Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Ivola    11/05/2013    6 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: Ed ecco a voi il vero inizio di tutto *risata malefica*
Già, benvenuti nel magico mondo di Ivola.
Ok, la cosa che preferisco di più di questo capitolo sono i flashbacks (specialmente quello BenAus). Il resto... bao. (E' colpa di Mito se adesso 'bao' è diventata ufficialmente una parola del mio dizionario!)
Tornando alle cose serie, non so che dire. Grazie alle 10 persone che hanno messo la storia tra le seguite *o* E anche a quelle povere anime che recensiscono, siete un amore ♥ 
Per la formula del matrimonio mi sono chiaramente ispirata a quella che noi tutti conosciamo, anche se ho cambiato qualcosina. Mi piace pensare che sia rimasta intatta nonostante gli abitanti di Panem - per la maggior parte, presumo - non siano più credenti. Questa è la mia visione delle cose.
Anche il fatto che Londie indossi un abito bianco potrebbe non entrarci molto nell'ambientazione, in effetti, ma ho preferito mantenere la tradizione, anche perché non vedo persona migliore di lei per indossare qualcosa, appunto, di bianco. 
Non voglio divagare, spero solo che questo quarto capitolo vi piaccia (il prossimo è il mio preferito tra quelli che ho scritto finora, gh).
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Now" dei Paramore.

Il banner appartiene a pandamito ♥


















Image and video hosting by TinyPic







Blur
∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
004. Fourth Chapter – Lost the battle.




London era sempre stata bella. Bella come un fiore in primavera, bella come un raggio di sole dopo la pioggia, bella come una goccia di speranza in un mare di disperazione.
Eppure, indossando l’abito da sposa di sua madre, rimase folgorata dalla figura candida che ricambiava il suo sguardo sconcertato nello specchio. Era raggiante, in quel mare di bianco puro. Immacolata. Tuttavia non riusciva a liberarsi di quel peso sullo stomaco che sembrava scavare dentro di lei come una vanga.
Non aveva toccato cibo, né parlato molto.
Erzsébet, dietro di lei ad aggiustarle la semplice acconciatura, le sorrise comprensiva.

« E’ normale che tu sia nervosa, tesoro » le disse, accarezzandole piano le spalle.
London la guardò dallo specchio in tralice. Nervosa? Lei non era nervosa; solo leggermente incazzata. C’era una bella differenza.

« Mamma » fece London, piano, per evitare eccessivi sbalzi d’umore che le avrebbero rovinato il portamento, « non sono nervosa. Prima finisce tutta questa farsa, meglio è. »
Falso. La ragazza avrebbe voluto rimandare il matrimonio in eterno, ma ormai era giunto il fatidico giorno ed era impossibile evitarlo.
La signora Bridge fece una mesta espressione. 
« Sono sicura che Klaus sarà un buon marito. »
A London quasi venne da ridere. « Chi, Klaus? Stiamo parlando della stessa persona? »
« Non fare così » disse, rattristita. « Vedrai che anche tu riuscirai ad essere felice. »
La ragazza, come in un lampo, si ricordò le parole di suo fratello della sera precedente.

Era una notte fredda e buia, ma i due ragazzi, stesi l’uno accanto all’altra sul letto dell’acogliente stanza dalle pareti azzurre di Ben, non vi stavano badando neanche lontanamente. Erano nudi, coperti solo da un leggero lenzuolo di seta e guardavano il soffitto entrambi con aria pensosa.

« Domani è il grande giorno » disse lui, rompendo il dolce silenzio che si era creato.
London si passò una mano sul viso. 
« Me l’avranno detto già una quarantina di persone, oggi. »
« Scusa » fece Ben, con un sorriso amaro.
« E poi non credere che sposerò Klaus sul serio, insomma » aggiunse la ragazza.
« Cos’hai in mente? » chiese il fratello.
« Non credo che lui si presenterà – e farebbe l’unica cosa buona della sua vita – ma, in caso contrario, dirò semplicemente di no, al Palazzo di Giustizia. »
Ben la guardò di sottecchi per qualche istante.
London sbuffò. 
« Perché mi guardi così? »
Il ragazzo spostò nuovamente gli occhi grigioverdi in direzione del soffitto, come se stesse osservando chissà quale cielo stellato. « Mamma e papà te lo rinfaccerebbero per sempre. »
« 
Ah » disse lei, sarcastica. « E’ questo che ti preoccupa? »
L’altro non rispose, assorto nei suoi pensieri.
« Ben » lo chiamò London, con il tono leggermente addolcito. « Tu non vuoi che io sposi Klaus, vero? »
« Certo che no, ma… » tentennò lui.
La ragazza si mise a sedere di scatto, indignata, mantenendo il lenzuolo all’altezza del seno. 
« Cosa stai dicendo? »
« Credo che dovresti. »
Nella stanza scese un pesante silenzio.
« Perché? » domandò London flebilmente, gli occhi spalancati nel buio che a malapena distinguevano l’espressione affranta sul volto del gemello – così uguale e diverso al contempo dal proprio.
« Tu meriti di essere felice, London » rispose lui, cauto, accarezzandole una mano per tranquillizzarla.
« Sai meglio di me che sposando quel troglodita non lo sarei mai. »
« Non lo saresti comunque sposando qualcuno che non sia io » disse Ben per lei, leggendole nel pensiero. « Lo sai, non permetterebbero mai che due fratelli… »
« Non importa » lo interruppe la ragazza. « Io non voglio sposarmi. Mi basta stare con te. »
« Ma non puoi restare nubile per sempre, e neanche io, o daremmo un dispiacere a mamma e a papà... e il nome di famiglia si estinguerebbe. »
London era troppo in collera con il mondo per cogliere la sfumatura di dolore nelle parole del fratello. Fare quel discorso faceva molto male anche a lui.
« Anche io vorrei poter stare sempre con te » continuò il ragazzo, circonandola con le braccia e posandole un bacio sul capo. « Ma tu meriti di essere felice, di vivere con un uomo che ti ama e… »
« Klaus non mi ama, se non te ne sei accorto » fece bruscamente London.
Ben sembrò lasciare volutamente la frase in sospeso. 
« La felicità arriverà, vedrai, e se tu sei felice sono felice anche io » riprese il gemello. Stava piangendo. « Lontani, ma sempre uniti. »
« Lontani, ma sempre uniti » ripeté lei, come un mantra. Se avesse avuto la capacità di piangere, London avrebbe già versato tutte le sue lacrime.
Quasi sentì il suo cuore sprofondare quando il ragazzo la baciò, stringendola come polvere pronta a volare via dalle sue mani.

« Ti sposerai per me, vero? » chiese Ben, infine, prendendole il viso delicatamente, come se fosse fatto di porcellana.
« Ben, io… » balbettò la sorella, abbassando lo sguardo. « Non puoi chiedermi di farlo. »
« Per favore » la supplicò il ragazzo, inducendola a guardarlo di nuovo negli occhi. « Domani ti sposerai, London. Per me. »
London lo baciò di slancio, di nuovo, con più lentezza e passione, dopodiché sussurrò affranta: « Sì. »

« Ecco, adesso sei perfetta » le disse infine sua madre, aggiustandole il velo sul capo. Vedendo che la figlia non rispondeva, continuò: « Sai? Anche io all’inzio non volevo sposarmi. »
London, con il suo silenzio ostinato, la invitò a proseguire.
« Non volevo sposarmi con quel ragazzo che i miei genitori avevano scelto per me » rivelò la donna, ferma accanto alla figlia. Si somigliavano davvero molto, sebbene la giovane fosse più alta e slanciata e il loro colore di capelli fosse completamente diverso. « Ma alla fine mi dissi che non doveva essere poi così terribile. » Fece una breve pausa. « Ci sposammo, sì, e tu sai bene quanto io ami tuo padre. »
London si voltò dall’altro lato. Ma mio padre non è Klaus, pensò, frustrata.
Perché nessuno capiva che non ci sarebbe mai potuta essere una sorta di idillio, tra lei e Klaus? Perché nessuno si era mai neanche sforzato di comprendere?
Fece un giro per la stanza, arrivando di fronte alla finestra che dava sul cortile del maniero.
Era una bella giornata. Il sole era alto e, anche se un po’ pallido, accarezzava dolcemente i profili dei palazzi del Distretto. London scostò le tende, notando suo padre che la aspettava accanto al cancello, di sotto.

« Adesso sei pronta » le fece eco Erzsébet, prendendole il suo bouquet di candidi gigli. La ragazza lo prese dalle sue mani con diffidenza, ma si rilassò leggermente quando la madre le sfiorò amorevolmente una guancia. « Fidati di me. Sarai felice. »
Gliel’avevano detto già diverse volte negli ultimi giorni, eppure London provava un’immensa difficoltà nel crederci.
 
 

*

 

I sogni di Klaus, nell’ultimo periodo, erano fatti di sangue, tributi, spade, ancora sangue. Ma soprattutto buio.
Incubi, ecco di cosa si trattava. Fantasmi che lo perseguitavano senza tregua, lasciandolo spiazzato dal fatto che lui non potesse fare assolutamente nulla per contrastarli e vincerli.
Stava rigirandosi nel letto, appena ridestatosi da una nottataccia, quando suo padre in persona entrò nella stanza e aprì le tende con un gesto secco. La luce improvvisa lo abbagliò e lo costrinse a strizzare le palpebre ripetutamente.

« Ma che cazzo…? » biascicò lui, ancora mezzo addormentato.
« Alzati » gli intimò sbrigativamente Frantz, andando a recuperare l’abito da sposo del figlio dall’ampio armadio. « Sei già in ritardo. »
Gli lanciò i pantaloni neri sulle lenzuola, al che Klaus grugnì e si ritirò definitivamente sotto di esse, coprendosi la testa con il cuscino.
« Dobbiamo essere al Palazzo di Giustizia entro un’ora » riprese il padre, prendendo cravatta, camicia e giacca senza scomporsi. « Sbrigati; tra dieci minuti ti voglio al piano di sotto. »
Lanciò il resto degli indumenti accanto ai pantaloni, sul letto.
« Va’ al diavolo » mugugnò il figlio da sotto il cuscino, premendosi la federa sulle orecchie.
« Dieci minuti » ripeté Frantz, uscendo dalla stanza.
Klaus sbuffò, trattetendo l’ennesimo insulto che premeva per uscire dalle sue corde vocali. Si alzò a sedere, conscio che il padre se ne fosse andato, ma poi ricadde sul materasso con un tonfo irritato.

Dieci minuti dopo, Frantz Wreisht risalì le scale, ben consapevole che il figlio stesse ancora rintanato nel letto. Dopo essersi precipitato nuovamente nella camera, gli scostò bruscamente le coperte dal corpo e le buttò in un angolo. 
« Alzati » gli disse per la seconda volta, con il tono più duro. « Cinque minuti. »
Klaus, dopo che il padre ebbe sbattuto la porta e fu sceso al piano di sotto, lanciò un grido di esasperazione e andò a recuperare gli abiti malvolentieri.
Perché sto eseguendo gli ordini come un fottuto cane bastonato?, si domandò, anche se era già al corrente della risposta.
Era stato minacciato.
Fece una risata sarcastica al ricordo del pomeriggio precedente. Era stato minacciato da Benjamin Bridge.

Quel pomeriggio tirava una brezza fresca, che scompigliava bonariamente i capelli e faceva scuotere leggermente le fronde dei pochi alberi del Distretto Sei.
C’era molta gente per strada, dopotutto in una così piacevole giornata era da suicidio restare in casa a piangersi addosso. Cosa che Klaus Wreisht stava facendo senza risentimento, chiuso nella sua camera al primo piano. Era tornato a casa da appena due giorni e già si sentiva soffocare, più di quanto gli sembrasse durante gli Hunger Games.
Gente che non aveva mai minimamente calcolato durante i suoi diciott’anni di vita veniva a complimentarsi con lui per la vittoria; i suoi genitori lo riempivano di chiacchiere pre-matrimoniali; i Pacificatori lo scortavano come se fosse una personalità importante, o peggio, un criminale tenuto sotto sorveglianza.
Era come un vestito che gli stava troppo stretto. Lo soffocava, letteralmente.
Fece un tiro dalla sigaretta appena accesa e subito dopo sbuffò una densa nuvoletta di fumo, inebriandosi della tranquillità che il tabacco gli trasmetteva.
Pace. Un attimo di pace.
Poi la calma fu interrotta dalla porta della sua stanza che si aprì improvvisamente.

« Devo parlarti » disse Benjamin Bridge, senza gli stupidi convenevoli a cui era stato educato.
Klaus inarcò le sopracciglia. 
« Chi ti ha fatto entrare? »
« I tuoi, mi sembra ovvio. »
Il moro non si alzò dal divanetto su cui era appollaiato e fece un altro tiro, annuendo. « Grandioso. Vi siete coalizzati per rendermi la vita un inferno, a quanto pare. »
Ben rimase qualche istante in silenzio, poi si accomodò senza invito su una poltrona di fronte all’altro, guardandolo dritto negli occhi.
« Sei venuto qui per supplicarmi di non sposare la tua amata sorellina, domani? » domandò Klaus, reclinando la testa all’indietro.
« Semmai il contrario » rispose il ragazzo dai capelli albini con voce corrucciata.
Il giovane Wreisht quasi non riuscì a sopprimere una risata. 
« Tu vuoi che io sposi London? » rise, tralasciando per un secondo la sua amata sigaretta. « E’ ridicolo. »
Ben socchiuse gli occhi, come a voler darsi forza. « Ho i miei validi motivi. »
« Sai bene che non lo farò. »
« Io credo di sì. »
Klaus lo fissò di sbieco. « Cosa te lo fa pensare, Orologio? »
« Voglio che tu mi dica la verità, Klaus » riprese Ben, più serio che mai – e sicuramente più serio del suo interlocutore, « Sei innamorato di London? »
Il moro si alzò di scatto dal suo divanetto. « E’ la seconda volta che mi fai questa domanda. »
« Ed è la seconda volta che mi aspetto una risposta. »
« Fottiti, Ben. »
Ben si alzò a sua volta, parandoglisi di fronte. « Quando eri ubriaco mi hai confessato di amarla. »
Klaus sentì gelarsi il sangue nelle vene. Aveva detto una cosa simile? In presenza di qualcuno, per di più? « Ti sbagli » disse, anche se con meno convinzione del solito.
« Fidati » fece l’altro, sorridendo, come se fosse una piccola porzione di vittoria vedere il suo nemico esitare. « L’hai fatto. »
I ragazzi per un istante non parlarono, poi per l’altro fu come avere una rivincita: « Anche tu hai detto tante cose, quando eri ubriaco. »
Stavolta fu Ben a impallidire, ma cercò di darsi un contegno, dimostrando che la cosa non gli importasse più di tanto. « A tal proposito » ribatté l’albino, con il tono fermo di chi non si arrende facilmente. « Ti ricordi di quella notte, sì, Klaus? »
Klaus ghignò in risposta. « Ma ovviamente. »
« Se non sposi London » proseguì Ben, deciso, « farò in modo che tutto il Distretto venga a sapere di cosa successe. »
Il moro impallidì di botto. « E’ una minaccia? »
« Probabilmente sì. »
« Perché vuoi che sposi London? » gridò l’altro, furibondo. « Non eri il suo amato tromba-fratello, un tempo? »
Ben ignorò la provocazione. « Ho le mie ragioni, ma sappi che sono disposto a tutto pur di vedervi sposati. »
Quel tutto suonava tanto ambiguo, per i gusti di entrambi.
« Definisci “tutto”, Ben Bridge » ribatté Klaus, troppo orgoglioso per ammettere di essere completamente nelle mani di quell’idiota.
Ben, senza esitare, avvicinò le proprie labbra alle sue, come aveva fatto un tempo, e lo baciò di sfuggita. 
« Immagina. »
Il moro tirò un’altra boccata dalla sigaretta, dopodiché la passò all’altro, che tossì non appena inalò il fumo.
« Pivello » lo prese in giro Klaus, riprendendosi la sigaretta. Fece l’ennesimo tiro, e poi fu lui a baciarlo, stavolta. Non contò quanti minuti passarono, né ne aveva voglia.
Voleva solo un po’ di pace.


Klaus si guardò allo specchio. Voleva davvero che la sua reputazione venisse ulteriormente rovinata, quando tutto il Distretto sarebbe venuto a sapere della sua notte di fuoco con il pupillo dei Bridge?
No di certo, ma non sapeva cosa fosse peggio, se sposare London o essere pubblicamente e allegramente sputtanato da suo fratello. Si trovava con un cappio al collo.
Aveva sperato che la notte gli portasse consiglio, ma così, ovviamente, non era avvenuto.
Indossò la camicia bianca e profumata, che aderì perfettamente alle sue spalle e al suo petto.
Stava ancora pensando di non presentarsi. Dopotutto non potevano costringerlo. Forse.
Stava riflettendo su quale potesse essere il male minore, quando sua madre entrò nella stanza, con gli occhi lucidi dall’emozione. 
« Oh, Klaus » sussurrò, con voce tremula. « Fatti aiutare. »
Inutile dire che il ragazzo si scostò bruscamente, sebbene non sapesse neanche come allacciare la cravatta. « Faccio da solo. »
Shyvonne lo tranquillizzò con una carezza sulla spalla. « Vieni qui » gli disse, prendendo i lembi della cravatta tra le dita sottili per aiutarlo. La donna si accorse che al figlio tremavano le mani – dal nervosismo? « E aggiustati un po’ questi capelli, sembri uscito dalla giungla! » commentò bonariamente la madre, dandogli un bacio su una guancia. Al gesto lui rispose con una smorfia di insofferenza.
« Noi ci avviamo al Palazzo di Giustizia, ormai manca poco » disse quella, tornando seria. « Ti aspettiamo lì. »
Klaus capì che i genitori contavano che lui si presentasse senza storie, e forse quella cosa avrebbe potuto giocare a suo favore, se avesse deciso di mandare al diavolo tutti e di andarsi a bere una birra con i compagni.
« Splendido » fece ironicamente, mentre Shyvonne usciva perfettamente in equilibrio sui tacchi a spillo nonostante l’età avanzata.
Indossò la giacca nera e si appuntò le scarpe di cuoio.
Era una bella giornata, perché avrebbe dovuto sprecarla?

 

*


 
Nella stanza c’erano poco più di una decina di persone.
I matrimoni a Panem si celebravano nel Palazzo di Giustizia, in una sala tranquilla con poche panche per i parenti più stretti e due scranni rivestiti di velluto per gli sposi, che sedevano davanti a un giudice, il quale li avrebbe proclamati marito e moglie.
London era arrivata già da un quarto d’ora, accompagnata dalla sua famiglia, e ora sedeva nervosa torturando il bouquet di gigli con le mani, come se fosse il suo unico appiglio per non impazzire definitivamente.
Oltre ai Bridge, erano presenti la famiglia del sindaco – che comprendeva una figlioletta di cinque anni – e i due attuali mentori del Distretto Sei, quali Ludmille Schnee, vincitrice a soli dodici anni, e Rafe Donald, vincitore a diciassette, che inoltre era accompagnato da sua moglie, una donna dal viso dolce e i capelli rossi come il fuoco. I due mentori stavano conversando a voce bassa, poiché molto probabilmente erano stati invitati solo perché considerati due delle personalità più in vista del Distretto. Il giudice Harrison stava parlando con il sindaco, sfogliando alcuni documenti che avrebbero dovuto firmare gli sposi.
Mancavano solo i Wreisht.
London sperava ancora che Klaus avesse avuto la brillante idea di non presentarsi, ma qualcosa le diceva che i suoi genitori l’avrebbero ricattato pur di ottenere ciò che volevano. Che non si trattava solo di un misero anello al dito, lo sapevano bene entrambi.
Lo scopo del loro matrimonio era dare alle due famiglie un erede. Un erede di sangue nobile, esattamente come loro e i loro avi.
Su questo piano, però, non li avrebbero mai potuti costringere. London non si sarebbe mai venduta a Klaus, neanche se l’avessero minacciata.
Non sapeva se poter affermare il contrario – era stato lui a baciarla l’ultima volta o no? – ma si sentiva abbastanza tranquilla in questo frangente. Stava per sposarsi, era vero, ma era certa che avrebbe continuato ad amare Ben senza riserva. Matrimonio o no, lei apparteneva a suo fratello.  
Persa nei suoi pensieri, sobbalzò quando la porta della stanza si aprì di scatto, rivelando un Frantz e una Shyvonne Wreisht elegantemente abbigliati. Senza dire una parola, si sedettero su una panca, in silenzio.
Dov’era Klaus?
Tutti avevano quella domanda in testa, ormai.
Era abitudine, inoltre, che lo sposo si presentasse prima della sposa, e non viceversa. Ecco perché sia il giudice che il sindaco sembravano  infastiditi.

« Sta arrivando » disse sbrigativamente Frantz, con una cupa espressione sul volto marcato.
London pensò che non aveva mai visto sorridere quell’uomo. Sua moglie, invece, sembrava felice, anche se leggermente nervosa, quasi fosse stata lei a doversi sposare entro pochi minuti.
L’attesa fu decisamente snervante. I presenti ad ogni minimo rumore si voltavano speranzosi verso la porta, che puntualmente non si apriva, beffarda.
La ragazza cercò lo sguardo del gemello, a poca distanza da lei. Quello le fece un sorriso d’incoraggiamento.
Era incredibile come Ben riuscisse a mantenere un atteggiamento composto anche in una situazione del genere; chiunque altro al posto suo avrebbe potuto far crollare il Palazzo di Giustizia, se ne avesse avuto la possibilità. London cercò di sorridere di rimando, ma tutto ciò che fiorì dalle sue labbra fu solo una smorfia palesemente rattristita.
Era in quei momenti che avrebbe voluto uccidere Klaus Wreisht con le sue stesse mani.
Passarono altri, lunghi minuti, in cui la sala era animata solo da un leggero chiacchiericcio indistinto.
Poi, quando tutti meno se l’aspettavano e avevano cominciato a perdere le speranze, qualcuno entrò nella stanza a passo svelto, con i pugni stretti in una morsa ferrea e lo sguardo basso.

Klaus si sedette sullo scranno immediatamente affianco a quello di London e non si rese nemmeno conto che probabilmente tutti – e specialmente la sposa – lo stavano fissando con sguardo di rimprovero.

« Be’, allora cominciamo » borbottò il giudice, accomodandosi su uno scranno più alto di fronte ai due giovani.
London ormai sembrava rassegnata, Klaus soltanto turbato e smanioso di finire al più presto quella farsa. Il giovane Wreisht si voltò giusto un istante verso Benjamin Bridge e vide che quello annuiva, soddisfatto di aver convinto i due promessi a sposarsi finalmente, nonostante l’infinita tristezza che traspariva dal suo sguardo vacuo.

« Siamo qui riuniti » cominciò il giudice Harrison, aggiustandosi gli occhiali sul naso adunco, « per unire in matrimonio quest’uomo e questa donna, in virtù dei poteri a me conferitimi. » Una breve pausa d’effetto. « Qual è il tuo nome, giovane uomo? » chiese a Klaus, come richiedeva la procedura.
« Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht » rispose tra i denti. Detestava il suo nome completo, da buona norma per un ragazzo dal comportamento non convenzionale come lui.
« E qual è il tuo nome, giovane donna? »
« London Lucilla Juliet Bridge » disse invece la ragazza, fissando un punto impreciso della parete. Era meglio così. Tenere lo sguardo puntato nel nulla non la faceva pensare a niente.
« Cosa vi spinge a sposarvi, quest’oggi, in questo palazzo? »
Klaus fu il primo a rispondere e, avendo imparato la formula a memoria tempo addietro, fece prontamente, calcando le parole come a voler sottolineare la loro più completa falsità: « Il rispetto, la fedeltà, l’amore. »
London, con una smorfia di disgusto, ripeté: « Il rispetto, la fedeltà, l’amore. »
Per i restanti dieci minuti, fu il giudice a continuare a parlare, come era previsto, mentre i due sposi non si guardavano neanche, nonostante le loro ginocchia si sfiorassero. Entrambi non avevano mai sopportato la vicinanza dell’altro, a meno che non si trattasse di picchiarsi selvaggiamente. Quel contatto, seppure minimo, infastidiva tutti e due; probabilmente le loro pelli scottavano, quando si toccavano.
« E quindi, vuoi tu Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht prendere in sposa la qui presente London Lucilla Juliet Bridge, e promettere di amarla e onorarla in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non vi separi? »
La domanda arrivò inaspettata, probabilmente perché entrambi non avevano ascoltato neanche una parola del monologo precedente. Klaus capì di essere stato chiamato in causa solo quando London gli diede una leggera gomitata nello stomaco.
Non voleva perdere tempo, ma sentire pronunciare quelle parole gli annebbiò la mente. Doveva dire di sì?
Il suo mutismo infastidì il giudice che ripeté: 
« Vuoi tu… »
« Lo voglio » disse bruscamente Klaus, al che si sentì un vero e proprio sospiro di sollievo da parte dei suoi genitori, seduti al lato destro.
Aveva firmato la sua condanna, ora non toccava che a London.

« E vuoi tu, London Lucilla Juliet Bridge, prendere in sposo il qui presente Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht, e promettere di amarlo e onorarlo in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non vi separi? »
London si voltò una seconda volta verso suo fratello, che aveva palesemente gli occhi lucidi. Le venne improvvisamente la nausea.
Promettere di amarlo? Negativo, assolutamente. Come si poteva amare uno stronzo del genere?
E onorarlo, anche? Doppiamente negativo. Avrebbe preferito di gran lunga seviziarlo, torturarlo e infine ucciderlo tra atroci sofferenze.
Finché morte non li avrebbe separati? Probabilmente tutti i presenti in sala non conoscevano il reale significato che quelle parole avevano avuto nell’antico mondo precedente la nascita di Panem, eppure suonavano come una minaccia. Sarebbero stati uniti fino alla morte, vincolati da uno stupido contratto.

« Io… » disse, ma così flebilmente che nessuno la sentì, eccetto Klaus che, pur non guardandola, era tutt’orecchi. Il giudice, spazientito, alzò un sopracciglio. « Lo voglio. »
« Vi dichiaro dunque marito e moglie » fece Harrison con un sospiro. « Se c’è qualcuno a conoscenza di qualche impedimento per il quale quest’uomo e questa donna non dovrebbero unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre. »
London avrebbe voluto urlare. Dire a tutti gli idioti presenti in sala che lei non amava Klaus, che amava Ben e che invece odiava il primo con tutto il cuore, che l’aveva sempre provocata, insultata, odiata a sua volta, che non avrebbe voluto spendere il resto della sua vita con lui. Ma probabilmente era troppo tardi.
Nessuno parlò, come a confermare i suoi sospetti. L’assalì un’ondata di panico, che seppe gestire prontamente. Era fatta.

« Scambiatevi le fedi » disse il giudice, porgendo loro una piccola scatolina contenente i due anelli d’oro.
Klaus le prese una mano e lei la ritirò di scatto. I presenti si guardarono tra loro a quella scena, interdetti. Capendo che non poteva rifiutarsi in quel modo, fu lei la prima a mettere la fede all’anulare di suo marito - già il solo chiamarlo così le annebbiava la vista dalla rabbia.
Quando prese con decisione la sua mano, il ragazzo alzò finalmente gli occhi sulla sposa e quasi sembrò folgorato da quanto lei fosse bella ed elegante nel suo abito nuziale.
La stava guardando per la prima volta in quella giornata.
Poi anche l’anello di London fu messo al suo posto, all’anulare sinistro, la cui pelle quasi pecepiva il nome che vi era inciso all’interno.
Tutti si alzarono.

« Potete baciarvi. »
« Come? » disse Klaus, bloccandosi.
« Potete baciarvi » ripeté il giudice, esasperato.
« Puoi baciarmi, Klaus » quasi lo autorizzò la ragazza, laconicamente rassegnata.
Sotto gli occhi sollevati dei Wreisht e dei Bridge, lui la baciò. Veloce e indolore. E, con quel gesto, un accordo si era compiuto, mentre una battaglia – la battaglia dei due promessi che oramai non erano più tali – era stata inevitabilmente persa.












 
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Ivola