozzò un sorriso.

Era vero: l'amore umano può cambiare una persona. Hazel ne era l'esempio vivente. Se solo me ne fossi accorto prima, forse avrei evitato tutto quel casino. O forse, era semplicemente tutto necessario affinché me ne rendessi conto.

Sentivo ancora il sangue colarmi dalla nuca, quando Hazel sollevò il capo e mi guardò. Tremava, era continuamente scossa. Portò una mano sul mio viso e mi accarezzò la guancia con le dita, come meglio poteva, sfiorando delicatamente i miei tratti, dal sopracciglio destro allo zigomo.

«Sei... Sei ferito» biascicò.

Scossi appena la testa. «No. Sto bene» dissi. Era una grossa bugia. In realtà, ero convinto di essere sul punto di svenire, ma ero contento del fatto che fosse tornata a preoccuparsi per me, come aveva sempre fatto, del resto.
Martha intervenne. «Perché non andate a casa mia?» propose. «Io rimango qui a ripulire questo casino e poi vi raggiungo». Il suo tono di voce era piatto e tranquillo. Mi permisi di pensare, per un solo attimo, che tutto fosse finito per davvero e lasciai da parte il fatto che, invece, quello era solo l'inizio, perché Sebastian non si sarebbe arreso facilmente, non dopo esser arrivato così vicino al proprio obiettivo.

Hazel annuì distrattamente alla proposta dell'amica. Mi parve di sentirla sussurrare un grazie, prima che entrambi scomparissimo da quella torre.

  
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